martedì 26 gennaio 2016

Rick Moody

A volte basta una breve intervista per riuscire a penetrare nel mondo di uno scrittore. Succede in questo colloquio tra David Ryan e Rick Moody, che procede per tentativi, anche se sempre all’interno di un perimetro molto cordiale e di reciproca attenzione. E’ quello che ci vuole perché l’approccio di Rick Moody è un’arma non convenzionale, con un metodo, se è un metodo, sfuggente e allergico alle regole. Lo mette subito in chiaro, allontanandosi senza esitazioni dal primo, intoccabile comandamento del bravo narratore: “Per quanto riguarda il mestiere della scrittura, sono restio a ogni tipo di buon senso tradizionale: oppongo sempre resistenza al vecchio adagio secondo cui bisogna scrivere solo di ciò che si conosce bene”. Pur partendo da letture rispettabili (Hemingway prima di tutti), Rick Moody si è ritagliato uno spazio particolare nell’articolare il suo tentativo di “comprendere meglio cosa significa essere umani”. Pur non avendo alcuna intenzione esaustiva, Col pianoforte ero un disastro riesce ad allineare alcuni suggerimenti sulle visioni di Rick Moody rispetto alla forma, allo stile, agli obiettivi e alle speranze. La moderazione e i canoni sono superati già nelle fasi iniziali del dialogo con David Ryan e ben presto le ricognizioni autobiografiche cominciano a confondersi e a mescolarsi con le fonti d’ispirazione e con gli esperimenti creativi perché come spiega Rick Moody la sua vita e la sua letteratura “sono scritte in fiotti, più come epilessia che come una narrazione”. La descrizione, da sola, basterebbe a riconoscere all’istante Rick Moody che poi, nel corso dell’intervista, è abbastanza prodigo di suggerimenti utili a sviscerarne l’imperscrutabile identità. Dall’inizio alla fine, le considerazioni sono molto empiriche, anche se lasciano intravedere parecchio del suo travaglio: quando comincia un romanzo, quello che ha è “qualche personaggio, qualche immagine e molte speranze che venga fuori qualcosa di buono”. Se questa è più o meno la linea da cui per tutti comincia la maratona, già alla prima curva Rick Moody impone un’accelerazione, che evidenzia anche uno dei tratti salienti della sua “arte della narrativa”: “Credo sia necessario spingere i personaggi in situazioni drammatiche dove i conflitti che segnano la loro vita si fanno più evidenti che mai”. Non è difficile rintracciare questa tensione nei suoi romanzi, Rosso americano su tutti, resta il fatto che l’ambizione dichiarata di ogni sforzo è quella di arrivare infine a “un fallimento migliore” e questo, se non altro, lo rende credibile, anche nelle sue capriole più criptiche. Lo si intuisce anche dall’understatement del titolo, del resto decisamente appropriato: Col pianoforte ero un disastro riassume in poche parole l’intenso rapporto di Rick Moody con la musica (“Mi ha insegnato gran parte di quello che so sulla prosa, sul suono che la prosa dovrebbe avere”), poi celebrato nel dettaglio con Musica celestiale, e qui invece declinato con un breve elenco di amatissime rock’n’roll band, “i primissimi Yo La Tengo, i Db’s, gli Individuals, i Golden Palominos”. Non si trovano in tutti gli scaffali.

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