sabato 30 maggio 2015

John Cheever

John Cheever racconta come nessun altro l’Italia, e Roma in particolare, con la sua decadenza, con quel mood da declino irrimediabile dell’impero, con quell'atmosfera di un paese arcaico, rustico, senza speranza. La sua esperienza gli consente di riconoscere che “la bellezza dell’Italia non è più tanto facile da avvicinare, se mai lo è stato” e, da quel punto di osservazione, diventa insuperabile nel cogliere, in poche righe, lo spirito fatale della città. Il rumore della pioggia a Roma raduna tre racconti brevi, The Bella Lingua, Clementina e Boy In Rome che, così assemblati, hanno un senso proprio e anche una continuità logica. The Bella Lingua segue le peripezie di Wilson Streeter, in cui non è difficile vedere un alter ego dello stesso John Cheever, che, come si sa, è stato a lungo ospite dell'Italia e di Roma. All'inizio, la capitale gli appare come “uno spettacolo esaltante, disorientante: le rovine di Roma repubblicana e imperiale, le rovine di ciò che la città era stata fino a poco tempo prima”. Il fascino esorbitante di ogni angolo cittadino è preponderante nella fase della scoperta, poi le osservazioni cominciano ad allontanarsi in modo deciso dalla vita del turista, a cui “l’intera esperienza di viaggiare per un paese che gli è estraneo viene immediatamente consegnata al passato”. Quando le vacanze romane si allungano fino a diventare una sorta di esilio volontario dall'America Wilson Streeter alias John Cheever si accorge che “d’altronde organizzare qualsiasi cosa a Roma è così complicato che lucidità e scetticismo cedono quando proviamo a capire la descrizione di una scena in un tribunale, a proposito di un contratto di locazione per esempio, o durante un pranzo, ovunque insomma. Ogni dettaglio alimenta più domande di quante risposte esso sia in grado di fornire e alla fine perdiamo di vista la verità, come era destino”. The Bella Lingua mette in risalto la distinzione tra turista per caso ed emigrato perché per quest'ultimo “il passato non esiste: egli vive in un continuo e implacabile presente. Il solo pensare di trovarsi in un altro paese, nella città o nella campagna che è stata o potrebbe tornare a essere per sempre la sua casa, vanificherebbe tutti i suoi propositi. Invece di accumulare ricordi gli emigrati si trovano di fronte alla sfida di imparare una lingua nuova e di capire i costumi e il modo di essere un popolo”. Qui The Bella Lingua si incastra con naturalezza al racconto successivo, Clementina. Clementina è una domestica che proviene dalla campagna primitiva, dove i lupi d'inverno scendono tra le strade del paese, e Roma, per lei, è già un altro pianeta. Quando gli viene proposto di andare in America, scoprirà che “nel lasciare un mondo per andare in un altro li aveva persi entrambi”. Un racconto amarissimo (ispirato alla vera donna di casa della famiglia Cheever) prima della conclusione di Boy In Rome, dove John Cheever riflette, ascoltando Il rumore della pioggia a Roma su “un posto senza polizia armata, senza nobili avidi, senza slealtà, senza corruzione, senza ritardi, senza la paura del freddo, della fame e della guerra. E se tutto quello che immaginava non esisteva la sua rimaneva comunque un’idea nobile e questa era la cosa più importante”. Crepuscolare. 

giovedì 28 maggio 2015

Bernard Malamud

Quella di Bernard Malamud è una percezione molto raffinata e nello stesso tempo umanissima della letteratura, introdotta come “una benedizione capace di sanguinare come una ferita”. Dal punto di vista dello scrittore, così come sull'altra riva del fiume, dove è seduto il lettore, il tema è lo stesso perché, “raccontare storie è un modo per trovare, passo dopo passo, il significato della vita. E' una possibilità per immergere la punta delle dita nel mare dell'esperienza e portare a galla la sostanza, portare su la scrittura, nascosta, per poter raccontare quello che hai fatto e quello che ti senti di dover dire”. Per me non esiste altro è una felice antologia di riflessioni che, nonostante la forma frammentaria e spicciola rende evidente una coerenza che non si improvvisa, un'aderenza a quei valori, letterari (e non), che impongono “uno sviluppo estetico e morale, dove estetica e morale diventano una cosa unica”. Un'opera d'arte è “una collezione di probabilità” e Bernard Malamud assegna quattro punti cardinali molto solidi per riconoscere le fonti primordiali: “rabbia, disgusto, amore, comprensione” sono le direzioni ineludibili da cui si dipanano le sue coordinate letterarie perché poi “un artista scrive una tragedia perché la gente si ricordi che è umana. Ci mostra condizioni reali. Struttura per noi il significato della nostra vita, in modo che ci balzi chiaro agli occhi”. La trasmissione dell'intima conoscenza della scrittura è, in assoluto, la più costruttiva, ideale e nello stesso tempo realistica che si possa immaginare, anche tenendo che “per essere realisti serve immaginazione”. Lo scintillante paradosso di Bernard Malamud, cinque parole per condensare il senso di una visione artistica, non nasconde le esigenze più intime della scrittura in sé. Quando dice Per me non esiste altro, Bernard Malamud non evoca nessuna immagine romantica dello scrittore, né quella estatica né quella sofferente perché la sua attitudine è quella lineare, semplice, diretta di chi sa bene che “scrivere, lavorare da soli per creare storie, comporta molti inconvenienti, ma è decisamente un buon modo per vivere la solitudine”. Non c'è un altro modo ed è l'unico imperativo, o meglio, un'accorata raccomandazione a rivelare l'idea definitiva, il profilo in alto rilievo dello scrittore secondo Bernard Malamud. Il suo compito è descritto in modo essenziale, lapidario: “Lo scrittore deve affrontare il fatto che entra in una stanza, e che è meglio che vada in quella stanza, è meglio che chiuda quella porta, è meglio che stia lì dentro ed è meglio che scriva, e, qualsiasi cosa succeda, non parli mai con nessuno”. Bernard Malamud si concede invece con generosità, spiegando la funzione del romanzo e le possibilità del racconto, le necessità della trama e quelle dei personaggi, ed è una fonte più che autorevole avendo speso un'intera vita per comprendere che “un'opera d'arte non è mai finita, ma a un certo punto dev'essere semplicemente abbandonata”. C'è molto di più in Per me non esiste altro, persino i segreti del lettore, oltre a quelli dello scrittore, anche se poi è sempre lì, per forza, che Bernard Malamud ritorna e ritorna perché “la scrittura è una cosa così fragile, ed è strettamente legata alla capacità di continuare a mantenere vive delle illusioni”. Un piccolo libro, una grande lezione.

giovedì 21 maggio 2015

Don DeLillo

E' proprio vero, come scrive Martin Amis, che “i grandi scrittori come Don DeLillo possono portarci dove vogliono, ma la metà delle volte ci portano dove non vogliamo andare”. Vale in modo specifico per L'angelo Esmeralda, una raccolta antologica di racconti e di frammenti eterogenei nella composizione e nell'origine che attraversa due secoli, partendo nel 1979 da Creazione e arrivando al 2011 con La Denutrita. E' l'underworld di Don DeLillo, un work in progress che si dipana in una serie di flash, di istantanee, senza mediazioni, inseguendo l'assurdità delle parole, l'espressione in simboli e vocaboli che evocano mutazioni repentine, crisi, caos. E' sempre una scrittura enigmatica, a volte criptica, non sempre (quasi mai) agevole, eppure anche se nel loro evidente, incompiuto formato non possono competere con la geometria maniacale dei suoi romanzi, le storie comprese da L'angelo Esmeralda portano sempre su una frontiera indefinita, che sia quella dei terminal aeroportuali in Il corridore così come la terra di nessuno nelle aree metropolitane senza legge e senza giustizia nel racconto che offre il titolo della raccolta. E' dentro queste cornici che si materializzano i personaggi di Don DeLillo: la coppia querula in La mezzanotte in Dostoevskij che ammette la vacuità del virus del linguaggio, confessando candidamente che “meno le nostre discussioni erano profonde, più ci infervoravamo” o l'uomo che andava al cinema in La Denutrita, ipnotizzato dal cinema e dal buio perché “qualunque luna di inquietudine e malinconia alegiasse sulla sua esperienza, recente o lontana, quello era il luogo in cui tutto aveva la possibilità di evaporare”. Più di tutti è Vollmer, lo specialista che non è specializzato in niente in Momenti di umanità nella terza guerra mondiale. Il confine su cui deve resistere è quello che gli offre la prospettiva migliore, essendo in orbita attorno alla terra, e allora ricorda che “tutte le guerre rimandano al passato. Navi, aerei, intere operazioni prendono il nome da vecchie battaglie, armi più rudimentali, da quelli che noi percepiamo come scontri nati da più nobili intenti” e che “la guerra è una forma di nostalgia”. Se non è la guerra, è un'evoluzione del conflitto, della frattura tra una “realtà ingovernabile” e la crescente frustrazione di persone che “speravano di ritrovarsi coinvolte in qualcosa di più grande di loro”, e rimangono lì in un limbo di voci afone. Forse Don DeLillo si identifica proprio con il protagonista di Momenti di umanità nella terza guerra mondiale, un osservatore lontano, a cui piace che “le parole abbiano una certa reticenza, che rimangano aggrappate a un punto scuro nel più profondo dell'interiorità”. Possono sembrare incipit o interminabili finali di romanzi (il claustrofobico Baader-Meinhof, più di tutti), con una complessità tale da suggerire l'esistenza di romanzi dalle dimensioni di Rumore bianco o Underworld, ma il leitmotiv di questi racconti è sempre una dimensione onirica, psichedelica o comunque distaccata dalla realtà, una separazione necessaria per quel “lavoro massacrante” che è riflettere. Non sempre è il desiderio più urgente, anche se resta il più necessario.

martedì 19 maggio 2015

Sherwood Anderson

L'essenza dell'epica di Walt Whitman, il trasporto e l'emozione di Carl Sandburg, l'eloquenza di Theodore Dreiser, le visioni delle città e dell'industria dilagante, di un'America che ha deviato, e parecchio, dalle sue intenzioni originali e fondanti, o forse sarebbe giusto dire dalle sue speranze o meglio ancora dai sogni dei suoi minuscoli uomini: i Canti del Mid-America contengono moltitudini e sono trasportati da un entusiasmo per le parole, per la forza delle parole, trascendentale. C'è un senso storico straordinario, un'idea elevata del linguaggio: i versi sono frustate, sinuosi sulle pagine, come vie dei canti si stendono con la forma di un poema, con il trasporto di un manuale per i songwriter, un breviario in sé perché le canzoni, le poesie hanno la forma di rituali visto che lo stesso Sherwood Anderson introduce i Canti del Mid-America spiegando come “il canto appartenga a e nasca dalla memoria di cose più antiche di quelle che conosciamo. Nei sentieri battuti della vita, quando molte generazioni di uomini hanno percorso le strade di una città o passeggiato senza meta di notte per le colline di un'antica terra, sorge il cantore”. Sorprende, a distanza di un secolo (i Canti del Mid-America risalgono al 1918), l'aderenza alla realtà, la strenua lotta verso una percezione non banale delle mutazioni della realtà: Sherwood Anderson è già consapevole che la “gente si era raggruppata nelle città. Ormai usavano le parole in modo frenetico. Le parole li avevano soffocati. Non potevano respirare” e che “non cantiamo ma mormoriamo nell'oscurità”. L'amarezza non è nascosta, non è mai edulcorata perché i Canti del Mid-America non hanno niente di consolatorio e Sherwood Anderson è esplicito e profetico quando dice che “stiamo cercando di aprirci un varco. Sono un canto io stesso, l'estremità di un canto spezzato io stesso”. Non bisogna andare molto lontano per lasciarsi penetrare dalla comprensione: i Canti del Mid-America sono cristallini, a scanso di equivoci e di interpretazioni nel dire che “la storia è vecchia, è stata raccontata da molti uomini in molte terre. Le terre appartengono a coloro che le raccontano. Adesso di certo questo è chiaro”. Quella terra è l'America, la promised land tradita, la canzone stonata, la rivoluzione soffocata sul nascere, nelle sue contraddizioni, nella sua violenza. Tra i tanti, un verso di Sherwood Anderson sembra quasi un epitaffio: “Stavo venendo con l'America, sognando con l'America, sperando con l'America, poi arrivò la guerra”. Rimane l'orgoglio del poeta, coraggioso e indomito fino alla fine nell'alzare la voce nei bassifondi, nell'intonare i Canti del Mid-America con la regalità di un inno, l'autorità di una sentenza e lo spirito di un blues: “Staremo giù nelle profondità fangose della nostra corrente, ci staremo. Lì nessun poeta può venire fuori e sedere sulla traballante rotaia dei nostri orridi ponti e farci arrivare in paradiso cantando. Stiamo scoprendo, questo è quello che voglio dire. Arriveremo alla nostra cosa qui fuori o moriremo per essa. Stiamo andando giù, innumerevoli migliaia di noi, nell'orrendo oblio. Lo sappiamo. Ma, dico, bardi, state lontano dai nostri ponti. Non impicciatevi dei nostri sogni, sognatori. Vogliamo dare una scossa a questa cosa, la democrazia di cui tanto si riempiono la bocca. Vogliamo vedere se siamo buoni a qualcosa là fuori, noi americani reduci da ogni luogo dell'inferno. Questo è ciò che vogliamo”. Una dichiarazione d'indipendenza, quella più importante.

mercoledì 6 maggio 2015

Kent Haruf

La cronaca della morte annunciata di Dad, un uomo che ha respirato “prateria, vento e polvere” in una vita dedicata al lavoro e alla famiglia comincia seguendo i ritmi tiepidi, sonnolenti, desertici dell'heartland americano. L'unico sbalzo, nelle pagine iniziali di Benedizione (molto vicine alla perfezione) è solo un malore che coglie Mary, la moglie. Niente di grave: una volta ricoverata “non trovarono nulla di anomalo, salvo che era vecchia, lavorava troppo e occuparsi da sola del marito l'aveva sfinita”. Ogni frase di Kent Haruf circoscrive un momento, un'area, un pensiero nel mettere in scena, proprio con una prospettiva teatrale, “la preziosa normalità”. La sua ricostruzione è intensa nell'individuare i dettagli e nello stesso tempo lancinante e commovente nel seguire le tracce invisibili dei legami prima e delle odisse di ogni singolo personaggio poi, con “i piccoli drammi, le loro abitudini”. Cosa c'è di strano nella vita Mary e Dad l'hanno scoperto insieme nell'alveo di un matrimonio lungo mezzo secolo. Cosa può rivelare il lungo crepuscolo e l'inevitabile fine appartiene alla mappa dei ricordi, dei rimpianti, delle promesse mantenute e di quelle mancate. Quando la storia di Clayton irrompe senza preavviso Benedizione tracima, lasciando scorrere le storie di sotterfugi, tradimenti, riconciliazioni e facendosi permeare dalla realtà della guerra del ventunesimo secolo, dalla discriminazione, dalla sofferenza. Clayton era un commesso nel negozio di ferramenta di Dad. Scoperto a rubare, viene allontanato senza appello dallo stesso Dad perché il suo gesto, le sue inutili e tardive rimostranze lo fanno “dubitare di tutto il dannatissimo genere umano. E non è così che la voglio pensare”. Altre vicende si sovrappongono e si sviluppano in parallelo e in perpendicolare al tema centrale di Dad e Mary (la lunga e dolente parentesi del reverendo Lyle Wesley, della sua famiglia e della sua chiesa) e Kent Haruf lima le pagine parola per parola: i dialoghi appaiono ruvidi, persino monchi, quasi segmenti di linguaggio in domande e risposte di poche sillabe. Non facile. Non comodo. Per capire il paesaggio letterario (e non solo) di Benedizione serve quella definizione, eccezionale, di Sherwood Anderson nei Canti del Mid-America: “C'è una storia che gli uomini non possono raccontare, donne stanche la raccontano, uomini stanchi la raccontano, echi di storie rimbombano nelle sale delle anime, narrano di fantasmi alla porta della cucina, fiochi laggiù nell'oscurità”. La frugalità della scrittura di Kent Haruf sembra ricordare la necessità di risparmiare i “giorni felici” di Schopenauer, quasi di rallentare, se non proprio di fermarsi, per vedere, per ricordare, per carpire ancora una volta “la gentilezza e la dolcezza reciproche tra le persone. Lo scorrere lento del tempo in una notte d'estate. La vita normale”. Anche se non è quella la Benedizione, che è sempre ambivalente. La Benedizione è la pioggia, verticale, inevitabile come la morte e la vita, e nello stesso modo a doppio taglio, perché sulla pianura orizzontale qualcuno sta mietendo e qualcuno sta aspettando, la fine, l'inizio. Un romanzo duro, aspro, acuto. Straordinario.