lunedì 21 dicembre 2015

Jason Starr

Westchester, poco a sud di New York, è una delle contee più agiate degli Stati Uniti e con il suo country club, la sua esclusività, la sua opulenza è qualcosa in più di una (ricca) zona residenziale: è un modo di esprimere un tenore di vita. Per dire, Mark e Deb Berman sono reduci dalla festa d’inaugurazione di una villa da qualche milione di dollari e stanno litigando perché lei lo ha visto un po’ troppo vicino a Karen Daily, amica e vicina di casa. E’ da quell’equivoco che si genera tutta la cupa storia di Savage Lane. La famiglia di Mark Berman è speculare a quella di Karen (figli compresi), ma in modi diversi lui e lei infrangono le regole e l’equilibrio di Savage Lane, per quanto ipocrita e superficiale possa essere. Mark proietta le sue illusioni senza sosta, credendo all’infinito (e oltre) nell’amore di Karen, che è inesistente. Questo è il primo detonatore perché la sua insistenza non tiene conto del paradigma di Savage Lane reso esplicito da Jason Starr: “Le fantasie sembrano meravigliose, ma sono solo una droga di passaggio. Ne hai bisogno sempre di più e alla fine, quando subentra la realtà, sei completamente fottuto”. All’estremo opposto, Karen è aggrappata alla realtà. Non ha alternative: è sola, è divorziata, è libera e indipendente. Tutti elementi che la mettono su un binario deviante dalla supposta normalità di Savage Lane, nonostante sia la più equilibrata. A Deb la famiglia, una bella casa, le comodità non bastano più: ha un problema con l’alcol e una relazione con un ragazzo minorenne, Owen Harrison, aggravata dall’uso di giochi erotici più o meno pericolosi. Jason Starr non usa un linguaggio ricercato: i personaggi sono accennati, per sommi capi, per quanto evidenti, e lo stile è molto pop, efficace e cadenzato. Quello che avvolge e impone, in pratica, al lettore di cominciare e finire Savage Lane senza mollarlo un attimo è la sua abilità nel disegnare geometrie sempre sul filo del rasoio, con le frustrazioni, la disperazione, il desiderio che spingono con insistenza a varcare i confini della moralità e della legalità. L’intreccio è uno schema chiuso su se stesso, una rete elettrica in cui la trasgressione e la noia costituiscono le due polarità e convergono verso il corto circuito, inevitabile. L’angoscia che genera nel riprodurre le contrapposizioni, i miraggi, i sotterfugi è ipnotizzante. Non ci sono grandi spargimenti di sangue (si tratta di un omicidio, e un altro nel passato) o scene spettacolari, ma la tensione è sempre altissima proprio per questa ambiguità. L’assassino è soltanto uno e Jason Starr lo mostra senza tante esitazioni, in un momento che pare proprio rivelatorio. C’è una vittima e sono tutti colpevoli proprio per via delle fantasie, delle supposizioni, dei pettegolezzi, dall’arrivo degli inviati dei notiziari. Persino la stessa vittima, anzi, soprattutto la stessa vittima, è colpevole. In questo Jason Starr è molto concreto: nell’era del Patriot Act e della telefonia mobile non c’è scampo, soprattutto se di cellulari ne hai un paio. Puoi pure sotterrarli con il cadavere, ma le tracce restano sempre, e comunque non sarà quella la soluzione del caso. Savage Lane si svolge (drammatica conclusione compresa) nello spazio ristretto della vita quotidiana: un paio di isolati, la scuola (o meglio, il parcheggio della scuola), la piscina, il country club, i figli, tutto a breve distanza, dentro i confini del quartiere. I suoi limiti sono immutabili e invalicabili. L’unico vero lusso è la follia.

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