lunedì 14 dicembre 2015

Ben Lerner

La nota di autoreferenzialità all’inizio è quella che determina l’andamento di tutto il libro. Un costante guardarsi l’ombelico (e anche più giù) mentre fuori succede ogni cosa, ma il contatto è sempre evanescente, se non assente, a parte il forzato richiamo sulla pagina. Ben Lerner (e/o il suo personaggio ipocondriaco) si divide tra la diagnosi di un rischio cardiaco, la richiesta dell’amica Alex di un aiuto per diventare madre e l’idea di concretizzare “un diorama del futuro” o una rappresentazione né standard né lineare dei movimenti del tempo, e della storia. Solo che, visto da vicino, Nel mondo a venire è un collage con parti di racconti, di poesie, di lezioni, di recensioni ed identificabile persino “una serie di appunti per un romanzo”. Ben Lerner è molto abile a tenere tutto insieme, ma la prospettiva è falsata e Nel mondo a venire manca là proprio dove vorrebbe essere: la narrazione porta i sintomi di un romanzo senza esserlo. Entrare nel suo club esclusivo vuol dire accettarlo, non esserne coinvolti, comprenderlo senza condividerlo, e una prima ammissione di questa distanza è quando Ben Lerner scrive che “quello che di norma sembrava l’unico mondo possibile diventava un mondo fra tanti, e il suo significato instabile, collocabile ovunque, anche se solo per un attimo”. Il tentativo per quanto elaborato, pare maldestro: c’è questa coazione a ripetere situazioni, percezioni, commenti. Più di una volta con la stessa, identica frase. Alla fine, in buona sostanza, sono ancora le mille luci di New York, questa volta viste dall’altra sponda dell’Hudson, con Brooklyn diventata cool negli ultimi anni, senza quella patina leggera e brillante che per una breve stagione aveva avuto pur senso (e successo). Ben Lerner invece sovrappone un po’ troppo: “la globalità del mondo in termini apocalittici” e le cronache dal dentista, i ruoli e gli interpreti, i toni e i ritmi, le dimensioni e le conclusioni, lo scrittore e il lettore. Il meccanismo, in sé, si risolve in una sorta di diario con un’unica vocazione: non ho niente da dire, ma lo dico benissimo. Soltanto la rievocazione dell’esplosione dello shuttle Challenger ha qualche sprazzo di lucidità, ma poi Ben Lerner, nel continuo tentativo di importare tutto nella sua quotidianità, o in quella del suo alter ego, lo riduce a una cornice molto ampia, riempita dai ricordi infantili e dalle barzellette così come dalla prosopopea di Ronald Reagan. Un bel discorso inzuppato di luoghi comuni può essere sufficiente per un’orazione politica (eccome, se lo è stato). Per un romanzo serve qualcosa di più e tra le righe Ben Lerner sembra confessarlo quando dice che “più l’autore di affannava a distinguersi dal narratore, più gli sembrava di essere diventato identico a lui”. Nello stesso modo accosta la descrizione di pranzi e cene alle chiacchiere e ai pettegolezzi sull’editoria e sul suo futuro in conversazioni un po’ brille con un’atmosfera che non è né fiction, né realtà, è soltanto finta ed evanescente. Ci deve essere un limite tra l’ambizioso e il pretenzioso, almeno una distinzione, una separazione. Si capisce dove vuole arrivare Ben Lerner, soltanto che non ci arriva: Nel mondo a venire resta lì, un esercizio di stile, autoindulgente ed eseguito alla perfezione.

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