venerdì 25 settembre 2015

Allan Gurganus

Nord e Sud Carolina, tra il 1954 e il 1960: padre e figlio (stesso nome: Clyde Meadows Delman) distribuiscono bibbie, la domenica. Per il primo è un'estensione del suo lavoro (è un commesso viaggiatore e l'automobile, in pratica, è la sua vera casa) e un modo per ricostruire una parte della sua vita. Per il secondo, il più piccolo, è una continua scoperta e sorpresa in “un periodo in cui le cose andavano a gonfie vele, un momento di semplicità che confinava in parte con l'idiozia”. L'appunto, molto sibillino, si fa notare fin dall'inizio. La madre, e moglie, con il nome propiziatorio di Grace, rimane isolata e nella sua (nemmeno tanto) splendida solitudine consuma rapporti intensi e fugaci, e tutti lo sanno, perché Falls (altro nome suggestivo) è un libro aperto, come tutte le sacrosante smalltown. Un trittico di eventi (a partire da quello centrale, annunciato fin dal travolgente incipit) spezza la stramba trinità della famiglia Delman e il Clyde junior, come andrebbe anche nella realtà, se ne assume la responsabilità, per quanto ignaro delle contorsioni dell'età adulta: “Ho portato il mondo dentro casa e tutti noi ormai dobbiamo vivere così, scoperti, nell'arida luce pubblica”. In superficie, Allan Gurganus è ironico, elegante, persino cinematico nel raccontare l'America dei motel e delle automobili, delle strade e di quello che c'è ai margini delle strade. Il linguaggio (però) non è per niente politically correct: è scomodo, spigoloso, a volte urticante, come sa esserlo Allan Gurganus, in Santo mostro più che altrove. La voce è immediata, forte, pungente. Per dire, anche particolari che sfuggono sullo sfondo lampeggiano da soli e quindi le forsizie diventano punti interrogativi. Per articoli più importanti, Allan Gurganus ci aggiunge un pizzico di fiele in più e allora la Packard Clipper Deluxe su cui transitano e abitano è “una delle ultime volte il cui la pubblicità americana dichiarava il vero. E mio padre era l'uomo più gentile del mondo”. Tutte le altre forme vengono ricondotte ai due Clyde Meadows Delman e al segreto che li unisce. Clyde Meadows Delman è brutto, il volto “era il corrispettivo facciale delle uova strapazzate” e, in effetti, Santo mostro è anche un'apologia della bruttezza. Solo che è anche dolce, premuroso, “un uomo che a dispetto di tutte le circostanze aveva imparato a intrattenere se stesso e poi gli altri”. Ognuna delle storie e delle frasi che compone Santo mostro è un'esplosione di parole e la giustificata ossessione per l'identità produce un legame riservato ed esclusivo, che Clyde (il figlio, ma forse anche il padre) risolve pensando che “forse basta credere in una cosa. E' quasi tutto lì”. Quando l'infanzia e il tempo ramificato dei due scompaiono insieme, Clyde, il vecchio, sembra aggrapparsi al passato perché il mondo di allora era “più semplice, frontale come uno spettacolo di burattini, era perfino più bizzarro”. Clyde, il giovane, si accorge invece che sta “velocemente diventando adulto se diventare adulti vuol dire violare qualche legge meschina in nome di ragioni più generose e importanti”. Rimane solo (e sola) Grace che, liberando le sue energie, trasformerà gli occasioni tête-à-tête in una serie di redditizi matrimoni. Niente di più americano, con un finale beffardo, e perfetto.

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