mercoledì 30 settembre 2015

Chaim Potok

Fuggendo dai combattimenti che incalzano la pianura coreana un uomo e sua moglie trovano in un fosso un bambino ferito. Non hanno nulla, soltanto un carro malandato, la paura e l'istinto di sopravvivenza, a cui devono aggiungere la pietà per un bambino. L'uomo, vecchio e confuso dalla realtà della guerra, non vuole portarselo dietro, sarebbe soltanto un peso in più. Tra l'altro è più morto che vivo. La donna, risoluta a non lasciarsi trascinare nella crudeltà, lo raccoglie, lo cura, lo salva e lo nutre. Parte da lì una lunga marcia di profughi, inseguiti dalla guerra, lontana eppure presente in tutta la sua orrenda natura, tormentati dalla fame e convinti di essere soltanto “giocattoli in mano agli spiriti”. Riportati a una condizione primitiva, si ritrovano ad accendere il fuoco per scaldarsi in una buca, usando residui di legna e arbusti secchi. Mangiano zuppe fatte con un biscia nera strappata dal suo letargo o erba di campo (selvatica), carne di cane randagio o pesci catturati spaccando il ghiaccio. Spogliano i morti per recuperare i vestiti e le coperte, lasciando sprofondare i cadaveri nel fango. Dentro la terra ormai ci vivono anche loro: dormono nelle grotte e si inerpicano su sentieri duri, aspri, senza speranza, tutta una fatica tragica per scollinare, per poi vedere le valli trasformate in gironi danteschi. I corpi bruciati che diventano nuvole puzzolenti, la marea di profughi che compiono il viaggio al contrario ricalcando i ricordi non meno delle impronte, le colonne di soldati e mezzi che travolgono tutto, lasciando un “mondo piatto e vuoto. In balia di demoni brutali”. Chaim Potok è parsimonioso nelle descrizioni, non spreca una parola che sia una, eppure riesce a far capire quanto importante sia un pugno di riso o il mozzo cigolante di una ruota. La drammatica odissea si percepisce da quei dettagli e continua fino a quando “un giorno d'estate sentirono dire che la guerra era finita, ma nella loro vita niente cambiò”. In quel momento l'uomo e la donna si convincono che il ragazzo ha dalla sua parte una fortuna o una curva del destino, magari soltanto per aggrapparsi a un motivo per per tornare al proprio villaggio, Molti non trovano più né la casa, né il paese. Loro ritrovano entrambi, deserti e pieni di polvere, ma intatti. Rimane la convivenza con lo straniero, che non cambia molto, prima o dopo. Gli americani, venuti in aiuto, sono sempre oltre il filo spinato, volano su aerei lucenti e troppo veloci per essere visti, sferragliano senza sosta nelle strade, lasciano vaste distese vuote e aride quando le basi cambiano coordinate. La distanza non è soltanto geografica: c'è proprio una differenza umana. Loro sono contadini, poverissimi, il destino, legato alle stagioni, alla siccità, alla pioggia, alle variazioni d'umore degli spiriti. Gli altri sono soldati, hanno disponibilità illimitate e il senso di questa frattura si vede quando il ragazzo va a lavorare in una caserma e scopre l'ambivalenza del rapporto, lo sfruttamento, i piccoli furti, la corruzione, come se non ci fosse mai una fine. A Io sono l'argilla si adatta la descrizione del romanzo secondo Claudio Magris che lo definisce “un paradosso, una lancia di Achille che ferisce e guarisce; è intessuto delle lacerazioni del moderno e insieme le abbraccia in una nuova totalità”. Lancinante, aspro, senza mezzi termini, Io sono l'argilla non lascia indifferenti.

martedì 29 settembre 2015

Stephen King

Tutto comincia con “quel mormorio che è il principio della leggenda”, un'atmosfera sfuggente e carica di elettricità, “un odore giallo, bagnato”: un ricordo che affiora, debole, sfumato e impreciso, eppure efficace nel trasmettere un'inquietudine di cui non si intuiscono le origini, “come guardare attraverso un sottile strato di ghiaccio, simile a quello che puoi staccare da una cisterna in novembre se prima lo picchietti lungo i bordi, guardarci attraverso e vedere la tua infanzia. E' un'immagine incerta e annebbiata e in certi punti si spegne nel nulla, ma nell'insieme c'è ancora tutta”. Stephen King è fantastico nel celebrare le suggestioni, le ombre e i misteri e, forse, per una legge del contrappasso, appare fin troppo lineare quando i mostri si rivelano per quello che sono. L'incognita è sempre più affascinante perché catalizza i dubbi, le tensioni, le emozioni, lasciando nelle zone dell'indicibile molto spazio all'immaginazione, e di conseguenza al lettore. Con Le notti di Salem Stephen King ha trovato il modello che poi ha usato con più frequenza (e con alterni risultati) fino a Revival, e oltre. Ci sono tutti i luoghi comuni e le logiche che poi torneranno a cicli più o meno regolari: la casa (infestata), il mostro e il suo servitore, la città (di provincia), il conflitto (irrisolto) tra bene e male. I mostri (in questo caso, i vampiri in dichiarato omaggio a Bram Stoker e al suo Dracula) sono più impressionanti quando non si vedono, quando sono celati o persino rimossi dalla routine, dalle abitudini e dalla noia. In quei frangenti Le notti di Salem tocca davvero più di un nervo scoperto: una smalltown che è già una città fantasma (prima dell'arrivo degli stranieri) perché viverci è prima di tutto “è un fatto prosaico, sensuale, alcolico”. La gente ascolta le conversazioni al telefono duplex (oggi sembra un reperto archeologico) e l'umanità che scopriranno i vampiri nelle loro fameliche scorribande non è meno mostruosa delle loro sembianze, di sicuro condivide un'estrema solitudine. Stephen King svela l'intreccio (non la trama: “Narrare è fisiologico come respirare; sviluppare una trama è l'equivalente letterario della respirazione artificiale”) fin dall'inizio quando la love story tra Ben Mears e Susan Norton sta sbocciando e sembra non esserci nulla che possa impedire il fiorire della felicità, se non la consolidata esperienza umana che l'orrore dissimula tra indifferenza, corruzione, avidità e altri fenomeni legati agli affari. Le notti di Salem è emblematico perché i vampiri spalancano le porte e le finestre su un villaggio, un paesaggio e attraverso i loro occhi l'America appare per quello che è, un paese di spostati. Stephen King lascia molto in sospeso e anche la più recente edizione, una sorta di director's cut con prefazione, postfazione e tutte le scene tagliate in fase di revisione, non risolve il primordiale dilemma. Pur aggiornando e sublimando le leggende e i trascorsi dei vampiri, resta incerta la loro essenza di mostri, così come è molto sbiadito il ruolo di vittime per i cittadini di Salem, che tanto innocenti non sono. L'ambiguità comprende anche un filo di ironia, per niente datata: “Resta con i piedi per terra. Il mondo va a rotoli e tu ti fai scrupolo per qualche vampiro”. E' quel tocco di classe, che fa la differenza.

venerdì 25 settembre 2015

Allan Gurganus

Nord e Sud Carolina, tra il 1954 e il 1960: padre e figlio (stesso nome: Clyde Meadows Delman) distribuiscono bibbie, la domenica. Per il primo è un'estensione del suo lavoro (è un commesso viaggiatore e l'automobile, in pratica, è la sua vera casa) e un modo per ricostruire una parte della sua vita. Per il secondo, il più piccolo, è una continua scoperta e sorpresa in “un periodo in cui le cose andavano a gonfie vele, un momento di semplicità che confinava in parte con l'idiozia”. L'appunto, molto sibillino, si fa notare fin dall'inizio. La madre, e moglie, con il nome propiziatorio di Grace, rimane isolata e nella sua (nemmeno tanto) splendida solitudine consuma rapporti intensi e fugaci, e tutti lo sanno, perché Falls (altro nome suggestivo) è un libro aperto, come tutte le sacrosante smalltown. Un trittico di eventi (a partire da quello centrale, annunciato fin dal travolgente incipit) spezza la stramba trinità della famiglia Delman e il Clyde junior, come andrebbe anche nella realtà, se ne assume la responsabilità, per quanto ignaro delle contorsioni dell'età adulta: “Ho portato il mondo dentro casa e tutti noi ormai dobbiamo vivere così, scoperti, nell'arida luce pubblica”. In superficie, Allan Gurganus è ironico, elegante, persino cinematico nel raccontare l'America dei motel e delle automobili, delle strade e di quello che c'è ai margini delle strade. Il linguaggio (però) non è per niente politically correct: è scomodo, spigoloso, a volte urticante, come sa esserlo Allan Gurganus, in Santo mostro più che altrove. La voce è immediata, forte, pungente. Per dire, anche particolari che sfuggono sullo sfondo lampeggiano da soli e quindi le forsizie diventano punti interrogativi. Per articoli più importanti, Allan Gurganus ci aggiunge un pizzico di fiele in più e allora la Packard Clipper Deluxe su cui transitano e abitano è “una delle ultime volte il cui la pubblicità americana dichiarava il vero. E mio padre era l'uomo più gentile del mondo”. Tutte le altre forme vengono ricondotte ai due Clyde Meadows Delman e al segreto che li unisce. Clyde Meadows Delman è brutto, il volto “era il corrispettivo facciale delle uova strapazzate” e, in effetti, Santo mostro è anche un'apologia della bruttezza. Solo che è anche dolce, premuroso, “un uomo che a dispetto di tutte le circostanze aveva imparato a intrattenere se stesso e poi gli altri”. Ognuna delle storie e delle frasi che compone Santo mostro è un'esplosione di parole e la giustificata ossessione per l'identità produce un legame riservato ed esclusivo, che Clyde (il figlio, ma forse anche il padre) risolve pensando che “forse basta credere in una cosa. E' quasi tutto lì”. Quando l'infanzia e il tempo ramificato dei due scompaiono insieme, Clyde, il vecchio, sembra aggrapparsi al passato perché il mondo di allora era “più semplice, frontale come uno spettacolo di burattini, era perfino più bizzarro”. Clyde, il giovane, si accorge invece che sta “velocemente diventando adulto se diventare adulti vuol dire violare qualche legge meschina in nome di ragioni più generose e importanti”. Rimane solo (e sola) Grace che, liberando le sue energie, trasformerà gli occasioni tête-à-tête in una serie di redditizi matrimoni. Niente di più americano, con un finale beffardo, e perfetto.

domenica 20 settembre 2015

James Lee Burke

Come tutti gli ultimi capitoli della saga di Dave Robicheaux, Creole Belle si aggrappa ai fantasmi, così com'è per la Louisiana, “la puttana di tutti” su cui incombono gli effetti devastanti dell'uragano Katrina e dell'esplosione sulla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon. I due disastri (tutt'altro che naturali o imprevedibili) sono ferite ancora aperte che James Lee Burke accarezza con passaggi regolari e reiterati in Creole Belle, a ricordare che “siamo servi qui, non giocatori. Tutto ciò che accade qui è orchestrato da estranei o da politici. Si tratta di una conclusione deprimente a cui arrivare. Ma questo è il modo in cui le cose girano. Noi ci mettiamo in ginocchio per chiunque porti il suo libretto degli assegni”. All'amarissima constatazione, James Lee Burke risponde tenendo in vita i panorami di un paesaggio che ormai è una visione e Creole Belle è avvinghiato a quelle sfumature, a quei paesaggi e, più che in altri romanzi, a quelle canzoni e a quelle storie. La descrizione delle atmosfere e del clima, dei colori e degli odori è la prassi costante che fa procedere la narrazione per folate, come la nebbia nel bayou e dentro quel flusso emergono, uno dopo l'altro, i personaggi. L'insieme è inestricabile, denso, paludoso: Creole Belle è un romanzo formato famiglia in cui i rapporti tra padri e figli (e figlie, soprattutto) sono determinanti: Dave e Alafair Robicheaux, Jesse e Varina Leboeuf, Alexis e Pierre Dupree (e non finisce qui) sono coinvolti da un moltiplicatore di legami sotterranei. Il retaggio di Creole Belle è più che mai composito e conflittuale e come se fosse un'antologia di Streak non manca niente: la schiavitù e il razzismo, la guerra civile, lo sfruttamento degli uomini, delle donne e dell'ambiente, la prostituzione, i rapporti tra il crimine organizzato e la politica, con poca o punto distinzione ormai, i predicatori e i nazisti, la mafia e i delinquenti dei bassifondi, i pedofili e i poliziotti corrotti, i politici incapaci e gli avventurieri, e poi loro i Bobbsey Twins del dipartimento di polizia di New Orleans che combattono contro tutto e tutti, ma prima ancora contro i propri spettri allo specchio. James Lee Burke, e non c'è dubbio, con tutta la sua retorica e la morale, ispira sempre simpatia per la naturalezza e per la logica con cui alla fine, anche la giustizia è fuorilegge ed è estranea alle regole perché “la gente si chiede come la giustizia venga spesso negata a quelli che più la meritano. Non è un mistero. La ragione per cui guardiamo drammi artificiosi della legge è che spesso la realtà è così deprimente, che nessuno ci crederebbe”. Viste le condizioni, è inevitabile che Clete Purcel, diventi il vero protagonista di un ribaltamento di fronte che, nelal sostanza, ha un solo comandamento: “Devi fare un passo indietro e lasciar volare via tutte le preoccupazioni, le complessità e la confusione della tua vita nel vento. Devi credere che il sole sorgerà a est, e non è degli agili la corsa, e la pioggia scenderà sia sul giusto che sull'ingiusto. Devi dire fanculo e dirlo sul serio e lascia che i dadi rotolino fuori dalla tazza come vogliono”. Finisce in un'apocalisse, e non potrebbe essere in un altro modo, dato che Clete Purcel non si è mai preoccupato molto delle conseguenze del giorno dopo, e, parole sue, “se mi danno un pieno di serpenti di mattina, sono i miei serpenti”. Non fa una piega e, come dice la canzone Jimmy Clanton, Just A Dream, che viene da un lontano passato, forse è solo un sogno. James Lee Burke, pur citando Thomas Wolfe, William Faulkner, Hemingway, Tennessee Williams e Shakespeare più di tutti, se rende conto e chiedergli di più è rischioso perché lui e Dave Robicheaux e tendono a coincidere e ormai hanno passato così tanto tempo insieme che sembra di conoscerli, e sull'onestà di entrambi non si discute. Bisogna solo accomodarsi sulla Caddy di Clete Purcel e lasciarsi trasportare nel caos degli uomini e dei loro spiriti, buoni o cattivi che siano.

giovedì 17 settembre 2015

James Hillman

Tra gli effetti collaterali più subdoli e ambigui dei conflitti c'è quella condizione, dolorosa e pericolosa, che soltanto negli ultimi anni è stata riconosciuta nella definizione del disturbo post traumatico da stress. La traduzione di James Hillman in Un terribile amore per la guerra supera la precisione della terminologia scientifica e riporta quella frattura nell'alveo originale, essendo determinata da “un'esperienza di un evento che va oltre la gamma della normale esperienza umana”. La distinzione è il tema centrale di Un terribile amore per la guerra, un titolo che non è provocatorio: c'è sempre una pulsione originale e primordiale che spinge il “senso di identità” a sovrapporsi all'identificazione con la certezza della morte, probabilità più che prevedibile in zona di combattimento. James Hillman parte quindi dalla considerazione che la guerra è “una condizione primaria” o meglio, come affermava Michel Foucault, che “la storia che ci regge e ci determina ha la forma della guerra più che del linguaggio: rapporti di potere, non rapporti di senso”. Un terribile amore per la guerra ruota proprio attorno a queste parole, come spiega a più riprese James Hillman: “Noi pensiamo secondo la categoria della guerra, ci sentiamo in dissidio con noi stessi e senza rendercene conto siamo convinti che la predazione, la difesa del territorio, la conquista e la battaglia interminabile di forze opposte siano le leggi fondamentali dell'esistenza”. E' dove nasce Un terribile amore per la guerra ed è dove matura la coscienza che “la complicità nei crimini di guerra non ha confini netti; siamo tutti appassionati voyeur”. Non è facile accettarlo, ma è davvero così, e lo ammette anche James Hillman: “Gli scrittori, specialmente gli scrittori di guerra, non creano, ma ricreano, e la lettura è insieme ricreazione e ri-creazione di ciò che è sfuggito alla presa del presente per nascondersi nei recessi dell'anima, di ciò che è rimosso, dimenticato”. Detto questo, James Hillman non manca di far notare una delle contraddizioni più feroci che implica la guerra: “è un fenomeno umano organizzato” e d'altra parte “trasforma gli esseri umani in parti, parti di ricambio”. Nonostante questa peculiarità, che migliaia e migliaia di anni possono confermare, così come la nostra quotidianità, “la guerra è permanente, non irrompente; necessaria, non contingente; è la tragedia che fa impallidire ogni altra e che rende possibile l'amore”. Un terribile amore per la guerra svela qui perché la guerra “offre percezioni già deformate, scene già di per sé immaginative. Perciò i testimoni dicono: era irreale, fantastico, inimmaginabile, perché l'esplosiva imprevedibilità della guerra è immaginazione dispiegata”, o, meglio ancora, “la guerra si nutre di immaginazione ed è alimentata dall'immaginazione”. Il vero danno che infligge vivere Un terribile amore per la guerra è, come scriveva Don DeLillo, che “la guerra ci dice che è sciocco credere”. E' inevitabile davanti alla realtà infinita della guerra, quella che James Hillman descrive senza voli pindarici: “Questo è ciò che fanno le guerre, ciò che sono le battaglie; sono le convenzioni del saccheggio su scala mostruosa sia individuale sia collettiva, sono implacabili comportamenti archetipici”. La conclusione è realistica, per quanto drastica perché, pur con tutti i tentativi di edulcorare, ridimensionare, truccare il volto della guerra, “tuttavia il suolo deve pur sempre essere calcato dallo scarpone del soldato. I morti vanno pur sempre seppelliti. Nonostante la distanza, il linguaggio astratto, le operazioni segrete, le bombe esplodono pur sempre, i conflitti a fuoco scoppiano a pochi metri, di casa in casa, di vicolo in vicolo, a ogni blocco stradale, ai checkpoint, sulle rive del fiume, tra gli alberi. La guerra scende sulla terra”. Se bisogna riflettere, tanto vale partire da lì, dove l'amore non c'è più, e resta solo il terribile.

martedì 8 settembre 2015

Edgar Allan Poe

Il corvo, con quegli occhi che sono quelli di un demonio che ora sogna”, rimane una delle allegorie più potenti e inquietanti che si siano mai elevate dalle pagine della letteratura. Al di là dell'aspetto fantastico e gotico, ormai ben noti, quello di Edgard Allan Poe è uno sguardo comunque coraggioso e temerario che ha portato un raffinato ed evoluto narratore come E. L. Doctorow a definirlo “sovversivo”. Il riconoscimento, quanto mai appropriato, parte dalla forma, la poesia, la sua brevità, l'essenza stessa della scrittura. Edgar Allan Poe scriveva presentando i racconti di Nathaniel Hawthorne: “Se fossimo costretti a dichiarare quale sia la maniera più proficua in cui il genio superiore possa dare una dimostrazione delle sue facoltà, senza esitare risponderemmo: nella composizione di una poesia in rima che non superi in lunghezza quel che si potrebbe leggere in un'ora. Il grado più elevato di poesia può esistere esclusivamente all'interno di questi limiti”. Il corvo risponde a questo dettato estrapolando “un sapere remoto” da una limitatissima porzione di spazio e e di tempo e “su fondali violacei e verdastri, dove si manifestano la fosforescenza della putrefazione e l'odore della tempesta”, come li descriveva Charles Baudelaire, riesce a stagliare un'opera densa, sanguigna e spiritata. La delimitazione diventa funzionale così com'era nelle intenzioni di Edgar Allan Poe: “Mi è sempre sembrato che una precisa circoscrizione dello spazio sia assolutamente necessaria all'effetto di un avvenimento isolato: essa ha l'efficacia di una cornice per un quadro. Essa possiede un indiscutibile potere nel mantenere concentrata l'attenzione e, naturalmente, non deve essere confusa con la semplice unità di luogo”. La dimensione è quella del sogno, quello che emerge dal buio e nella notte e da lì, più in rilievo, la propaggine logica e naturale della solitudine. O viceversa: Edgar Allan Poe non nasconde, come scrive in Eulalie, di vivere in “un mondo d'affanni” e che tutti i suoi giorni “son delirio” (lo dice in Per qualcuno in paradiso). Trasmettere l'angoscia non è una missione indolore e Il corvo è la cronaca di una fuga verso un universo parallelo da cui non si può fuggire: Un sogno in un sogno, concetto ribadito in Ulalume (Tutto quel che vediamo o sembriamo è un sogno in un sogno soltanto”) e che riporta verso La valle dell'inquietudine dove “non v'è nulla che immobile resti se non l'aria che resta sospesa sulla sua solitudine magica”. Non c'è scampo, l'unico appello è quello Alla scienza, “in cerca di riparo” ed è l'ultima spiaggia, l'unico appiglio razionale, più per dovere che per altro. In effetti, aveva ragione Lou Reed: “Di certo Edgar Allan Poe è il più classico degli scrittori americani, uno scrittore paradossalmente più in sintonia col battito cardiaco del nostro secolo appena nato di quanto lo sia mai stato con quello proprio. Ossessioni, paranoie e azioni deliberatamente autodistruttive ci circondano da ogni parte. Anche invecchiando, continuiamo a sentire le urla di coloro per i quali il fascino di un caos luttuoso è irresistibile”. Le ombre che galleggiano, le foreste e le tenebre, le parole d'addio, gli odori e i dolori sono qualcosa che si snoda dalla dimensione poetica verso quella profetica. Un avvertimento, molto preciso.

giovedì 3 settembre 2015

Alice Munro

Uno degli aspetti più affascinanti di Alice Munro è l'intimità del suo rapporto con la scrittura, definita a più riprese come qualcosa di irrinunciabile, spontaneo, necessario e naturale, “come respirare”. Nello stesso tempo, la gestione è complessa e articolata per sua stessa ammissione: “Mi sembra di riuscire ad afferrare quello di cui devo scrivere con grandissima difficoltà”. Nei racconti di In fuga questa sensazione è palpabile e si nota nella loro meticolosa elaborazione. Alice Munro, qui ormai con un'esperienza consolidata e riconosciuta, sa che l'incipit è (sempre) fondamentale e nelle short stories, visti gli stretti margini di manovra, vale l'intera posta in gioco. Tutti gli inizi di In fuga potrebbero essere adottati come esempi in qualsiasi corso di scrittura creativa, a partire dalle prime, fenomenali sei righe di Fatalità: “Nel 1965 il semestre a Torrance House si conclude a metà giugno. Juliet non ha ricevuto l'offerta di un impiego stabile, l'insegnante che ha sostituito si è rimessa in salute, perciò ora potrebbe riprendere la via di casa. Ma ha deciso di concedersi quella che ha definito una breve deviazione. Una breve deviazione per far visita a un amico che abita su al nord, lungo la costa”. Lo stesso si potrebbe dire del passo iniziale di Passione: un altro lungo e brillante incipit che sembra ricollegarsi come un circuito chiuso al finale dove la protagonista parla di “avviare una vita”. Qualcosa comincia proprio dove Passione finisce lasciando al lettore la facoltà di fantasticare un seguito, o tornare al via. Quello che Alice Munro non concede all'immaginazione è l'ambiente e il paesaggio: in Passione, come in Poteri, come ovunque nei suoi racconti, la descrizione dello scenario naturale naturale, così assidua, appassionata, florida, scorre parallela e costante ai temi, agli incontri e alle partenze degli uomini e (soprattutto) delle donne e contribuisce in modo determinante a creare l'atmosfera, il tono, lo stile. Quando poi ci si addentra nelle storie, serve molta attenzione, se non proprio la capacità di immedesimarsi nei personaggi, perché Alice Munro è capace di cambiare prospettiva nel giro di poche frasi, passando da forme introspettive (come succede in Scherzi del destino: “I ricordi, attraverso il ricamo della memoria, non facevano che scavare solchi più profondi. E' importante che ci siamo incontrati. Sì. Sì”) a divagazioni in cui affiorano i Beatles, Colazione da Tiffany e Johnny Mercer o “una specie di jazz” (non meglio identificata, ancora in Scherzi del destino), anche se la vera, continua citazione è Shakespeare e le fonti di ispirazioni rimangono Eudora Welty, Flannery O'Connor, Katherine Ann Porter, Carson McCullers perché è leggendole che ha scoperto“che le donne potevano scrivere di cose particolari, di ciò che è marginale”. Resta da dire che il trittico composto da In fuga, Fatalità e Silenzio è il maggior sforzo di Alice Munro per avvicinarsi al romanzo, visto che la protagonista è sempre la stessa Juliet, ma poi è come se attraverso le parole dei suoi personaggi prendesse forma un'altra visione: “Cambia la percezione di ciò che è possibile, di ciò che è successo, non solo di quello che può succedere ma di quello che è successo. La mia vita è piena di realtà sconnesse e le vedo nella vita degli altri. E' stato uno dei problemi, del perché non sono riuscita a scrivere romanzi, non sono mai riuscita ad avere una visione complessiva nel loro insieme”. Nobile ammissione, i racconti bastano e avanzano.