mercoledì 3 giugno 2015

Edward Abbey

Un tuffo nella wilderness diviso tra il rigore scientifico e una passione straripante, quasi mistica nel suo esprimersi: quando Edward Abbey accetta di lavorare nel deserto dello Utah in qualità di ranger è spinto, più che dall'impiego in sé, dalla vocazione per la vita all'aria aperta, per il gusto della scoperta, e per l'essenza “vera, tangibile, dogmaticamente reale” della natura. La carica e lo stipendio sono quello sono, ma “gli extra non hanno prezzo: aria pulita (una volta passate le tempeste di sabbia primaverili); tranquillità, solitudine e spazio; una vista che ogni giorno e ogni notte può allargarsi senza ostacoli su sole, cielo, stelle, nuvole, montagne, luna, pareti rocciose e canyon; una percezione del tempo che permette ai pensieri e alle sensazioni di vagare da qui alla fine del mondo e ritorno; la scoperta di qualcosa di intimo, sebbene indefinibile, nel remoto”. Il rapporto con l'ambiente è per Edward Abbey motivo di un confronto continuo, assiduo con se stesso e con il deserto che offre prospettive inedite, per niente aride o desolate, come i luoghi comuni vorrebbero ed è molto scrupoloso quando spiega che “nel registrare le mie impressioni sull'ambiente naturale ho avuto come ambizione principale l'accuratezza, poiché credo che ci sia una specie di poesia, se non di verità, nella realtà in sé”. I primi poeti che chiama a raccolta, Robert Frost, H. D. Thoreau, Walt Whitman, sono già segnali nitidi, a indicare l'orizzonte ideale a cui tende Edward Abbey: “Ho provato a creare un mondo di parole in cui il deserto è più un mezzo che il contenuto. Ho avuto come obiettivo l'evocazione, non l'imitazione”. Anche se la sua percezione politica ha ormai qualcosa di profetico, contando che Desert Solitaire risale al 1968, le parti, i passaggi in cui si immerge nella natura e in particolare nel deserto sono uniche. Un esempio, su tutte le descrizioni di flora, fauna, paesaggi e meteorologia è il racconto dell'avvoltoio o la storia di Occhio di Luna, il cavallo “indipendente” che sembra ricordare chi in fondo ai canyon è arrivato prima di Cormac McCarthy. L'ottica è comunque quella: la magia del confronto tra uomo e wilderness, quando ognuno se ne sta al proprio posto, perché “là fuori esiste un mondo diverso, molto più antico e profondo del nostro, un mondo che abbraccia e sostiene quello limitato degli uomini come il mare e il cielo abbracciano e sostengono su una nave. Lo shock del reale. Per un attimo torniamo bambini, riusciamo a vedere di nuovo un mondo di meraviglie”. Le parti polemiche sono le più deboli, e non tanto per la caratteristica in sé, visto che Edward Abbey ha ragioni da vendere (eccome), quanto per il tono delle generalizzazioni che contrasta con quello più arguto dei dettagli, sempre inciso parola per parola, quasi a ricordare che “a modo suo ogni cosa è bella quando è fedele a se stessa”. Dopo tutti questi anni, Desert Solitaire è un monito ancora più attuale ed Edward Abbey una voce sincera, accorata, convincente nel dire che “si può amare e difendere la natura anche senza avere mai lasciato confini di asfalto, linee elettriche e superfici ad angolo retto. Abbiamo bisogno della natura, che ci abbiamo messo piede oppure no. Abbiamo bisogno di un rifugio, anche se potremmo non andarci mai”. Una lettura doverosa.

2 commenti:

  1. E' un piacere leggere la tua recensione, e sapere anche che è stato rieditato, io lo lessi anni fa nell'edizione di Franco Muzzio, e mi è venuta voglia di rileggerlo...
    invece ho scoperto tramite tue precedenti recensioni Kent Haruf, e capito qualcosa di più di L'angelo Esmeralda, libro che mi ha lasciata completamente perplessa e di cui mi è rimasto pochissimo..a buon leggerti!

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