martedì 19 maggio 2015

Sherwood Anderson

L'essenza dell'epica di Walt Whitman, il trasporto e l'emozione di Carl Sandburg, l'eloquenza di Theodore Dreiser, le visioni delle città e dell'industria dilagante, di un'America che ha deviato, e parecchio, dalle sue intenzioni originali e fondanti, o forse sarebbe giusto dire dalle sue speranze o meglio ancora dai sogni dei suoi minuscoli uomini: i Canti del Mid-America contengono moltitudini e sono trasportati da un entusiasmo per le parole, per la forza delle parole, trascendentale. C'è un senso storico straordinario, un'idea elevata del linguaggio: i versi sono frustate, sinuosi sulle pagine, come vie dei canti si stendono con la forma di un poema, con il trasporto di un manuale per i songwriter, un breviario in sé perché le canzoni, le poesie hanno la forma di rituali visto che lo stesso Sherwood Anderson introduce i Canti del Mid-America spiegando come “il canto appartenga a e nasca dalla memoria di cose più antiche di quelle che conosciamo. Nei sentieri battuti della vita, quando molte generazioni di uomini hanno percorso le strade di una città o passeggiato senza meta di notte per le colline di un'antica terra, sorge il cantore”. Sorprende, a distanza di un secolo (i Canti del Mid-America risalgono al 1918), l'aderenza alla realtà, la strenua lotta verso una percezione non banale delle mutazioni della realtà: Sherwood Anderson è già consapevole che la “gente si era raggruppata nelle città. Ormai usavano le parole in modo frenetico. Le parole li avevano soffocati. Non potevano respirare” e che “non cantiamo ma mormoriamo nell'oscurità”. L'amarezza non è nascosta, non è mai edulcorata perché i Canti del Mid-America non hanno niente di consolatorio e Sherwood Anderson è esplicito e profetico quando dice che “stiamo cercando di aprirci un varco. Sono un canto io stesso, l'estremità di un canto spezzato io stesso”. Non bisogna andare molto lontano per lasciarsi penetrare dalla comprensione: i Canti del Mid-America sono cristallini, a scanso di equivoci e di interpretazioni nel dire che “la storia è vecchia, è stata raccontata da molti uomini in molte terre. Le terre appartengono a coloro che le raccontano. Adesso di certo questo è chiaro”. Quella terra è l'America, la promised land tradita, la canzone stonata, la rivoluzione soffocata sul nascere, nelle sue contraddizioni, nella sua violenza. Tra i tanti, un verso di Sherwood Anderson sembra quasi un epitaffio: “Stavo venendo con l'America, sognando con l'America, sperando con l'America, poi arrivò la guerra”. Rimane l'orgoglio del poeta, coraggioso e indomito fino alla fine nell'alzare la voce nei bassifondi, nell'intonare i Canti del Mid-America con la regalità di un inno, l'autorità di una sentenza e lo spirito di un blues: “Staremo giù nelle profondità fangose della nostra corrente, ci staremo. Lì nessun poeta può venire fuori e sedere sulla traballante rotaia dei nostri orridi ponti e farci arrivare in paradiso cantando. Stiamo scoprendo, questo è quello che voglio dire. Arriveremo alla nostra cosa qui fuori o moriremo per essa. Stiamo andando giù, innumerevoli migliaia di noi, nell'orrendo oblio. Lo sappiamo. Ma, dico, bardi, state lontano dai nostri ponti. Non impicciatevi dei nostri sogni, sognatori. Vogliamo dare una scossa a questa cosa, la democrazia di cui tanto si riempiono la bocca. Vogliamo vedere se siamo buoni a qualcosa là fuori, noi americani reduci da ogni luogo dell'inferno. Questo è ciò che vogliamo”. Una dichiarazione d'indipendenza, quella più importante.

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