venerdì 13 marzo 2015

Saul Bellow

E’ incredibile come Saul Bellow riesce a dar forma al racconto, allo stile, al senso ultimo della sua scrittura anche nell’ambito fragilissimo di un’intervista o “un frammento di memoriale” stando alla definizione di Norman Manea. E’, in effetti, un scorcio autobiografico molto dettagliato che si distribuisce in tutti i rami della famiglia Bellow, dall’ottobre 1917 in poi, con l’arrivo in America (e a New York in particolare) a cui non risparmia una delle sue caustiche analisi: “Una delle cose che bisogna dire degli Stati Uniti è che ti garantiscono il privilegio, sebbene tu sia un idiota, di esserlo senza provocare grossi danni”. La parte più sincopata dell’intervista, dove le domande di Norman Manea e le risposte di Saul Bellow tendono a sovrapporsi, è proprio quella attorno alla vita a New York e al percorso di avvicinamento e comprensione all’America, per entrambi non privo di ostacoli. E’ una parte affascinante, dove affiora la formazione e spuntano i legami letterari di Saul Bellow, poi Norman Manea, che gode della sua fiducia per non dire di un certo grado di familiarità, lo incalza, su temi specifici, l’esilio, la fede, le rivoluzioni e le guerre, non ultima (anzi) l’identità dell’artista e la valenza del suo lavoro in mezzo a tutto ciò: “Per uno scrittore come te, la cosa più importante è il modo in cui l’arte accoglie l’ambiguità. Il modo in cui insisti per lasciarla penetrare”. La risposta di Saul Bellow è così articolata e diffusa che, a conti fatti, occupa gran parte del resto del colloquio. Prima bisogna risalire, come premessa, al discorso tenuto in occasione in occasione del Nobel dove diceva che “esiste un’altra realtà, quella vera, che abbiamo perso di vista. L’altra realtà ci manda sempre dei suggerimenti che, senza l’arte, non saremmo in grado di cogliere”. Il confronto si sposta sul piano pratico, sull’applicazione concreta delle percezioni e delle loro traduzioni e da lì i passaggi successivi si incastrano uno dopo l’altro. Dice infatti Saul Bellow rispondendo all’ennesima sollecitazione di Norman Manea: “Nella scrittura, tutte queste domande su quello che è e non è vero, su quello ci puoi e non puoi credere diventano reali, e senti di avere l’obbligo di trovare una risposta, per così dire, di modellarle con la tua coscienza artistica. E’ una strana posizione in cui trovarsi, ma è così”. E’ una sensazione che Saul Bellow ha ribadito anche in altre occasioni, quando ha spiegato che “scrivere è un modo come un altro per organizzare il caos, per dare ordine al disordine”. Con Norman Manea il dialogo è più aperto e approfondito e Saul Bellow appare molto sincero quando dice che “da quando ho aperto gli occhi su questo mondo, ho avuto l’impressione che fosse schiavo di un’idea di ordine che però in realtà non ha mai funzionato per nessuno”. Se la letteratura o l’arte tout court possa essere un valido tentativo per farsene una ragione non si sente nemmeno lui di assicurarlo, né dal punto di vista dello scrittore (“Nei libri riesco davvero a mettere tutta una serie di cose strane, ma sotto una luce divertente. Alla fine viene fuori così”), né dal punto di vista di chiunque (“Sai, non ti rendi mai conto di com’è stata folle la tua vita finché non la racconti”). Trattandosi di una sorta di lascito Saul Bellow confessa a Norman Manea che “è così che faccio tornare i conti, prima di andarmene” e all’imponderabile domanda sul futuro, risponde serafico: “Al momento sto riflettendo su cosa fare. Sto ripensando alle cose, e leggendo”. Un maestro. 

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