lunedì 2 marzo 2015

Alice Munro

“La vita non è mai abbastanza” ed è per quello che esiste la letteratura, sembra suggerire Alice Munro. Le opzioni che si susseguono in Il sogno di mia madre sono fatte apposta per confermare il suo motto. La varietà delle forme narrative contenute, da Una donna di cuore, che è quasi un breve romanzo a Cortes Island, una brevissima short story, dalla linearità di Le bambine restano alla complessità di Il sogno di mia madre, è resa uniforme dal tema ricorrente nei racconti di Alice Munro: donne che se ne vanno, oppresse da quello che in Giacarta chiama “il peso materno” o per provare “la sensazione di pacato trionfo” nel rendersi conto di essere sole, come scrive in Ricca sfondata. Più di tutto, è “un’idea che ha a che fare con il non dover proseguire, non dover tornare a casa” e il più delle volte si traduce nell’inventarsi “uno spazio per sé, una fuga interiore”. Un proprio tempo, che pare essere ricalcato nelle continue deviazioni imposte da Alice Munro: spesso e volentieri schiva l’ordine cronologico e si concede flasback, ricordi, divagazioni, persino il rincorrere dei motivi di un antico gioco infantile, su cui costruisce tutto Salutate il mietitore. Il capolavoro di questa scomoda architettura, in sé una lettura molto stimolante, è proprio Il sogno di mia madre in cui, con la colonna sonora del Concerto per violino di Mendelssohn, sovrappone più e più piani di indagine, alzando in continuazione il livello e “l’onore di una scrupolosa attenzione”. L’altro estremo è ben rappresentato da Le bambine restano, la cui protagonista, Pauline, racchiude in sé un po’ tutti i caratteri dei personaggi di Alice Munro. Pauline ha un rapporto diafano e superficiale con il marito, appesantito dalla presenza di un suocero molesto. Mentre sono tutti insieme in vacanza, con le due figlie piccole, Pauline, tra le mille incombenze casalinghe, scopre “un’affinità di sensazioni” con il regista di una versione dilettantesca del mito di Orfeo, in cui lei, neanche a dirlo, deve interpretare Euridice. Il desiderio è una marea inarrestabile e il suo compimento sarà più inevitabile che entusiasmante (“La procedura non conosce poi tante varianti, a dispetto di quanto si dice. Contatti di pelle, gesti, la resa”). La fine della storia è lancinante, com’è prevedibile fin dal titolo, perché, come scrive Alice Munro, “eppure, che dolore. Da portarsi appresso e farci l’abitudine fino a quando è solo del passato che si soffre e non di qualsiasi presente possibile”. E’ il prezzo da pagare e la partenza di Pauline comincia da molto lontano visto che “proveniva da una famiglia dove le cose si prendevano talmente sul serio che suo padre e sua madre avevano divorziato”. E’ il costante ribaltamento di ruoli e posizioni tra madri e figlie, donne e bambine che anima la narrativa di Alice Munro insieme alla sua straordinaria capacità di cogliere piccoli dettagli tra “prati e cespugli, steccati, giardini e alberi, tutti coperti di mucchi e cuscini di neve, ancora non livellata o scomposta dal vento. Il bianco di quella neve non feriva gli occhi come quando ci batteva il sole. Era il bianco di neve sotto un cielo sereno poco prima dell’alba. Ogni cosa era ferma”. D’accordo che, come diceva qualcuno, la neve è sopravvalutata, ma quando Alice Munro riesce a colmare la differenza tra i riflessi con il sole ormai alto e invece, all’alba, dove la luce è più gentile, anche il Nobel diventa relativo.

Nessun commento:

Posta un commento