martedì 24 febbraio 2015

David Tell

Fin dagli albori delle prime formazioni organizzate sul campo di battaglia, la disciplina militare si distingue per quello che è, “paranoia istituzionalizzata”, e la definizione, nella sua crudità, è l’anima dura e spietata di Io sono un’arma. Scritte con lo pseudonimo di David Tell, le “memorie di un marine” sono una lunga apnea di seicento pagine in un universo parallelo dove un castello di regole kafkiane, un’incessante sequela di attività fisiche, privazioni, umiliazioni, insulti e ordini urlati a squarciagola sono destinati a forgiare la “punta della lancia” dei guerrieri americani. Dall’addestramento al dispiegamento in un qualche teatro di guerra, David Tell annota con una precisione maniacale tutte le marce, i poligoni, gli infortuni, le risse, le fatiche, le ferite, le attese. Il processo per diventare un marine, come in ogni esercito, più di ogni altro corpo, presuppone una fedeltà assoluta. L’obbedienza viene data per scontata e l’addestramento è una profonda ristrutturazione psicologica: il corpo dei marines decide, provvede e non concede (nulla). E’ tutto un modulo, una regola, una marcia, uno schema. La logica (paradossale) è concentrata nel motto non scritto dei marines, “sbrigati e aspetta” e, se ne accorge anche David Tell, “quando non c’è un sistema concreto per misurarlo il tempo diventa un flusso indistinto”. Tutto è distinto da un conto alla rovescia: si tratti di montare e smontare un fucile, rifare il letto (un’ossessione) o consumare un pasto, c’è sempre qualcuno a contare da dieci a zero ed è comprensibile l’ammissione di David Tell quando dice che “in certe occasioni era stato difficile capire quale fosse il mondo reale”. Più che Full Metal Jacket, la condizione è sempre quella di Comma 22 e da lì si può dire quello che si vuole, ma non si scappa: condizionata dal gusto insistente della burocrazia militare per gli acronimi, la truppa ne ha coniato uno che riassume il famoso paradosso di Joseph Heller in SNAFU, che sta per “situation normal, all fucked up” (situazione normale, tutto fottuto). A questa sigla si accompagna un’altra frase ricorrente in Io sono un’arma con cui David Tell sottolinea uomini, comportamenti, materiali che oltre ad essere SNAFU, non sono per niente adatti, “neanche per i nostri standard” e gli standard sono molto, molto bassi. Essendo convinti i marines di essere una forza d’élite e, ancora di più, di essere nati prima degli Stati Uniti (in effetti, il dato storico è quello), il loro è un microcosmo impenetrabile e David Tell lo spiega con una certa efficacia quando dice che “gli unici argomenti di discussione in caserma erano la guerra e la morte”. Meccanico, macchinoso e ripetitivo, come se fosse a sua volta un manuale, e come con tutta probabilità non si poteva scrivere altrimenti, Io sono un’arma rispecchia in modo realistico, quasi documentaristico, la vita dei soldati, e di quei particolarissimi soldati che sono i marines ed è minuzioso e accurato in tutti i dettagli, compresa l’amarezza con cui David Tell prende infine commiato dicendo: “Può darsi che l’America ami i suoi eroi, ma ama ancora di più crocifiggerli”. Non è facile da mandare giù.

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