venerdì 23 gennaio 2015

Spalding Gray

Ironia, arguzia, linguaggio sintetico e nello stesso tempo tagliente, visioni e immagini immediate, precise, spesso crudeli. Attore teatrale, interprete di diversi film (tra cui Urla del silenzio e True Stories), scrittore (persino un romanzo, nel curriculum) Spalding Gray era conosciuto soprattutto per i suoi show solitari. Gran parte dei suoi monologhi, deliri che sembrano un perfetto incrocio tra la vena caustica di Lenny Bruce e l’introspezione surreale di Woody Allen, hanno trovato posto in Sesso e morte fino a 14 anni e il personaggio è di quelli che meritano attenzione perchè capace di battute al vetriolo (“Ora, chi sono i santi nel mondo occidentale? Attori e attrici. Sono gli unici che possono dire di non sapere chi sono senza che li chiudano in manicomio”) e di creare una storia tutto intorno “dove si distinguono ancora compassione, dubbio, invidia, affetto fraterno, ambivalenza, tutte le sfumature del discorso umano”. Come faccia a tenere insieme tutto lo si vede in A nuoto in Cambogia: resoconto trasversale della sua partecipazione a Urla del silenzio, dal casuale, o quasi, ingaggio al set nella giungla fino alla conclusione del film. Spalding Gray ha occasione di sproloquiare un po’ su tutto ma i temi centrali rimangono la guerra e il mondo dell'informazione o, meglio, Hollywood. Due realtà nemmeno tanto distanti tra loro, che Spalding Gray sposa così: “Guerroterapia. Tutti i paesi dovrebbero fare un grosso film di guerra all’anno. Darebbe lavoro a un sacco di gente, li aiuterebbe a godere. E quando atterri in quella giungla, altro che immedesimarti! Quando le pale dell’elicottero ti fischiano sulla testa, urli per farti sentire”. Le immagini di Urla del silenzio si susseguono, i set vengono montati, smontati, rimontati e aragosta fresca attraversa tutti i giorni un intero emisfero (dal Maine all’Indocina) per essere servita alla troupe, insieme a marijuana e alcol. E’ un clima da festa mobile, ma nell’aria si respira il dramma della Cambogia, come intuisce James Leverett nell’introduzione: “Un piccolo paese di gente amabile, paradiso innocente, spinto alla frenesia del genocidio da Mao, Rosseau e i B-52. Ma bastano sangue finto e interiora di pollo a rendere accettabili quei cittadini trucidati o comparse che siano? Villaggi in fiamme o pneumatici in fiamme disposti dai tecnici per gli effetti speciali? Siamo nella storia o sul set?”. Spalding Gray non risponde alla domanda, perché è troppo intelligente per lasciarsi ingannare: la sua raffinata ironia comincia già nelle prime pagine quando dice che “il prodotto finito è il risultato di una serie di errori organici, creativi, la percezione stessa funge da editor della redazione definitiva”. In A nuoto in Cambogia dissemina piuttosto tante possibili soluzioni, a partire da una riconversione del linguaggio e, in via del tutto particolare, dell’umorismo. E, ricostruendo quello che lui chiama un “film interiore”, Spalding Gray mette in scena un’umanità varia e confusa e una parodia di quella società che non riesce più a distinguere la realtà dal gioco perverso delle illusioni sceniche.

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