martedì 27 gennaio 2015

Joyce Carol Oates

La nota più curiosa è in appendice alla sua colta disgressione Sulla boxe dove Joyce Carol Oates afferma che “il sentimento amoroso è probabilmente l’essenza di ciò per cui io scrivo”. Si tratta di una “emozione eterna e insondabile” che ha ben poco da condividere con la boxe, ma Joyce Carol Oates ha il privilegio di tutti i grandi scrittori, che sono capaci di scrivere di qualsiasi cosa come se fosse una loro creazione. La boxe è un argomento specifico e circoscritto e vantando anche una nutrita tradizione letteraria, da Jack London a Ernest Hemingway, e ha buon gioco nell’interpretarne le diverse sfumature, legandole alla sua personale collocazione, la cui origine risale all’infanzia, quando il padre la portava a vedere gli incontri. Da lì Joyce Carol Oates racconta la boxe come uno sport, e più di uno sport. La sua analisi storica risale fino all’antica Roma e alle origini greche del pugilato perché “in ogni modo, la rabbia è la reazione adeguata a certi fatti irremovibili della vita, non un maleficio immotivato come nella tragedia classica, bensì un impulso pienamente motivato che trova molte delle sue radici nella società. L’impotenza prende forme diverse, fra queste il noncurante dispendio fisico di potenza fisica”. Coinvolta dalle figure prestanti dei boxeur, dalle loro vite drammatiche, non fa niente per dissimulare la sua ammirazione e nello stesso modo non le sfugge la natura intrinseca dei combattimenti visto che  “accade così che più una società è ricca e avanzata, più l’interesse per determinati sport diventi fanatico. La traiettoria delle civiltà deve ripiegarsi su se stessa (naturalmente? Inevitabilmente?) come il serpente mitico che si morde la coda, in un ritorno di passione per le manifestazioni e i gesti di ferocia. Se è plausibile che uomini e donne spenti nelle emozioni possano aver bisogno, per risvegliarle, di esperienze sempre più estreme, allora è plausibile anche che il desiderio non sia solo di imitare, ma di essere, come per magia, brutali, primitivi, istintivi e perciò innocenti”. L’analisi è competente e profonda e la boxe come metafora della vita non s’incastra sempre perché “la pretesa della boxe è di essere superiore alla vita, in quanto idealmente superiore a ogni casualità” e d’altra parte “la vita è come la boxe in molti particolari inquietanti. Ma la boxe è soltanto come la boxe”. L’indecisione del giudizio finale di Joyce Carol Oates Sulla boxe è contraddittoria solo in apparenza perché è troppo raffinata ed evoluta nell’esprimere un’idea di pugilato che “pare contenere un’immagine della vita così completa e potente, la bellezza della vita, la vulnerabilità, la disperazione, il coraggio inestimabile e spesso autodistruttivo, che è davvero vita, nient’affatto gioco”. Questo è solo il primo gradino per salire sul ring e capire la boxe, e comprendere davvero il suo valore, perché poi “limitarsi a suggerire che gli uomini potrebbero amarsi e rispettarsi l’un l’altro direttamente, senza il violento rituale del combattimento, significherebbe fraintendere la più grande passione degli uomini, la guerra, non la pace. L’amore, se amore ci deve essere, viene dopo”. Un piccolo saggio, un’utile riflessione. 

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