sabato 17 gennaio 2015

Chris Kyle

Non è una bella lettura, American Sniper, perché non va oltre i doveri della testimonianza: la scrittura è piatta, monocorde, ridotta nella forma e nello stile e del resto Chris Kyle ha passato una vita a tirare il grilletto, non a studiare letteratura. E’ una catena di montaggio di luoghi comuni ma, se non altro, American Sniper risponde a una cruda sincerità mettendo in mostra una fiducia cieca nelle armi e nell’applicazione della forza.  Scoperchia anche molte verità sull’infinita violenza della guerra in Iraq, sulle battaglie casa per casa a Falluja, Ramadi e Sadr City, nonché sulla tragica quotidianità di Baghdad. Dietro le ottiche dei suoi fucili di precisione, Chris Kyle è convinto di essere un “moltiplicatore di forza” e si confessa con una certa spudoratezza quando dice che l’applicazione del suo talento era “divertente”. Il dramma risiede proprio nelle certezze (le solite: la fede, la patria, la famiglia) da cui si fa guidare, fino alle estreme conseguenze, perché “andando di continuo in guerra, ti muovi nei meandri più bui dell’esistenza” e laggiù, nel buio, nella polvere, nel disastro, certi valori né aiutano né servono. American Sniper gli si attorciglia attorno e Chris Kyle ammette e racconta la realtà per quello che è: l’unico motivo e l’unico destino della guerra non è la gloria, o la democrazia, o chissà cosa. E’ restare vivi, e quindi ammazzare il nemico, fine del discorso. Qui Chris Kyle è fin troppo esplicito: “Non ho rischiato la vita per portare la democrazia in Iraq. Ho rischiato la vita per i miei compagni, per proteggere i miei amici e i miei connazionali. Sono andato in guerra per il mio paese, non per l’Iraq. Il mio paese mi aveva mandato là in modo che tutta quella merda non arrivasse a lambire le nostre coste. Non ho combattuto neppure una volta per gli iracheni. Degli iracheni non mi frega un cazzo”. E’ quando torna a casa che il quadro non sta più nella cornice. La formazione di macchine di guerra come lui è quella che è, e non potrebbe essere diversamente: un’iniziazione alla violenza senza limiti e lo stess post traumatico comincia prima di andare in guerra perché c’è qualcosa di sadomasochistico anche nell’addestramento. I ragazzi sono un tantino esagerati: gli piace spaccarsi le ossa negli allenamenti o tra di loro o nelle risse nei bar, gli piace andare a sfiorare tutti i limiti, giocando sempre sul filo del rasoio, ma poi finiscono a pezzi, e non soltanto perché travolti dall’esplosione di una granata. Nuotare con gli squali non è come rispettare le regole d’ingaggio o sopportare le proteste di chi è contrario alla guerra, a tutte le guerre. Il senso di inutilità, dietro una sconfitta latente, è sempre in agguato. Non è un lavoro, ed è lì che la macchina s’inceppa: Chris Kyle arriva al suo ultimo turno in Iraq “incapace di mangiare o di dormire” e quando viene rispedito a casa si accorge di essere solo un sopravvissuto, nemmeno un reduce o un veterano. Con un finale paradossale e tragico, che trasforma la leggenda in un eroe disperato.

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