venerdì 30 gennaio 2015

Davis Grubb

La vita non scorre mai tranquilla lungo il fiume. Siamo nei dintorni del 1929 e la crisi economica serpeggia spietata nella provincia americana: non basta un umile lavoro a mantenere una famiglia con due figli ed è allora che Ben Harper decide di andare a prendere i soldi con una pistola. La rapina, solitaria e disperata, finisce in un disastro con due persone ammazzate, lui viene catturato in riva al fiume e condannato a morte, ma diecimila dollari sono spariti da qualche parte. Senza Ben Harper, Willa (la moglie e la madre di John e Pearl) deve andare a lavorare nella pasticceria di Walter e Icey Spoon. La vita diventa ancora più povera, delimitata e scandita dalle stagioni e dalle incombenze naturali: un temporale può dire molto, anche annunciare l’arrivo di un uomo misterioso, affascinante. Si chiama Harry Powell ed è un predicatore con le nocche tatuate: da una parte ha inciso sulla pelle “odio” e dall’altra, “amore”. La sua figura imponente si staglia subito nella terra desolata genera e ne evidenzia i limiti e i contrasti. Per quanto accompagnato da molti contorni oscuri, è anche un’opportunità. Per una donna con due figli da mantenere nelle profondità dell’America, un uomo e di conseguenza un marito, è più che necessario, se vuole vivere una vita onesta. Sostenuto dai benpensanti, Harry Powell potrebbe e dovrebbe essere la persona giusta per Willa, e invece è soltanto lì per interpretare un ruolo che può condurlo alla refurtiva. Il suo segreto è che in carcere condivideva la stessa cella con Ben Harper, prima che fosse impiccato, e da lui ha intuito l’esistenza del malloppo, nascosto da qualche parte, laggiù lungo il fiume. Harry Powell mente, ma anche chi è sincero, a partire da Willa, contribuisce a generare un substrato di ambiguità, che è poi il clima in cui il predicatore opera e si muove a suo agio. Un dilemma che è riassunto così: “Non è vero niente perché qui sta succedendo qualcosa che non capisco ma dobbiamo giocarcela fino in fondo finché le cose non si chiariscono”. La trama si annoda proprio intorno all’incedere dei contrasti, al sovrapporsi delle ombre che seguono il predicatore stesso e si propagano su tutti gli altri. L’inganno rimane nascosto e la costruzione del romanzo è una bomba a orologeria: Harry Powell insinua nella famiglia di Ben Harper come un virus. Nemmeno i bambini sono esenti dal fascino, anche se qualche margine di dubbio l’hanno sempre perché dal loro punto di vista “non sai mai che ti raccontano. E non scopri mai se le cose sono vere oppure no”. Quello che colpisce, anche a più di mezzo secolo di distanza, non è tanto la ricostruzione del predicatore come un ciarlatano, un truffatore, un killer pronto a tutto (e comunque, un grande personaggio), piuttosto la spessa sedimentazione di linguaggi, dalle filastrocche alle canzoni popolari, dai passaggi biblici al dialetto delle chiacchiere provinciali. Davis Grubb li riassume in una rappresentazione vivida, aspra, intensa che ha reso La morte corre sul fiume un classico. Con uno spunto chiaroveggente, poi, perché la città sullo sfondo, guarda caso, si chiama New Economy.

martedì 27 gennaio 2015

Joyce Carol Oates

La nota più curiosa è in appendice alla sua colta disgressione Sulla boxe dove Joyce Carol Oates afferma che “il sentimento amoroso è probabilmente l’essenza di ciò per cui io scrivo”. Si tratta di una “emozione eterna e insondabile” che ha ben poco da condividere con la boxe, ma Joyce Carol Oates ha il privilegio di tutti i grandi scrittori, che sono capaci di scrivere di qualsiasi cosa come se fosse una loro creazione. La boxe è un argomento specifico e circoscritto e vantando anche una nutrita tradizione letteraria, da Jack London a Ernest Hemingway, e ha buon gioco nell’interpretarne le diverse sfumature, legandole alla sua personale collocazione, la cui origine risale all’infanzia, quando il padre la portava a vedere gli incontri. Da lì Joyce Carol Oates racconta la boxe come uno sport, e più di uno sport. La sua analisi storica risale fino all’antica Roma e alle origini greche del pugilato perché “in ogni modo, la rabbia è la reazione adeguata a certi fatti irremovibili della vita, non un maleficio immotivato come nella tragedia classica, bensì un impulso pienamente motivato che trova molte delle sue radici nella società. L’impotenza prende forme diverse, fra queste il noncurante dispendio fisico di potenza fisica”. Coinvolta dalle figure prestanti dei boxeur, dalle loro vite drammatiche, non fa niente per dissimulare la sua ammirazione e nello stesso modo non le sfugge la natura intrinseca dei combattimenti visto che  “accade così che più una società è ricca e avanzata, più l’interesse per determinati sport diventi fanatico. La traiettoria delle civiltà deve ripiegarsi su se stessa (naturalmente? Inevitabilmente?) come il serpente mitico che si morde la coda, in un ritorno di passione per le manifestazioni e i gesti di ferocia. Se è plausibile che uomini e donne spenti nelle emozioni possano aver bisogno, per risvegliarle, di esperienze sempre più estreme, allora è plausibile anche che il desiderio non sia solo di imitare, ma di essere, come per magia, brutali, primitivi, istintivi e perciò innocenti”. L’analisi è competente e profonda e la boxe come metafora della vita non s’incastra sempre perché “la pretesa della boxe è di essere superiore alla vita, in quanto idealmente superiore a ogni casualità” e d’altra parte “la vita è come la boxe in molti particolari inquietanti. Ma la boxe è soltanto come la boxe”. L’indecisione del giudizio finale di Joyce Carol Oates Sulla boxe è contraddittoria solo in apparenza perché è troppo raffinata ed evoluta nell’esprimere un’idea di pugilato che “pare contenere un’immagine della vita così completa e potente, la bellezza della vita, la vulnerabilità, la disperazione, il coraggio inestimabile e spesso autodistruttivo, che è davvero vita, nient’affatto gioco”. Questo è solo il primo gradino per salire sul ring e capire la boxe, e comprendere davvero il suo valore, perché poi “limitarsi a suggerire che gli uomini potrebbero amarsi e rispettarsi l’un l’altro direttamente, senza il violento rituale del combattimento, significherebbe fraintendere la più grande passione degli uomini, la guerra, non la pace. L’amore, se amore ci deve essere, viene dopo”. Un piccolo saggio, un’utile riflessione. 

venerdì 23 gennaio 2015

Spalding Gray

Ironia, arguzia, linguaggio sintetico e nello stesso tempo tagliente, visioni e immagini immediate, precise, spesso crudeli. Attore teatrale, interprete di diversi film (tra cui Urla del silenzio e True Stories), scrittore (persino un romanzo, nel curriculum) Spalding Gray era conosciuto soprattutto per i suoi show solitari. Gran parte dei suoi monologhi, deliri che sembrano un perfetto incrocio tra la vena caustica di Lenny Bruce e l’introspezione surreale di Woody Allen, hanno trovato posto in Sesso e morte fino a 14 anni e il personaggio è di quelli che meritano attenzione perchè capace di battute al vetriolo (“Ora, chi sono i santi nel mondo occidentale? Attori e attrici. Sono gli unici che possono dire di non sapere chi sono senza che li chiudano in manicomio”) e di creare una storia tutto intorno “dove si distinguono ancora compassione, dubbio, invidia, affetto fraterno, ambivalenza, tutte le sfumature del discorso umano”. Come faccia a tenere insieme tutto lo si vede in A nuoto in Cambogia: resoconto trasversale della sua partecipazione a Urla del silenzio, dal casuale, o quasi, ingaggio al set nella giungla fino alla conclusione del film. Spalding Gray ha occasione di sproloquiare un po’ su tutto ma i temi centrali rimangono la guerra e il mondo dell'informazione o, meglio, Hollywood. Due realtà nemmeno tanto distanti tra loro, che Spalding Gray sposa così: “Guerroterapia. Tutti i paesi dovrebbero fare un grosso film di guerra all’anno. Darebbe lavoro a un sacco di gente, li aiuterebbe a godere. E quando atterri in quella giungla, altro che immedesimarti! Quando le pale dell’elicottero ti fischiano sulla testa, urli per farti sentire”. Le immagini di Urla del silenzio si susseguono, i set vengono montati, smontati, rimontati e aragosta fresca attraversa tutti i giorni un intero emisfero (dal Maine all’Indocina) per essere servita alla troupe, insieme a marijuana e alcol. E’ un clima da festa mobile, ma nell’aria si respira il dramma della Cambogia, come intuisce James Leverett nell’introduzione: “Un piccolo paese di gente amabile, paradiso innocente, spinto alla frenesia del genocidio da Mao, Rosseau e i B-52. Ma bastano sangue finto e interiora di pollo a rendere accettabili quei cittadini trucidati o comparse che siano? Villaggi in fiamme o pneumatici in fiamme disposti dai tecnici per gli effetti speciali? Siamo nella storia o sul set?”. Spalding Gray non risponde alla domanda, perché è troppo intelligente per lasciarsi ingannare: la sua raffinata ironia comincia già nelle prime pagine quando dice che “il prodotto finito è il risultato di una serie di errori organici, creativi, la percezione stessa funge da editor della redazione definitiva”. In A nuoto in Cambogia dissemina piuttosto tante possibili soluzioni, a partire da una riconversione del linguaggio e, in via del tutto particolare, dell’umorismo. E, ricostruendo quello che lui chiama un “film interiore”, Spalding Gray mette in scena un’umanità varia e confusa e una parodia di quella società che non riesce più a distinguere la realtà dal gioco perverso delle illusioni sceniche.

martedì 20 gennaio 2015

Philip Roth

Patrimonio è uno dei primi gradini che Philip Roth ha affrontato nel ridisegnare l’età avanzata, quando la mortalità si manifesta ineluttabile, come qualcosa di tangibile, ovvero diventa “la più brutale delle realtà”. La decadenza fisiologica del corpo e dei tessuti, che sono martoriati dal tempo e dagli eventi, sembra disgregare anche il rivestimento dei legami che si rivelano fragili e instabili. Il decorso è parallelo, la sorpresa diventa imbarazzo: più gli anni passano e più la famiglia si allarga, non tanto nel senso del numero e della forma, quanto perché si aprono squarci nei contorti rapporti degli adulti e “il più intimo intreccio della vita in comune di due genitori, le difficoltà e le delusioni e le lunghe tensioni, rimane misterioso”. Nella metamorfosi emergono e sono messi in rilievo i nodi che avvicinano e/o allontanano le persone nell’ambito, quello famigliare, e in particolare, visto che Philip Roth sta seguendo il dolorosissimo crepuscolo del padre, diventa chiaro che “tutti i figli pagano un prezzo, e il perdono implica perdono anche per il prezzo che hai pagato”. La percezione di Philip Roth è lucida e ancora di più la sua traduzione nella scrittura: non usa gli aggettivi a caso, anzi lo fa con parsimonia, e quando la rete famigliare si scioglie insieme alla corruzione delle fibre davanti ai bambini, che ormai sono diventati adulti, appare in tutta la sua chiarezza “l’abisso struggente tra i nostri padri e noi”. In sé,  è la definizione perfetta di Patrimonio: la descrizione delle sofferenze del padre (e poi delle sue), della vecchiaia e della malattia che incombono con tutto il loro peso sull’animale morente è lirica, estrema, straziante. Philip Roth è capace di raccontare la sua storia come quella dei suoi personaggi e dei suoi romanzi, con la stessa coraggiosa vocazione a lasciarsi coinvolgere e con quella scrittura minuziosa, millimetrica, acuta (cerebrale, nella migliore accezione del termine) sensibilissima nel salvaguardare quello che si può, magari giusto un po’ di nostalgia, visto che “forse eravamo gente comune, ma le nostre relazioni non mancavano di grandeur”. Philip Roth scrive Patrimonio con devozione (filiale) perché, come sostiene il padre, “se un uomo non è fatto di ricordi, è fatto di niente”, e lo fa senza rinunciare a quella forza capace di “fare con le parole un buco nella testa di qualcuno”. E’ un libro accorato e accurato: costruisce sulla cognizione del dolore e della sofferenza un’intera memoria, più che una storia, senza esitare davanti ai particolari più degradanti e sgradevoli. Può apparire persino ossessivo e morboso nell’accanirsi sui dettagli clinici, dalle diagnosi sempre un po’ empiriche alle incognite delle soluzioni chirurgiche, in cui si distingue per le minuziose ricostruzioni, non è soltanto per lo scrupoloso lavoro del narratore. E’ così perché “la battaglia è diversa per tutti e la battaglia non finisce mai”, e poi bisogna dire che Philip Roth è sublime anche quando si merita, in Patrimonio, di sguazzare in mezzo alla merda. 

sabato 17 gennaio 2015

Chris Kyle

Non è una bella lettura, American Sniper, perché non va oltre i doveri della testimonianza: la scrittura è piatta, monocorde, ridotta nella forma e nello stile e del resto Chris Kyle ha passato una vita a tirare il grilletto, non a studiare letteratura. E’ una catena di montaggio di luoghi comuni ma, se non altro, American Sniper risponde a una cruda sincerità mettendo in mostra una fiducia cieca nelle armi e nell’applicazione della forza.  Scoperchia anche molte verità sull’infinita violenza della guerra in Iraq, sulle battaglie casa per casa a Falluja, Ramadi e Sadr City, nonché sulla tragica quotidianità di Baghdad. Dietro le ottiche dei suoi fucili di precisione, Chris Kyle è convinto di essere un “moltiplicatore di forza” e si confessa con una certa spudoratezza quando dice che l’applicazione del suo talento era “divertente”. Il dramma risiede proprio nelle certezze (le solite: la fede, la patria, la famiglia) da cui si fa guidare, fino alle estreme conseguenze, perché “andando di continuo in guerra, ti muovi nei meandri più bui dell’esistenza” e laggiù, nel buio, nella polvere, nel disastro, certi valori né aiutano né servono. American Sniper gli si attorciglia attorno e Chris Kyle ammette e racconta la realtà per quello che è: l’unico motivo e l’unico destino della guerra non è la gloria, o la democrazia, o chissà cosa. E’ restare vivi, e quindi ammazzare il nemico, fine del discorso. Qui Chris Kyle è fin troppo esplicito: “Non ho rischiato la vita per portare la democrazia in Iraq. Ho rischiato la vita per i miei compagni, per proteggere i miei amici e i miei connazionali. Sono andato in guerra per il mio paese, non per l’Iraq. Il mio paese mi aveva mandato là in modo che tutta quella merda non arrivasse a lambire le nostre coste. Non ho combattuto neppure una volta per gli iracheni. Degli iracheni non mi frega un cazzo”. E’ quando torna a casa che il quadro non sta più nella cornice. La formazione di macchine di guerra come lui è quella che è, e non potrebbe essere diversamente: un’iniziazione alla violenza senza limiti e lo stess post traumatico comincia prima di andare in guerra perché c’è qualcosa di sadomasochistico anche nell’addestramento. I ragazzi sono un tantino esagerati: gli piace spaccarsi le ossa negli allenamenti o tra di loro o nelle risse nei bar, gli piace andare a sfiorare tutti i limiti, giocando sempre sul filo del rasoio, ma poi finiscono a pezzi, e non soltanto perché travolti dall’esplosione di una granata. Nuotare con gli squali non è come rispettare le regole d’ingaggio o sopportare le proteste di chi è contrario alla guerra, a tutte le guerre. Il senso di inutilità, dietro una sconfitta latente, è sempre in agguato. Non è un lavoro, ed è lì che la macchina s’inceppa: Chris Kyle arriva al suo ultimo turno in Iraq “incapace di mangiare o di dormire” e quando viene rispedito a casa si accorge di essere solo un sopravvissuto, nemmeno un reduce o un veterano. Con un finale paradossale e tragico, che trasforma la leggenda in un eroe disperato.

martedì 13 gennaio 2015

Ralph Waldo Emerson

In risposta a giorni sempre più confusi e isterici, i Saggi della foresta di Ralph Waldo Emerson tracciano ancora un solco alternativo e coraggioso, né allineato né omologato. E’ solo la forza del pensiero, in definitiva, che può distinguere la realtà dalla percezione della realtà, propagando un’idea di “elevazione”, il tentativo che si propone Ralph Waldo Emerson chiamandolo “l’incantesimo della sincerità, quel lusso permesso solo ai re e ai profeti”. La trascendenza non è una religione, anche se nei suoi concetti assertivi può somigliare alle peculiarità di una fede, e nemmeno un istituto filosofico. Magari gli si avvicina parecchio perché un’attitudine al pensiero con alcuni leitmotiv ribaditi con insistenza, come per definire con chiarezza un confine. L’uomo, la natura, il silenzio, “l’indipendenza della solitudine”, al centro di tutto perché “credere nel proprio pensiero, credere che ciò che è vero per te nell’intimo del tuo animo è vero per tutti gli uomini: questo è il genio”. Questo è in fondo anche il vero atto di resistenza umana e civile, “quando l’atto della riflessione ha luogo nella mente, quando ci osserviamo alla luce del pensiero, noi scopriamo che la nostra vita è incastonata nella bellezza”. Emerson è sicuro che non c’è altro luogo perché “ovunque la società è in perenne conflitto contro la maturità spirituale di ciascuno dei suoi membri. Essa non è altro che una società per azioni, nella quale ciascuno membro acconsente, per meglio assicurare il pane a ogni azionista, a rinunciare alla libertà e alla cultura del singolo consumatore di tale pane. La virtù che più si ricerca è il conformismo, di cui la fiducia in se stessi è l’opposto: esso non ama vere realtà e autentici creatori, ma soltanto nomi e consuetudini”. E’ l’aspetto ribadito a più riprese da Emerson, convinto “che l’antenato di ogni azione è un pensiero” e nello stesso tempo che “il nostro modo di leggere è da mendicanti e da sicofanti. Nella storia, la nostra immaginazione ci inganna”. Ralph Waldo Emerson è sincero (e onesto) fino al punto di spiegare che “le nostre arti, le nostre occupazioni, i nostri matrimoni, la nostra religione, non li abbiamo scelti noi, ma è stata la società a sceglierli per noi. Siamo soldati da salotto, che schivano la dura battaglia del fato, dove nasce la forza”. La consapevolezza dei propri limiti non impedisce, d’altra parte, di comprendere  “che un uomo è, è sempre, di necessità, qualcosa di acquisito; e ciò che l’uomo acquisisce è proprietà viva, che non attende cenni di governanti, folle, rivoluzioni, fuoco, tempesta o bancarotte, ma perpetuamente si rinnova ogni volta che l’uomo respira”. Il commiato rimane esemplare: “Per quanto poche e meschine siano le doti in mio possesso, io esisto davvero, e non ho bisogno per rassicurare me stesso o i miei concittadini di nessuna testimonianza accessoria”. Questo dovrebbe bastare, perché poi nelle lezioni raccolte in Fiducia in se stessi, Compensazione e Leggi spirituali, c’è “la coscienza civile americana” o, come l’ha definita Oliver  Wendell Holmes, “la nostra dichiarazione di indipendenza intellettuale”. Da rileggere spesso, indispensabile nelle nebbie dell’emergenza.

giovedì 8 gennaio 2015

Jason Starr

La continua sfida in tutte le variabili possibili del gioco d’azzardo porta di Joey DePino a spingere nell’unica direzione possibile fin dove la razionalità (o quello che ne rimane) s’interseca con l’imprevedibilità. Il bisogno di soldi (prima epidermico, poi endemico e infine patologico) lo rende insensibile a qualsiasi altra considerazione. L’unica logica che ammette è che “era sempre questione di fortuna. Alcuni vincevano la lotteria, altri si beccavano un condizionatore d’aria sulla testa mentre camminavano per la strada. Il resto del mondo si trovava in una via di mezzo”. Joey DePino è un po’ che non ne azzecca una e quando gli immancabili creditori gli recapitano l’ultimo sollecito di pagamento con le dovute cortesie, capisce che è arrivato al capolinea. L’andamento a spirale di Niente di personale, un modello a cui Jason Starr fa spesso riferimento, subito dopo i guai di Joey DePino, incrocia quelli di David Sussman, un manager con una posizione da difendere e un adulterio che si sta trasformando in un incubo. Le due storie si avvinghieranno sempre di più, in apparenza senza sfiorarsi, eppure entrambe radicate in una comune e contigua incapacità di comunicazione, che non è solo verbale o emotiva. E’ un distacco, gelido e imperfetto dal mondo e/o dall’umanità in funzione dell’ambizione dell’accumulo, della carriera, del desiderio, di istinti più o meno viscerali. Jason Starr riesce a renderli con estrema chiarezza, anche con tutti i suoi limiti linguistici: l’insoddisfazione e il rischio, che si ritrovano nel gioco d’azzardo, usato in Niente di personale come espressione metaforica di una società votata alla competitività e all’aggressività, individualista fino al midollo. E’ la solitudine di personaggi che sono soli anche quando si trovano insieme, anche quando caracollano da una parte all’altra di una città di milioni e milioni di abitanti, a sua volta una specie di scommessa in sé. Niente di personale si evolve proprio come un tiro di dadi e quando esce il numero del personaggio di turno, il destino si accavalla con i piani, i complotti, le decisioni e le scelte in un crescendo disordinato e martellante, efficace per quanto sconnesso. Il gioco d’azzardo che travolge Joey DePino è solo il primo dei gironi infernali architettati da Jason Starr in Niente di personale che è percorso dal tradimento, dalla vendetta, da una violenza endemica destinata a esplodere in modo inesorabile nella sua trama, che si avvita e stritola i personaggi, senza lasciargli via di scampo. New York, sullo sfondo, è sempre lo scenario perfetto perché come scriveva l’antropologo inglese Desmond Morris “la città non è un giungla di cemento, è uno zoo umano”. Jason Starr ribalta i ruoli, lascia rimbalzare l’epicentro di Niente di personale di volta in volta sui personaggi, che si dimenano quasi fossero prigionieri delle trame che loro stessi costruiscono. Gli incroci sono speculari e pericolosi, tutti sono incastrati in ruoli che non sono in grado di risolvere, ognuno vede nel dramma dell’altro la propria soluzione fino al finale, che è un plastico sberleffo. Non proprio bello, ma molto funzionale a capire dove siamo arrivati.

venerdì 2 gennaio 2015

William Faulkner

L’odissea della famiglia Brunden (Anse, il cadavere della moglie Addie e i cinque figli Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman) ricalca sentieri e traversie bibliche con un punto di partenza essenziale così come l’ha descritto William Faulkner: “Ho immaginato semplicemente un gruppo di persone, che ho sottoposto a quei flagelli naturali e universali che sono l’inondazione e l’incendio, con un pretesto elementare che guidasse la progressione delle loro azioni”. La furia degli elementi è determinante nella complessa visione, insieme cinematografica e metafisica. Il carro nel fiume è un naufragio, ogni passo degli uomini e degli animali è “sangue selvaggio che bolle nella terra” e la tragicità del viaggio in sé, nella sostanza un corteo funebre privo di controllo, dipende dal fatto che, come dice uno dei protagonisti, “è come se lo spazio che ci separa fosse tempo: una qualità irrevocabile”. La stessa della  scrittura di Faulkner: in Mentre morivo è precisa, lirica eppure immediata e popolare. Intaglia le frasi con la stessa premura con cui Cash rifinisce le assi della bara, ma con la coscienza dei limiti e delle asperità del linguaggio. Estremo nella rappresentazione Faulkner, lo è anche nella forma quando dice che “le parole non significano nulla, non corrispondono mai a ciò che si sforzano di esprimere”, e una parte non indifferente della grandezza di Mentre morivo si appoggia proprio su questa consapevolezza e nell’essere stato capace di trasferirla alle sue creature. Lo rivela Addie, o il suo fantasma, forse, rivolta ad Anse: “Lo chiamava amore. Ma io ero abituata alle parole da molto tempo. Sapevo che quella parola era come tutte le altre: solo una forma per riempire un vuoto; sapevo che al momento giusto non ci sarebbe stato più bisogno di quella parola né delle altre, come orgoglio o paura”. Questa percezione si riflette anche nel formato di Mentre morivo, insieme corale e segmentato, voce per voce, personaggio per personaggio e ben riassunto dalla ricostruzione di Darl: “Come se quell’agglomerato che noi siamo si fosse dissolto nel caotico movimento originario, la vista e l’udito fossero diventati cecità e sordità, e il furore fosse ridotto all’immobilità assoluta”. Non servirebbe aggiungere altro, se non quello che già Fernanda Pivano aveva chiarito, con la consueta sagacia: “Faulkner è incapace di abbandonare un’immagine prima di averla frugata e scarnificata fino agli elementi costitutivi in una corsa esaltata verso la definizione di una realtà che gli sfugge continuamente, come ogni realtà che abbia in sé il senso di un destino”. Il tema è quello e la conferma arriva dallo stesso William Faulkner: “Anche la famiglia Bundren, in Mentre morivo, affronta molto bene il proprio. Il padre, avendo perduto la moglie, ne ha naturalmente bisogno di un’altra, e così se la prende. E non si limita a sostituire la cuoca di famiglia, ma contemporaneamente compra anche un grammofono per rallegrare a tutti le ore di riposo. La figlia incinta non riesce ad abortire, ma non si scoraggia. Si propone di tentare ancora, e se non dovesse riuscirci, dopo tutto ci sarà soltanto un bambino in più al mondo”, e amen, perché comunque la fine è sempre quella, dalla culla alla fossa. Molto più di un romanzo.