domenica 27 dicembre 2015

Don Winslow

Sempre più crudeli, più efferati nell’infliggere torture, mutilazioni, umiliazioni, sofferenze. Tutti, senza distinzione: non c’è salvezza, non c’è redenzione nell’atroce scia di sangue che Il cartello si lascia alle spalle. E’ una vera e propria guerra, spietata e insensata che, come tutte le guerre moderne dal ventesimo in secolo in poi, non distingue tra soldati e civili, chiunque è un bersaglio, anche se mascherati come vittima collaterale o qualsiasi altro eufemismo venga usato. La vendetta è tutto, il potere della morte è tutto e quello che resta è il deserto e città popolate da fantasmi, con Ciudad Juárez in cima alla lista. Don Winslow spiega molto bene come nasce la guerra per e contro il traffico di droga, la condizione apocalittica del Messico moderno (né più né meno di quello antico) e l’attinenza alla cronaca e alla realtà (Il cartello è, de facto, un romanzo storico) colpisce, insieme all’abilità di rendere intellegibili i modus operandi dei cartelli, dei trafficanti, delle forze di polizia, dell’esercito, delle agenzie federali degli Stati Uniti, degli agenti sotto copertura, dei cambiamenti di ruolo e di strategia, delle trasformazioni delle alleanze, delle tregue e degli scontri in un’orgia di inaudita violenza. Senza fine e senza senso perché, come si era già capito con Il potere del cane e come diventa ridondante con Il cartello, puoi anche vincere una guerra, ed essere il più potente, ma non sarai mai al sicuro. Art Keller non è estraneo alla sete di morte, alla devozione ai meccanismi (senza ritorno) della vendetta perché la guerra è in sé una vendetta, e soltanto quello. Ha varcato il confine già con Il potere del cane, mentre Il cartello porta lo porta un passo più in là. Avrebbe voluto restare nel suo buen retiro, ad allevare le api, ma sapeva che il passato, quel passato che non passa mai, l’avrebbe richiamato. Teneva una pistola nascosta tra le arnie ed è così che “Keller è diventato un blues, uno dei perdenti di Tom Waits, uno dei santi di Kerouac, un eroe di Springsteen sotto le luci delle autostrade americane e i neon dei locali. Un fuggiasco, un bracciante, un vagabondo, un cowboy che, pur sapendo di essere arrivato alla fine della prateria, continua a galoppare, perché non c’è altro da fare”. Quando Adán Barrera, il señor, torna in Messico, è chiaro che la lotta riprenderà: il traffico di droga, la malefica rotta dal produttore al consumatore, diventa (persino) relativo. E’ paradossale, ma è proprio così, Il cartello mostra una dimensione differente, e più allarmante. L’obiettivo è una forma di controllo del territorio e (quindi) di governo, con le sue suddivisioni (le plaza) e le sue tasse (il piso). Questo è il messaggio che si allunga attraverso Il cartello. E’ una partita a scacchi, fragile e pericolosa, che si allarga a macchia d’olio dal Messico, anche se l’epicentro resta lì. Solo che è una scacchiera dove la separazione tra i bianchi e i neri non è così chiara e le mosse delle pedine non sono mai corrette. Non si tratta (soltanto) delle zone d’ombra: è che capita con una certa frequenza che i bianchi diventino neri e i neri diventino bianchi. I ribaltamenti di fronte sono repentini: con un cambio di alleanza, un matrimonio, una fuga, un accordo, un tradimento. L’unico aspetto che rimane inalterato è il nodo che unisce Art Keller e Adán Barrera, visto che uno è la nemesi dell’altro. Art Keller lo insegue come una vocazione, un’ossessione, una meta che è lo scopo della sua vita e su cui giocare la carta della morte, la sua e quella di Adán Barrera. Attorno agli opposti estremi, Don Winslow vira tutto con il ritmo forsennato di un thriller che lascia senza fiato: spietato, serrato, trascinante Il cartello è un romanzo epico che racconta una realtà tragica.

lunedì 21 dicembre 2015

Jason Starr

Westchester, poco a sud di New York, è una delle contee più agiate degli Stati Uniti e con il suo country club, la sua esclusività, la sua opulenza è qualcosa in più di una (ricca) zona residenziale: è un modo di esprimere un tenore di vita. Per dire, Mark e Deb Berman sono reduci dalla festa d’inaugurazione di una villa da qualche milione di dollari e stanno litigando perché lei lo ha visto un po’ troppo vicino a Karen Daily, amica e vicina di casa. E’ da quell’equivoco che si genera tutta la cupa storia di Savage Lane. La famiglia di Mark Berman è speculare a quella di Karen (figli compresi), ma in modi diversi lui e lei infrangono le regole e l’equilibrio di Savage Lane, per quanto ipocrita e superficiale possa essere. Mark proietta le sue illusioni senza sosta, credendo all’infinito (e oltre) nell’amore di Karen, che è inesistente. Questo è il primo detonatore perché la sua insistenza non tiene conto del paradigma di Savage Lane reso esplicito da Jason Starr: “Le fantasie sembrano meravigliose, ma sono solo una droga di passaggio. Ne hai bisogno sempre di più e alla fine, quando subentra la realtà, sei completamente fottuto”. All’estremo opposto, Karen è aggrappata alla realtà. Non ha alternative: è sola, è divorziata, è libera e indipendente. Tutti elementi che la mettono su un binario deviante dalla supposta normalità di Savage Lane, nonostante sia la più equilibrata. A Deb la famiglia, una bella casa, le comodità non bastano più: ha un problema con l’alcol e una relazione con un ragazzo minorenne, Owen Harrison, aggravata dall’uso di giochi erotici più o meno pericolosi. Jason Starr non usa un linguaggio ricercato: i personaggi sono accennati, per sommi capi, per quanto evidenti, e lo stile è molto pop, efficace e cadenzato. Quello che avvolge e impone, in pratica, al lettore di cominciare e finire Savage Lane senza mollarlo un attimo è la sua abilità nel disegnare geometrie sempre sul filo del rasoio, con le frustrazioni, la disperazione, il desiderio che spingono con insistenza a varcare i confini della moralità e della legalità. L’intreccio è uno schema chiuso su se stesso, una rete elettrica in cui la trasgressione e la noia costituiscono le due polarità e convergono verso il corto circuito, inevitabile. L’angoscia che genera nel riprodurre le contrapposizioni, i miraggi, i sotterfugi è ipnotizzante. Non ci sono grandi spargimenti di sangue (si tratta di un omicidio, e un altro nel passato) o scene spettacolari, ma la tensione è sempre altissima proprio per questa ambiguità. L’assassino è soltanto uno e Jason Starr lo mostra senza tante esitazioni, in un momento che pare proprio rivelatorio. C’è una vittima e sono tutti colpevoli proprio per via delle fantasie, delle supposizioni, dei pettegolezzi, dall’arrivo degli inviati dei notiziari. Persino la stessa vittima, anzi, soprattutto la stessa vittima, è colpevole. In questo Jason Starr è molto concreto: nell’era del Patriot Act e della telefonia mobile non c’è scampo, soprattutto se di cellulari ne hai un paio. Puoi pure sotterrarli con il cadavere, ma le tracce restano sempre, e comunque non sarà quella la soluzione del caso. Savage Lane si svolge (drammatica conclusione compresa) nello spazio ristretto della vita quotidiana: un paio di isolati, la scuola (o meglio, il parcheggio della scuola), la piscina, il country club, i figli, tutto a breve distanza, dentro i confini del quartiere. I suoi limiti sono immutabili e invalicabili. L’unico vero lusso è la follia.

mercoledì 16 dicembre 2015

Richard Price

La vita non è facile, per i Clockers. Sono imprigionati nella forma di una città che genera periferie, quartieri popolari dalle geometrie che non compongono, comprimono. Dempsy, l’immaginaria (ma nemmeno tanto) area urbana tra Newark e il New Jersey, non è NYC, è la metropoli senza esserlo, un intero subcontinente “dove tutti avevano l’aria di essere sul punto di andare da qualche parte, ma in realtà non si allontanavano mai per più di quindici metri”. Nell’incipit di Clockers, è come se Richard Price osservasse la scena dall’alto e la visione d’insieme concorre a delineare un terra desolata che è l’habitat naturale del pericolo e della paura. Per dirla con Sam Shepard “tanto per cominciare, non c’era nessuna città” e l’elemento architettonico che senza dubbio determina i confini invisibili e scandisce i ritmi dei movimenti dei Clockers resta indefinito, così come la distinzione tra la legge e la giustizia o meglio la marginalità di entrambe. Gli edifici sono enormi, anonimi, grigi e opprimenti. Gli appartamenti sono troppo piccoli, troppo affollati o troppo vuoti. La vita avviene nelle strade, dove tutti si rincorrono e le distanze sono minime eppure complesse perché “all’altro lato della strada può succedere di tutto”. Il problema non è soltanto la separazione delle giurisdizioni o la divisione territoriale dello spaccio. E’ quella sorta di terra comune, un complicato processo chimico di soluzione dove le componenti non riescono né a fondersi né a dividersi. La constatazione è lapidaria, quando si capisce che “poteva succedere qualsiasi cosa a chiunque; da quelle parti tutti erano o colpevoli o stavano per diventarlo”. Sono tutti Clockers, in effetti, e i personaggi rimbalzano come la pallina di un flipper che sembra in preda al caos e all’energia e invece segue percorsi tracciati e obbligati. Rocco Klein e Manzilli, Duck Gathers, Thumper, Big Chief e tutti gli altri poliziotti sono incastrati sui marciapiedi, senza speranze, senza aspettative, con doppi lavori e doppi giochi, proprio come Strike (il protagonista) e suo fratello Victor Dunham, Champ, Darryl Adams, Futon, Peanut, Rodney, Buddha Hat. L’unico che si salva, perché si defila, è Sean Touhey, un attore in cerca di ispirazione che assiste alle scene dei crimini. E’ un personaggio secondario, rispetto ai Clockers, ma quando comincia a vedere vomito, sangue, bossoli, lacrime, disperazione capisce che nel labirinto di Dempsey “non hanno futuro perché il futuro non l’hanno nemmeno in mente” ed è lesto a scomparire, come a sottolineare che tutti stanno interpretando un ruolo che lui non è in grado di reggere. L’approccio di Richard Price è quasi antropologico nell’esaminare le deviazioni umane e la condizione di isolamento nella realtà del quartiere e delle sue guerre quotidiane: gli spazi sono ridotti, il terreno limitato ed è fatale comprendere che “non è questo il modo di vivere, ma la tua vita è dove sei adesso, quindi cosa ci puoi fare?”. Niente, e nelle strade succede tutto il resto: “la gente crepa ogni momento”, o l’aspetta, inevitabile, il carcere. I meccanismi perversi dello spaccio e del consumo (“L’unico paradiso che vogliono”) sono una versione dell’economia di mercato adeguata alla “street life” con la supponenza dei Clockers quando sostengono che “da come abbiamo sistemato le cose, è un commercio quasi legittimo”. Come diceva Jim Carroll, la routine del tossico non è molto diversa da chi ha un lavoro normale, solo che gli orari sono spostati verso le tenebre. Clockers ampia quel concetto, raccontando la vita, e la morte, quando ci sono “troppe ore della notte ancora davanti a sé”. L’angoscia è trattata con metodo, con meticolosa attenzione ai dettagli e lo slang, le battute, il ritmo stesso dei dialoghi (che è proprio hip-hop) è riprodotto da Richard Price con uno scrupolo più che realista. E’ straordinario a convogliare nel linguaggio, sincopato, strascicato, gergale, spietato la geografia urbana, giungendo alla conclusione che, per i Clockers, “oltre alla classe, l’altra cosa necessaria per stare sulla cresta dell’onda è la paura”. Micidiale.

lunedì 14 dicembre 2015

Ben Lerner

La nota di autoreferenzialità all’inizio è quella che determina l’andamento di tutto il libro. Un costante guardarsi l’ombelico (e anche più giù) mentre fuori succede ogni cosa, ma il contatto è sempre evanescente, se non assente, a parte il forzato richiamo sulla pagina. Ben Lerner (e/o il suo personaggio ipocondriaco) si divide tra la diagnosi di un rischio cardiaco, la richiesta dell’amica Alex di un aiuto per diventare madre e l’idea di concretizzare “un diorama del futuro” o una rappresentazione né standard né lineare dei movimenti del tempo, e della storia. Solo che, visto da vicino, Nel mondo a venire è un collage con parti di racconti, di poesie, di lezioni, di recensioni ed identificabile persino “una serie di appunti per un romanzo”. Ben Lerner è molto abile a tenere tutto insieme, ma la prospettiva è falsata e Nel mondo a venire manca là proprio dove vorrebbe essere: la narrazione porta i sintomi di un romanzo senza esserlo. Entrare nel suo club esclusivo vuol dire accettarlo, non esserne coinvolti, comprenderlo senza condividerlo, e una prima ammissione di questa distanza è quando Ben Lerner scrive che “quello che di norma sembrava l’unico mondo possibile diventava un mondo fra tanti, e il suo significato instabile, collocabile ovunque, anche se solo per un attimo”. Il tentativo per quanto elaborato, pare maldestro: c’è questa coazione a ripetere situazioni, percezioni, commenti. Più di una volta con la stessa, identica frase. Alla fine, in buona sostanza, sono ancora le mille luci di New York, questa volta viste dall’altra sponda dell’Hudson, con Brooklyn diventata cool negli ultimi anni, senza quella patina leggera e brillante che per una breve stagione aveva avuto pur senso (e successo). Ben Lerner invece sovrappone un po’ troppo: “la globalità del mondo in termini apocalittici” e le cronache dal dentista, i ruoli e gli interpreti, i toni e i ritmi, le dimensioni e le conclusioni, lo scrittore e il lettore. Il meccanismo, in sé, si risolve in una sorta di diario con un’unica vocazione: non ho niente da dire, ma lo dico benissimo. Soltanto la rievocazione dell’esplosione dello shuttle Challenger ha qualche sprazzo di lucidità, ma poi Ben Lerner, nel continuo tentativo di importare tutto nella sua quotidianità, o in quella del suo alter ego, lo riduce a una cornice molto ampia, riempita dai ricordi infantili e dalle barzellette così come dalla prosopopea di Ronald Reagan. Un bel discorso inzuppato di luoghi comuni può essere sufficiente per un’orazione politica (eccome, se lo è stato). Per un romanzo serve qualcosa di più e tra le righe Ben Lerner sembra confessarlo quando dice che “più l’autore di affannava a distinguersi dal narratore, più gli sembrava di essere diventato identico a lui”. Nello stesso modo accosta la descrizione di pranzi e cene alle chiacchiere e ai pettegolezzi sull’editoria e sul suo futuro in conversazioni un po’ brille con un’atmosfera che non è né fiction, né realtà, è soltanto finta ed evanescente. Ci deve essere un limite tra l’ambizioso e il pretenzioso, almeno una distinzione, una separazione. Si capisce dove vuole arrivare Ben Lerner, soltanto che non ci arriva: Nel mondo a venire resta lì, un esercizio di stile, autoindulgente ed eseguito alla perfezione.

venerdì 11 dicembre 2015

John Trudell

John Trudell lo chiamava Rant And Roll, proprio come la canzone che apriva Johnny Damas And Me. Un modo di intendere l’uso della parola, della poesia e della musica che le riassume in un solo corpo con uno spirito combattivo distinto da “umiltà e gratitudine”. Per essere quello che è stato, libero, coraggioso, sincero, per dire quello che ha detto, ha pagato un prezzo inimmaginabile, inseguito e perseguitato come ogni ribelle, ammirato e difeso da tutti gli outsider, una nuova tribù in cui si è riconosciuto e che l’ha adottato. Kris Kristofferson lo definiva “un pazzo lupo solitario, un predicatore, un guerriero pieno di paura e divertimento e risate e amore. E’ reale. La giustizia è un fuoco che brucia dentro di lui. Il suo spirito urla per quello e lo rende pericoloso”. La sua poetica è sempre stata limpida e lineare: nelle canzoni, nei versi, nei discorsi. L’uomo e la donna (la donna, soprattutto) erano sempre il cuore dell’universo delle sue riflessioni, insieme alla terra, con l’imperativo di “trovare un modo per comunicare i nostri pensieri, la nostra resistenza e la nostra coscienza”, per difendersi dalle menzogne, dall’avidità, dallo sfruttamento economico, dalla disinformazione, dalla decadenza e da tutto ciò che alimenta la Rich Man’s War. Non c’era niente di esotico o di mistico nel suo salmodiare, cantava con una semplicità profetica che ilGrafitti Man riassumeva così: “Sono solo un essere umano che prova a esserlo in un mondo che sta perdendo molto rapidamente la comprensione degli esseri umani. E’ quello di cui abbiamo assolutamente bisogno: esprimere i nostri sentimenti e capirci, conoscerci, ritrovarsi. Dobbiamo farlo, non c’è alternativa, non c’è possibilità di nascondersi. Essere quello che diciamo e dire quello che siamo: questa è la via”. All’orizzonte non c’era sconfitta o vittoria, né premio o condanna, per John Trudell esporsi, esprimersi non era nemmeno la cosa giusta, era l’unica: “E’ sempre sembrato che il meglio che potessimo fare non era mai abbastanza, in qualche modo non si arrivava mai nei posti che stavamo cercando, domani il vicino davanti a noi, il nostro passato nel tempo, con le risate di ieri che riecheggiano nelle ombre di promesse dimenticate, lottiamo per andare avanti prendendo ogni giorno, uno alla volta, riparando e spezzando, creando modelli per la nostra vita”. John Trudell si ostinava a non lasciarsi incastrare in un’identità, in una forma, a inseguire una disperata essenzialità: “Siamo una generazione che non ha poeti. Gli unici poeti con cui possiamo confrontarci sono morti e non ne abbiamo altri perché i poeti che sono diventati rock’n’roll star non vengono riconosciuti come poeti, ma come songwriter, ma comunque c’è un posto dove poter recitare le nostre parole nella nostra realtà. E infatti qualcuno mi chiama poeta. Qualcun altro dice che sono un militante. C’è anche chi sostiene che la mia poesia e la mia musica siano politiche. Altri dicono che parlano dello spirito del mio popolo. Non mi ritrovo in tutte queste etichette. Probabilmente c’è un po’ di tutto ciò, ma sento di essere qualcosa in più di ogni singolo aspetto. E’ quello che tutti noi siamo. E’ ciò che ci rende umani”. La voce dei Blue Indians non è stata soltanto una Tribal Voice, aveva una dimensione universale, un canto che è stato primordiale e rock’n’roll, in questo incontrollabile, come ammetteva lo stesso John Trudell: “Ovviamente sapete che sono impazzito. Sono impazzito molto tempo fa. Fidatevi, è il posto più sicuro”. Buon viaggio, Crazy Horse.

lunedì 7 dicembre 2015

Elliott Murphy

Le Note al caffé di Elliott Murphy rispecchiano la tradizione degli appunti raccolti en passant, dai bistrot parigini alle osterie venete, tutti luoghi che nei suoi tour ha conosciuto da vicino, tanto è vero che si è lasciato New York alle spalle per trasferirsi in via definitiva nella Ville Lumière. Nel passaggio, la sua identità di raffinato songwriter si è evoluta verso altre forme di scrittura, giornalismo e narrativa compresi nell’elenco che si sono ricavati uno spazio tra una scorribanda e l’altra. La prima connotazione delle Note al caffé deriva proprio dalle caratteristica europee di questo diario di viaggio. Come tutti gli americani in trasferta, o in esilio, prima di lui (soprattutto gli amatissimi scrittori delle Lost e Beat Generation), Elliott Murphy adotta e applica una prospettiva singolare, molto stimolante nella valutazione delle distanze culturali. Per esempio, suggerisce un punto di vista abbastanza curioso rispetto alla golden age del rock’n’roll quando dice che “soltanto in America è esploso il fenomeno anni sessanta, nel resto del mondo abbiamo avuto per due volte gli anni cinquanta. E poi ci siamo svegliati direttamente negli anni settanta: tutti portavano i pantaloni a zampa d’elefante e protestavano contro la guerra e le bombe”. Si può discuterne, così succede con la sua percezione delle differenze all’interno dei confini europei: “Se la Francia è la patria del surrealismo, allora l’Italia è in centro del caos e dell’anarchia sessuale, il principio di tutto. Dove tutti, a parte me, conoscono le regole. Oppure dove tutti, tranne me, sanno che non esistono regole”. Una logica che deve parecchio alle ragazze avvistate e inseguite nelle vie di Treviso o al fantasma di Hemingway al Caffè Florian di Venezia, che “di per sé non è nient’altro che un atollo della fantasia che affiora dalla laguna”. E’ difficile distinguere Elliott Murphy dai personaggi che incrocia e sviluppa nelle Note al caffé: tra schizzi, porzioni di fiction e di flusso di coscienza scorrono l’inevitabile Jim Morrison a Parigi, una citazione di Sartre, un’immagine di Napoleone e tutto un avvicendarsi di caratteri e interpreti dal tono dylaniano, fonte sicura e primaria, e poi, ancora, il cinema d’autore con John Ford, François Truffaut, Wim Wenders, Sam Shepard e lo spettro di un secolo (il ventesimo) a cui questa prosa appartiene in modo inequivocabile. Tra una bozza e l’altra matura un presagio di quello che sarebbe venuto (non ci voleva una grande immaginazione, in effetti), ma una serie di istantanee non fa una storia, anche se Elliott Murphy è un osservatore ispirato, capace di distinguere i nessi tra la letteratura e il rock’n’roll (che rimane il suo primo lavoro) sempre con una predisposizione romantica ed entusiasta che garantisce alle sue Note al caffé una certa leggerezza e una sostanziale qualità dello stile. Fedele alle sue origini naturali, Note al caffé è frammentario, inconcludente, come una raccolta di cartoline spedite da un viaggio con troppe destinazioni, senza una meta definitiva, più l’idea di un libro, che un libro vero e proprio.

mercoledì 2 dicembre 2015

Raymond Carver

Vuoi star zitta, per favore? è lo spartiacque imprescindibile nella vita e nella carriera di Raymond Carver. E’ la prima antologia di racconti curata da Gordon Lish che ne selezionerà e ne rielaborerà ventidue, pescandoli da una quarantina tra quelli fin lì scritti e proposti da Carver. E’ il 1976 e nel risvolto originale di Vuoi star zitta per favore?, si legge, tra l’altro: “La volgarità dei nostri destini segnati ascende a una sorta di trionfo, una piccola ma sontuosa vittoria sulle circostanze”. In quel momento le contingenze per Carver sono davvero precarie tra bancarotte, alcol e ancora alcol, famiglia e disastri assortiti. James Crumley che trasformerà Raymond e Maryann Carver in altrettanti personaggi in L’ultimo vero bacio lo ricordava così: “Ecco delle persone con una capacità di degradazione che non avevo mai incontrato, e sì che ho fatto una vita abbastanza dura, squattrinata e criminale. Volevo bene a Ray (Carver), ma era un uomo completamente privo di difese. Del tutto incapace di prendersi cura di sé”. La luce spettrale che circonda i protagonisti di Vuoi star zitta, per favore?, che sia stata frutto del bisturi di Gordon Lish o dell’intuizione di Raymond Carver (il dilemma ormai è relativo) ha l’urgenza, l’immediatezza, anche una scarna concretezza e se è vero (come è vero) che i successivi racconti di Carver sono diventati di volta in volta più accurati e lirici, qui c’è il modello iniziale, la scossa primordiale, la scintilla. Di sicuro il meticoloso lavoro di Gordon Lish ha riorganizzato, distribuito e uniformato i riferimenti autobiografici: c’è sempre stata una parte non irrilevante dell’esperienza personale di Carver nei suoi racconti, ma Vuoi star zitta, per favore? attinge e rimanda a quel particolare periodo di transizione. Un momento in cui i Segnali sono inequivocabili, i Creditori bussano alla porta (e nelle aule dei tribunali), L’idea (quale che fosse) si stava sgretolando e i dialoghi si perdevano tra quelle due domande, Perché, tesoro mio? e Vuoi star zitta, per favore?, appunto. Il tenore è identificato dal protagonista di Sessanta acri, che “aveva la sensazione che fosse accaduto qualcosa di cruciale, la sensazione di aver fallito”. E’ quell’ombra, lo spettro della sconfitta, ad annodare insieme le short stories di Raymond Carver ed è così che lo leggeva anche Leonard Gardner, l’autore di Città amara: “Parliamo del tradimento degli affetti più cari, per debolezza o egoismo, o per altro ancora. Gente che non si prende a botte, ma compie questi tradimenti silenziosi che causano un dolore atroce”. Del resto, quando Vuoi star zitta, per favore?, Carver si stupì di come i suoi personaggi vennero considerati, come se avesse aperto una porta su una realtà sconosciuta ai più, ma che lui conosceva bene: “Questo paese è pieno di gente così. E’ brava gente. Gente che cerca di fare dal proprio meglio”. Il dubbio che non ci arrivi, che ci sia sempre l’imprevedibile avversità dietro l’angolo, che l’attrazione verso la Wrong Side Of The Road, per dirla con Tom Waits, risulti fatale, è l’elemento elettrico, magnetico che lascia stupiti ogni volta. Anche quando è nascosto o mimetizzato perché come scriveva Raymond Carver: “Mi piace quando nei racconti c’è un senso di minaccia. Credo che un po’ di minaccia sia una cosa che in un racconto ci sta bene. Tanto per cominciare, fa bene alla circolazione. Ci deve essere della tensione, il senso che qualcosa sta per accadere, che certe cose si sono messe in moto e non si possono fermare, altrimenti, il più delle volte, la storia semplicemente non ci sarà. Quello che crea tensione in un racconto è, in parte, il modo in cui le parole vengono concretamente collegate per formare l’azione visibile della storia. Ma creano tensione anche le cose vengono lasciate fuori, che sono implicite, il paesaggio che è appena sotto la tranquilla (ma a volte rotta e agitata) superficie del racconto”. Inesorabile.

domenica 29 novembre 2015

Pedro Pietri

Diceva Miguel Algarín: “Il poeta vede la propria funzione come quella di un trovatore. Narra alle strade il racconto delle strade”. Era proprio quello il ruolo principale di Pedro Pietri, solo che lo interpretava a modo suo, seguendo l’istinto più di tutto, e restando incollato a quel proposito che ripeteva sempre: “Non voglio parlare di quello che succede nella vita reale perché allora finirei per mentire”. Ne parlava, eccome, e l’umanità degli scarafaggi e delle cause perse di Pedro Pietri si rivela, poesia dopo poesia, una visione eccentrica, eppure stimolante, non addomesticata, incorreggibile. La sua lingua è inafferrabile, tambureggiante, un modello di carta vetrata che la poesia e l’America non hanno più in catalogo. Basta una piccola selezione delle sue Cabine telefoniche, schizzi di vita quotidiana nelle strade di New York e impressioni di un artista fuori servizio, come si descriveva nella Cabina telefonica 972: “Quando non sono in giro e qualcuno giura d’avermi visto nel periodo in cui non mi sono visto io (quel che faccio allora è andare di filato a casa per sognare a occhi aperti d’essere in qualche altro posto) finché diventa una noia e accendo le luci spegnendole”. A volte sono frammenti di dialoghi a cui manca l’esatta metà, avvisi ai naviganti di relazioni claudicanti come il messaggio della Cabina telefonica 580: “Non ci sarò per colazione come ti avevo promesso ma tu non starci troppo male prendi le ciambelle incollale al soffitto e quando ti vien fame fatti un paio di salti”. Ancora di più, quello della Cabina telefonica 801, un calembour che ben rappresenta i coloriti toni di Pedro Pietri: “No certo che no non guardo un uomo come guarderei una donna c’è una bella differenza in un caso mi tira da matti nell’altro no, ma non ti dico qual è l’uno e qual è l’altro, se vuoi proprio saperlo comincia a toglierti qualcosa”. Se il primo strato appare luccicante, per via dei riflessi di quell’ironia brillante e tagliente, sbucciando i versi emerge davvero lo spirito del troubadour, la lucidità dei sognatori indefessi, dei fuggitivi, dei bardi imprigionati nelle mura delle metropoli, New York nel caso specifico. Il luogo, la terra di nessuno è proprio quella, come scriveva in Intermezzo da lunedì: “Devo lasciare la città, quando quel che vedi è quel che vedi e quel che non vedi non vedi e l’immaginazione è classificata come bagaglio eccedente all’aeroporto dove cornici per quadri sono cornici per quadri e le code si allungano sempre di più per biglietti di prima classe su uno scaffale dove un poeta è diventato poeta agli occhi di tutti tranne che ai suoi”. Quel retrogusto amaro e malinconico, complementare all’irrequieta voce di Pedro Pietri si rivela in Una poesia senza titolo (che, a ben guardare, c’è un motivo anche in quest’assenza) quando dice: “Non ho progetti per oggi o domani, i muri son già stati scrutati per bene. Ogni cosa è compresa incompresa, riesco solo a pianificare il passato di questi giorni”. Se ne è andato dieci anni fa, e il suo epitaffio potrebbe coincidere benissimo con la conclusione di Biglietto d’addio d’uno scarafaggio suicida in un complesso popolare: “Addio, mondo crudele, ne ho abbastanza di prenderlo in quel posto a causa delle tue parole incrociate. Non ci sarò quando cadrà la bomba, inoltra la mia corrispondenza alla tua coscienza, quando ne rimedi una”. 

domenica 22 novembre 2015

Kurt Vonnegut

Le Galápagos di Kurt Vonnegut sono proprio quelle stesse di Charles Darwin e allora toccano al rinomato ospite gli onori di casa: “L’arcipelago è in se stesso un piccolo mondo o meglio un satellite attaccato all’America”. I presupposti scientifici si fermano lì eppure sono più che sufficienti a fornire il principio irrinunciabile e comune per entrambe le interpretazioni delle Galápagos. Una coincidenza rivelata anche dall’uso dei pronomi, quando Kurt Vonnegut raccontava la genesi del romanzo: “Ho scritto Galápagos per il libro in sé, così come si dipinge un quadro per il quadro in sé. Il libro era un problema tecnico e ho passato un periodo d’inferno per farlo funzionare. Sono menzogne creative, come se mentissi sul banco dei testimoni; tutto deve reggere”. Tesi: un milione di anni dopo la sua estinzione, garantita da un’apocalisse nucleare, il genere umano si è evoluto ripartendo dall’arcipelago delle Galápagos con un manipolo cosmopolita e caotico di naufraghi. Ipotesi: il vero habitat è fatto di parole, e non c’è maldestro cervello (“Sia detto in lode all’umanità quale allora si configurava: un numero crescente di persone andava ripetendo che i loro cervelli erano irresponsabili, inaffidabili, odiosamente perniciosi, affatto privi di senso della realtà: in poche parole, un disastro”) o macchina, come il Mandarax o il Gokubi (tutti da scoprire), in grado di elevarsi da quello stato primordiale e assoluto. Vonnegut segue l’istinto, lasciando che sia la sua progenie di personaggi (a partire da Leon Trotsky, figlio di Kilgore Trout, disertore in Vietnam ed enigmatica voce fuori campo) a generare da sola la trama, con un ritmo elettrico e sconcertante, attraversato da micidiali digressioni che, in un modo o nell’altro, prima o poi, riprendono la giusta rotta. Anzi, proprio la tracciano, come se Galápagos fosse una sorta di suite di jazz (molto, molto free) che, con la forza dell’improvvisazione, aumenta e accentra la tensione. Il crescendo è sincopato: uno scenario dopo l’altro, la visione di Vonnegut si fa via via sempre più sorprendente. Prima è la crociera della Bahía de Darvin, una nave che a sua volta ha tutta una storia nascosta tra le lamiere, ad attirare un singolare campionario di “esseri estranei alle congiunture evolutive”. Ne basterebbe già la metà, poi arriva la guerra tra Perù ed Ecuador che, pare di capire, è l’inizio della fine. Invece è il cardine centrale di Galápagos, quello che spinge la nave dei folli alla deriva, e il bello deve ancora venire perché la soluzione finale è l’apoteosi dell’inimitabile verve di Kurt Vonnegut. L’approdo è solo l’epicentro da dove il romanzo si moltiplica. A quel punto, Galápagos ha già attraversato fasi concitate e complesse, magari ci si è ambientati, si è compreso il senso della crudele ingenuità della danza delle sule o il pericolo vampiresco dei fringillidi e Kurt Vonnegut cambia ancora registro. Irriverente, sarcastico, spettacolare quando all’apogeo delle esplosioni umoristiche (e non) conclude che “le persone sono quello che sono, detto questo è detto tutto. Sotto questo aspetto, la legge della selezione naturale ha voluto che gli esseri umani fossero affatto trasparenti. Tutti, maschi e femmine, sono esattamente quel che sembrano”. Un vortice di impressionante potenza, con una risata sempre in agguato, e attenzione agli asterischi, possono nuocere gravemente alla salute.

giovedì 19 novembre 2015

Kent Haruf

Diceva tempo fa Jim Harrison, l’unico scrittore che, con Cormac McCarthy, si può accostare a Kent Haruf: “A me piace il coraggio, mi piacciono l’amore e la morte, sono stanco dell’ironia”. Ecco, nel Canto della pianura c’è la vita che va e che viene e si dipana nel racconti di Kent Haruf come una ballata country & western, diciamo Alone And Forsaken di Hank Williams, per non sbagliare. L’essenza è quella, anche se c’è una forza nei protagonisti che riesce a superare la tristezza di momenti imprevisti, duri e infelici. L’aiuto inaspettato arriva proprio da Kent Haruf che rimane vicino ai suoi personaggi e concede a tutti una seconda chance. Chi resta escluso è perché ha bisogno di un avvocato o si lascia l’ipotetica Holt alle spalle. La fuga apre altri scenari, non previsti, mentre il Canto della pianura è fatto di piccoli incastri, che si rivelano di volta in volta, senza particolari colpi di scena. Comincia con un germoglio vitale più, nella gravidanza di Victoria Roubideaux, poi si snoda all’interno di un perimetro ben delineato, una mappa che potrebbe stare su una pagina del libro, con una mezza dozzina di punti strategici, compreso il domicilio del protagonisti. Si incontrano per traiettorie divergenti e inafferrabili: i legami sono molto fragili e vengono definiti dallo stesso ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni atmosferiche. Sembrerà paradossale, ma la vita nelle smalltown è limitata dagli spazi, e dai difetti congeniti delle parole e del linguaggio. L’espressione del paesaggio attraverso il senso di Kent Haruf per la frase, asciutta, eppure densa, forte e ruvida, ma elegante nella sua essenzialità, è la forma lineare, orizzontale (perché così è il territorio) di una narrazione limpida, senza esitazioni, “plain spoken”, come direbbe John Mellencamp, e per non andare troppo lontani dal titolo. La bellezza del Canto della pianura sta proprio in quel parlare piano, chiaro, che la scrittura di Kent Haruf, appuntita e artigianale nella composizione, e così accurata della definizione, riesce a rendere come se fossimo lì, sulla terra, nella polvere e nella neve. Non leggi, non immagini: sei dentro, gli sei accanto. Lo senti, il Canto della pianura. Li senti, uomini (e bambini) e donne che si inseguono, si abbracciano, si abbandonano, si perdono e si trovano.I profili psicologici dei personaggi di Ike e Bobby, della madre chiusa in camera, di Tom Guthrie e Maggie Jones emergono senza bisogno di spiegazioni. Incontri che si compongono e si consumano seguendo le bizze di un destino che è impalpabile come il vento sulla pianura. I profili si stagliano nitidi, alcuni convessi, altri concavi, si vanno a incastrare e si specchiano uno nell’altro. Divergenti, complementari, perché Holt, che è difficile chiamare città, non è poi così grande. C’è una tenerezza, all’improvviso, dove meno te l’aspetti, un po’ di compassione sulla pianura dura e fredda. Una nota di speranza battuta dalle raffiche di gelo e dall’odore degli animali che spunta dai burberi fratelli McPheron. Parlano pochissimo, anche meno degli altri, ma si rivelano generosi quel tanto che basta da rendere meno arido il tempo che passa, inesorabile. Forse sono anche naïf, perché c’è una bizzarra nota di brio nei loro passaggi in Canto della pianura, ma l’effetto benefico dei McPheron sull’intera storia è la conseguenza di gesti spontanei (o quasi) che si propagano incontrollati, dentro e fuori, mitigando piccoli e grandi contrasti da una casa all’altra, un giorno più, un giorno meno. Holt è solo il punto in fondo alla domanda, non c’è via d’uscita. L’astio, la solitudine, e poi la tristezza. Avere una possibilità, non restare soli. Fine delle alternative. L’ironia della vita può aspettare, ancora un po’.

lunedì 16 novembre 2015

Wallace Stevens

Le ultime poesie di Wallace Stevens raccolte in Il mondo come meditazione suonano come una sorta di eredità spirituale, un estremo lascito che di volta in volta assume le sembianze di augurio, profezia, testamento, saluto e arrivederci. E’ vero che “una poesia non è necessario che abbia un significato, e come la maggior parte delle cose in natura spesso non ne ha”, d’altra parte considerare Il mondo come meditazione implica il riconoscimento, tra i versi, di una riflessione filosofica che comincia, come scrive in Conversazione con tre donne del New England, quando “il modo della persona diviene il modo del mondo, per quella persona e, a volte, per il mondo stesso”. Quello di Wallace Stevens è “un modo di pronunciare il mondo entro la propria lingua”, spiega in Sulla via dell’autobus, perché “siamo esseri fisici in un mondo fisico, il tempo è una delle cose di cui godiamo, una delle realtà non filosofiche. Lo stato del tempo diventa presto uno stato di mente. Vi sono molte cose immediate nel mondo che noi godiamo: una poesia perfettamente realizzata dovrebbe essere una di queste cose”. Nella pratica, può essere tutto, essendo fatta di parole che “sono insieme icona e uomo” ed è nella sua applicazione che Wallace Stevens si rivela, nel tempo, un poeta essenziale, indispensabile nel sapere interpretare Il senso ordinario delle cose o Il corso di un particolare, ovvero la primitiva realtà, sempre cosciente che “per quanto si dica che siamo parte di tutto, la cosa implica un conflitto, una resistenza; e l’esserne parte è uno sforzo che diminuisce: si sente la vita che dà la vita così com’è”. Questa attitudine lo vede più struggente che mai nel cogliere la “bella rappresentazione” kantiana della bellezza naturale seguendo Il fiume dei fiumi in Connecticut (“Colmo di spazio, specchio delle stagioni, del folclore dei sensi tutti; chiamatelo, ancora e sempre, il fiume che non scorre in alcun dove, come un mare”) e celebrando gli alberi, che “sono mondi”, iniziando con La regione novembre (“Più e più profondi, più e più sonori, gli alberi ondeggiano, ondeggiano, ondeggiano”) per giungere a una sostanziale definizione in Il mondo come meditazione quando scrive: “Gli alberi hanno l’aria di portare nomi tristi e star lì a ripetere sempre la medesima cosa, come in tumulto, perché un opposto, una contraddizione, li ha provocati e ora vogliono replicare”. Se questa non l’arte di un pittore, di uno scultore o di un fotografo, è, senza alcuna esitazione, il frutto dell’insistenza con cui Wallace Stevens intende sostituire all’idea di ispirazione, “l’idea di uno sforzo della mente non dipendente dalle vicissitudini della sensibilità”. Nel concedersi, il poeta dissimula anche l’ora del crepuscolo, prima rievocando l’odissea di tutti gli uomini con La vela di Ulisse (“Non è questa la serenità di spirito del poeta. E’ la sorte che dimora nella verità. Obbediamo le sollecitazioni del nostro fine”) poi, quasi con un tono colloquiale, in L’uomo malato, firmando un toccante commiato: “Scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che ha in sé, una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio, le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette”. Talmente poetico da confondere anche un rigoroso Frank Kermode che lo definiva “un dottore incomparabilmente sottile, per non dire angelico”, se non fosse che anche l’invenzione del paradiso, secondo Wallace Stevens, coincide con l’imperfezione, per cui non resta altro, come diceva qualche anno prima, nel 1941, che “seguire l’idea della nobiltà in ciò che si potrebbe chiamare il disastro della realtà, in particolare la realtà delle parole”. Normale, straordinario, assoluto.

lunedì 9 novembre 2015

Benjamin Franklin

La Cronaca di un massacro di indiani è un pamphlet di Benjamin Franklin che rilegge un episodio della vita lungo la frontiera negli anni precedenti l'inizio della guerra d'indipendenza americana. Siamo nel 1763 quando i Paxton Boys, una pattuglia di coloni di origini irlandesi, massacra un manipolo di indiani Conestoga, senza alcun motivo apparente. Le notizie dell'epoca riportano un eccidio efferato, ma di dimensioni numeriche ridotte, rispetto a scontri, guerre e guerriglie ben più disastrosi. Solo che la strage avviene in un contesto politico già squilibrato, su linee di confine, fragili e limitate che non riescono più a definire con qualche margine di sicurezza i rapporti tra i nativi, i coloni e gli inglesi. Le terrificanti scorribande dei Paxton Boys non sono casuali: c'è un metodo nella concatenazione dei loro assalti che si nutre del rifiuto delle leggi e degli accordi e dell'apologia della violenza come strumento per regolare la vita (e la morte) nella wilderness. Le motivazioni hanno sottili connotazioni economiche e politiche che un altro testimone, il predicatore John Woolman spiegava così: “La gente di frontiera tra cui tale male è così diffuso, è spesso povera, e si avventura oltre i confini di una colonia per poter vivere in maniera più indipendente da coloro che possiedono la ricchezza, i quali spesso fanno pagare alti canoni d'affitto per le loro terre”. Questa reazione a catena, sulle basi dello sfruttamento della terra e degli uomini, lascia intravedere nelle gesta dei Paxton Boys i germi della rivolta che porterà alla guerra d'indipendenza. Le parole del pamphlet di Benjamin Franklin lasciano intendere che quello è un solco ben preciso nella genesi della nazione americana. Quello che contempla non è soltanto la condanna, logica e spontanea, del massacro di civili inermi e delle dinamiche in cui è maturato. Mette in evidenza anche la debolezza delle istituzioni, del diritto, delle colonie, persino della conoscenza dei nativi e delle terre che abitano. In un pamphlet successivo, quando già gli Stati Uniti erano diventati una realtà, Benjamin Franklin scrivevrà: "Chiamiamo selvaggi questi popoli perché i loro costumi sono diversi dai nostri; che crediamo rappresentino la perfezione della civiltà. Essi hanno la stessa opinione dei loro. Se esaminassimo con imparzialità i costumi delle diverse nazioni, forse troveremmo che, per rozzo che sia, non c'è popolo che non abbia principi di buona educazione, e che non ce n'è alcuno così educato che non conservi qualche residuo di barbarie". Nella perentoria presa di posizione, in Cronaca di un massacro di indiani, non solo in difesa dei nativi, ma anche di una logica di vita civile e pacifica, non mancava l'affondo morale: “Concluderò dicendo che qualunque codardo può maneggiare le armi, colpire dove sa che non vi sarà reazione, ferire, mutilare e assassinare, mentre risparmiare e proteggere è prerogativa degli uomini coraggiosi”. Tanta ostinazione gli guadagnò l'ostilità generale tanto da costringerlo a lasciare l'America per Londra. Un esilio che non gli ha impedito di diventare uno degli intellettuali fondamentali per l'America anche e proprio per la sua predisposizione a cercare di capirne le contraddizioni già agli albori della sua storia. L'America si è retta, e si regge da sempre, sul confronto degli opposti, su una convivenza difficile e complessa, con una violenza pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Altro che melting pot.

giovedì 5 novembre 2015

Philip Caputo

Un libraio citato da Philip Caputo, Ken Lopez, ha raccolto una bibliografia di più di tremila volumi sulla guerra del Vietnam. Oltre a essere documentato il suo punto di vista è ben argomentato: “In Vietnam, almeno in letteratura, la brutale assurdità e casualità della vita e della morte si condensa spesso in pochi terribili attimi in cui il mondo cambia drasticamente, e a volte definitivamente, per tutti. Per la maggior parte di noi, che abbiamo vite comuni, si tratta di un processo molto più lento, sottile e meno percettibile, ma la sua natura è la stessa. In un'epoca in cui i limpidi precetti morali delle generazioni che ci hanno preceduto sono stati in gran parte abbandonati, la guerra del Vietnam, con la sua suprema ambiguità morale, riflette e illumina la nostra condizione generale: è, in definitiva, una perfetta metafora dei nostri tempi”. Esatto: Philip Caputo è uno che ci è andato convinto e ispirato dalla retorica istituzionale che prima cercava di arrivare nell'intimo di “hearts and minds” e poi si lanciava nelle missioni “search & destroy”, come se entrambe le opzioni fossero sullo stesso piano. La condivisione dei valori dell'età della frontiera, un mito creato con molta cura, ma pur sempre un mito, l'eccitazione di essere al centro dell'azione e della storia, con un posto prenotato nella terra degli eroi, le sofferenza una volta sul campo (il caldo, la polvere, l'insonnia, la paura, i caduti) si sommano senza soluzione di continuità nel racconto di Philip Caputo, che è abbastanza onesto da lasciar trasparire le emozioni e i sentimenti ambivalenti di fronte alla guerra. In Vietnam è l'addetto al body count, la macabra contabilità delle battaglie e in quel tragico ruolo ogni slogan si squaglia nel fetore dei cadaveri smembrati, senza alcuna pietà. Philip Caputo non risparmia nulla e affronta tutti i dettagli con un certo coraggio, cogliendo almeno “il benefico effetto di eliminare alla radice qualunque idea stupida, astratta e romantica”. Laggiù, ognuno ha sua visione: chi la vede come una guerra per bande, chi la scorre come un elenco statistico, chi come una missione, chi come una vacanza, chi come un'avventura. Philip Caputo non aggiunge proprio nulla: la scrittura è livida, schematica e anche se si concede con abbondanza nella descrizione delle missioni, gli episodi sono reiterati e ripetuti. “La situazione rimane invariata. Tutto tranquillo” è il refrain delle sentinelle notturne e si adatta anche al racconto di Philip Caputo: sicuramente una testimonianza coraggiosa (una volta tornato Philip Caputo rispedì al presidente le decorazioni, tra l'altro) che però non aggiunge nulla, rispetto a Inseguendo Cacciato di Tim O'Brien o Nell'esercito del faraone di Tobias Wolff citati nell'epilogo insieme a Ken Lopez e a un interessante punto di vista dello storico John Hellman: “Il Vietnam è un'esperienza che messo seriamente in discussione il mito americano. Gli americani si imbarcarono nella guerra del Vietnam con l'idea che ne sarebbe derivata un'epopea tipicamente americana. Quando la storia dell'America in Vietnam prese una piega inaspettata, la vera natura della storia americana nel suo complesso fu oggetto di un intenso dibattito culturale. Al livello più profondo, l'eredità del Vietnam è la disgregazione della nostra storia, della nostra spiegazione del passato e della nostra visione del futuro”. Non una sconfitta qualsiasi.

lunedì 2 novembre 2015

Anne Waldman

La necessità di coagulare un'esperienza tanto vasta, come è stata la cosiddetta Beat Generation, si è sempre scontrata con l'impossibilità di definirne i limiti temporali, storici e stilistici. D'altra parte una qualche forma di selezione si è resa via via sempre più indispensabile, se non altro come prima ricognizione panoramica, anche se l'impresa è tutt'altro che agevole come si è ben accorta Anne Waldman: “Curare questa antologia è stato un po' come lottare con un drago tentando di cacciarlo in una scatola di fiammiferi”. La curiosa metafora rende bene la spontaneità della natura di The Beat Book, costruito con “un'attenzione concentrata piuttosto che onninclusiva” che riporta, sì, i nomi fondamentali della Beat Generation, i più noti e i più spettacolari (Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso) ma anche Lenore Kandel, Lawrence Ferlinghetti, Lew Welch, Philip Whalen, Michael McClure, John Wieners, Amiri Baraka (a suo tempo, LeRoi Jones) con l'omaggio a Miles Davis, Bob Kaufman, Joanne Kyger, Gary Snyder, Peter Orlovsky e Diane Di Prima: a cui va il merito di aver saputo esprimere con il limpido fraseggio della poesia che “il terreno dell'immaginazione è l'assenza di paura”. Questo è il minimo comune denominatore che rende The Beat Book un vademecum solido e coerente poi, come spiega con precisione Anne Waldman, “all'inizio ciò che coinvolge, diverte e attira è il mito della Beat Generation, il suo leggendario, la sua immagine culturale, ma alla fine ci si concentra sulla scrittura stessa e si esulta scoprendo che essa ancora respira”. Eccome. Giusto per rinfrescare la memoria, ecco qualche frammento a testimonianza della diversità e della complessità della percezione contenuta nell'indefinibile terra comune delal Beat Generation. Una prima asserzione, lucidissima e nello stesso tempo visionaria, di William Burroughs: “Io dico che tutto quello che non va avanti va fuori... Ma sapete cosa possiamo fare con la parola mettendoci un tocco speciale. E poi parlano dell'energia che c'è in un atomo. Tutto l'odio tutta la paura tutto il dolore tutta la morte tutto il sesso è nella parola. La parola una volta era un virus che uccide. Può diventare ancora un virus che uccide. La parola è troppo rovente da maneggiare e allora stiamo seduti sul culo aspettando la pensione”. All'estremo opposto, uno scampolo delle confessioni e delle confusioni di Neal Cassady: “Per me coltivare una giusta amministrazione delle idee in modo da trattenerle e da essere capace di metterle giù in modo chiaro è una difficoltà onnipresente in cui mi si impappina la mente. Tra l'altro, era proprio in questa linea di cercare di salvare qualcosa per la scrittura finché sarei riuscito a imparare a farne tutto un processo soltanto di pensare e poi mettere giù quel pensiero”. Tra un delirio (sacrosanto) e l'altro si trova anche la dichiarazione d'indipendenza di Jack Kerouac a John Clellon Holmes nel 1946: “Eravamo una generazione di furtivi. Capisci? Sapevamo dentro di noi che non serve a niente sbandierare chi sei a quel livello, ossia al livello del pubblico; era un modo di essere beat, cioè di impegnarci, con noi stessi, perché per noi tutti era chiaro a che punto eravamo, stufi di tutte le forme, di tutte le convenzioni del mondo”. Un'ambizione rivoluzionaria, una logica da outsider, una cristallina innocenza con cui Allen Ginsberg conclude così la premessa a The Beat Book: “Avevamo un gran lavoro da fare, e lo facciamo, cercando di salvare e guarire lo spirito dell'America”. La sconfitta è innegabile, la tragedia della realtà è sempre più forte, ma, come scrive Ann Waldman “l'impulso delicato e vivido ad afferrare il mondo al volo magicamente tramite il linguaggio” è rimasto integro, non integrato, beato, non battuto.

domenica 25 ottobre 2015

Bobbie Ann Mason

Sam (diminutivo di Samantha) Hughes  è in viaggio verso Washington, dove vuole trovare il nome del padre, Dwayne, inciso sul granito nero e lucido del Vietnam Veterans Memorial. Con lei, su una macchina che ha visto tempi migliori, viaggiano Mamaw, la nonna ed Emmett, un reduce inseguito dai fantasmi di chi è rimasto Laggiù. Siamo nel 1984, quasi dieci anni dopo la la fine della guerra, e dalla radio, dopo Marvin Gaye e i Talking Heads, arriva Glory Days, perché è il momento di Born In The U.S.A. e, come dice Sam, “in America accade tutto qui, sulle strade”. Capita anche di scoprire che non c'è posto dove correre, non c'è posto dove andare, nemmeno dove nascondersi da “una sensazione di estraneità” perché Laggiù è, sì, sempre sottinteso il Vietnam, ma è anche Hopewell, Kentucky, una cittadina spersa in mezzo al nulla. Il contrasto con il drammatico lascito della guerra e il piccolo mondo antico dell'heartland, con la convinzione che quell'America è bella e buona (non l'altra), è l'inestricabile groviglio di sentimenti ed emozioni in cui è impigliata Sam. Nonostante il nome, a Hopewell nessuno ha risposte da darle. La vita silenziosa e monotona nella provincia non è sufficiente, non ha i mezzi per rispondere a quelle enormità. La speranza è solo che il tempo lenisca o cancelli le ferite. Non sarà così perché i reduci non hanno dove andare, vagano come fantasmi, trascinandosi dietro storie e ricordi (compreso l'incubo di essere stati contaminati dai defolianti usati dall'esercito americano, o dalla paura tout court) e insieme la voglia di dimenticarli e il bisogno di conservarli, perché quelli Laggiù erano giorni che hanno segnato “una linea di demarcazione, vita o morte”. Un altro veterano, Pete Simms, lo spiega molto bene a Sam: “E' una questione di intensità quello che abbiamo attraversato insieme”. Ciò non toglie che le sofferenze siano insopportabili e la sensazione che Emmett confessa a Sam è che “non puoi permetterti di restare in città quando pensi a quello che è successo”. Non ha tutti i torti: il viaggio a Washington, che è il segmento iniziale e quello finale di Laggiù, è il tentativo di fuggire dall'immobilità di Hopewell, dove la connessione con il resto del mondo, e volendo la sua comprensione, avviene attraverso la televisione, che è il vero contrappunto della vita reale. L'avvento di MTV, soprattutto nello stile surreale dei primi videoclip (dove succedeva di tutto) genera una certa confusione, se non altro una sorta di miraggio. “Questi video di MTV sono vere stronzate”, scrive Bobbie Ann Mason. Ancora adesso, soltanto che in quello di Dancing In The Dark, citato a più riprese, la mano tesa da Bruce Springsteen in mezzo al pubblico coincide con la mano che aspetta Sam per riuscire a conoscere il padre, che è morto Laggiù, in Vietnam, e per comprendere anche se stessa. Sullo schermo, la parvenza dell'immagine, mostra tutta la sua evanescenza, la sua fallibilità. Laggiù è un riflesso proprio come Born In The U.S.A., e in quanto tale, facile a contraddirsi e a sfumare nel dettaglio, luccicante in superficie, malinconico e spettrale una volta spente le luci, ed è così che anche Bobbie Ann Mason si ritrova Laggiù, a ballare nel buio.

giovedì 22 ottobre 2015

Bill Flanagan

Lo diceva Chuck Berry, che ha cominciato tutto: “Una canzone va scritta facendo molta attenzione alla storia che vi si racconta”. Con la stessa sensibilità Bill Flanagan ha avvicinato l'imponderabile e soggettiva arte del songwriting in Scritto nell'anima attraverso il confronto con un'eccellente selezione di autori, molti dei quali hanno scritto alcune delle pagine più importanti della storia dal blues al rock'n'roll. L'ambito è proprio quello e la distinzione è obbligatoria perché c'è canzone e canzone: l'argomento di Scritto nell'anima è il songwriting nella sua particolare applicazione al rock'n'roll che Bill Flanagan si premura di ricordare come “uno stile così magnificamente immorale: agguanta al volo le buone idee, le prova in dodici modi diversi e conserva qualsiasi cosa vada bene”e qualcosa che “offre ai suoi figli la cittadinanza in una comunità internazionale dove tutto è collegato dalle esperienze condivise, dalle coincidenze, e da una misteriosa politica di ammissione”. Il processo di identificazione e di condivisione che è Scritto nell'anima del rock'n'roll rimane sempre sotterraneo e nascosto rispetto ai songwriter che se ne appropriano ed è uno dei motivi per cui Bill Flanagan tiene a precisare che “un'altra parte di questo fascino deriva dalla voce, dall'opinione che la musica fornisce ai solitari, quando questi si ritrovano da soli, con le luci spente e il giradischi acceso. In questi momenti così privati si può sentire, chiaro come il fischio di un treno, l'invito a partire per andarsi a cercare un posto migliore. La musica non promette che si si arriverà ma fa capire che varrà la pena di intraprendere il viaggio”. Le canzoni servono proprio a fornire le tappe, gli indirizzi, le mete perché come suggerisce il songwriter numero uno (nessun dubbio) ovvero Bob Dylan “le canzoni non sono che pensieri fatti per fermare il tempo per un istante. Le canzoni devono essere abbastanza epiche da dare l'illusione di fermare il tempo, usando un solo pensiero. Sentire una canzone è sentire il pensiero di qualcuno, non importa che cosa vi sia descritto. Se assisti a qualcosa e pensi che sia abbastanza importante da descriverlo, questo è già un tuo pensiero. E siccome pensi solo una cosa alla volta, nel momento in cui poi la tiri fuori riveli quello che sei”. Il dialogo tra Bill Flanagan e i suoi ospiti è sempre diretto e corretto. Bill Flanagan sa come scansare i voli pindarici degli artisti e conosce tutti i trucchi per lisciare l'ego delle rock'n'roll star quel tanto che basta perché lascino socchiusa una porta. Non sempre funziona: tra domande e risposte, il ritmo delle interviste è sempre sincopato, qualcuno è più elusivo, altri sono più aperti, ognuno ha la sua particolare percezione dato che la psicologia delle canzoni e dei loro autori viaggia in parallelo. Secondo Joni Mitchell, “quando la gente ascolta una canzone questa entra nella loro vita e le parole sono simboli. Questi simboli sono instabili”. Tom Waits sembra risponderle dall'altro lato (quello sbagliato) della strada e sostiene che “è tutto là fuori. Se hai bisogno di parole, basta guardare fuori dalla finestra”. Per Keith Richards il meccanismo è più spontaneo, quasi magico nel suo manifestarsi: “Credo che le canzoni siano intorno a noi. E' solo questione di essere ricettivi e pronti a raccoglierle. Perché la maggior parte delle canzoni si scrivono da sole una volta che hai qualcosa da cui cominciare. Una volta iniziato, è un processo irreversibile. Un processo irreversibile. Un processo che tu puoi aiutare e seguire, ma non puoi riuscire a controllare la canzone. Nonostante ci sia tu, seduto lì, con un pezzo di carta e la chitarra”. Questo è quello Scritto nell'anima, poi c'è il corpo del rock'n'roll e nessun altro, se non Mick Jagger poteva precisarlo: “Forse sono semplicemente fuori moda ma ho anche bisogno che la musica mi faccia ballare. Per me è tutta qui la faccenda. Ballare, capisci? Se della musica non mi fa venire voglia di balzare in piedi, allora vuol dire che c'è qualcosa che non va”. Facile immaginare Bill Flanagan mentre annuisce, quella storia funziona proprio così.

domenica 11 ottobre 2015

David James Poissant

Con un equilibrio raro ed elegante, David James Poissant riesce a tenere insieme il fantastico e l'ironia, il surreale e l'onirico con il dramma ordinario della realtà, il più delle volte ancorata alla sua essenza blue collar. Il tono e il ritmo, che sono comuni a tutti i sedici racconti, portano sempre alla sorpresa, un colpo a effetto, una variazione improvvisa sul tema. Capita con Il bambino che brilla, un frammento di due pagine con la delicatezza di un sogno, con Ko, che sarebbe una short story degna di Raymond Carver, se non fosse che il bizzarro quadro d'insieme lo fa sembrare piuttosto una canzone di Tom Waits, con 100% cotone dove la scena di una rapina a mano armata (anzi, due) si sovrappone a quella di un suicidio mancato e di un omicidio compiuto per un errore di comprensione e con l'acido trip di Il lupo. Nell'immediato, il paragone più calzante agli esordi di David James Poissant è con George Saunders ma la sua voce è già abbastanza autorevole nel vivisezionare l'incomunicabilità, il vero tema che popola Il paradiso degli animali e sviluppato su diversi piani. Rocambolesco nel tratteggiare le psicosi che spingono La fine di Aaron oppure rispettoso e graffiante, in Il rimborso, piccola istantanea di una società pervasa dall'ansia della competitività che poi è un altro modo per declinare l'aggressività. Famiglie spezzate, confuse, travolte dall'eventualità, dall'imprevisto, dall'ignoranza, dalla violenza, dalla morte, dalla vita:  non sembra casuale che in Nudisti, un'elaborata riflessione sul perdono attraversa da una tensione quasi insopportabile, la conclusione veda tutti i protagonisti spogliati e (in fondo) indifesi. I racconti hanno una serie di agganci, aderenze e connessioni, il più delle volte impercettibili o, almeno in apparenza, casuali. Piccoli dettagli, lo stesso quartiere (visto da prospettive diverse), un'ultima estate, e, naturalmente, gli animali che specchiandosi nelle idiosincrasie e nei dilemmi umani, formano un mondo parallelo. Basta ricordare (e scoprire) il ruolo di James Dean all'interno della fragilissima coppia di Io e James Dean o quello del gatto e degli insetti nello straziante resoconto dell'incontro di Il braccio. La geografia delle emozioni prevede diverse parti d'America, dalla Florida (dove David James Poissant vive) all'Arizona con una vocazione verso la West Coast, celebrata dal viaggio al centro dell'ultimo racconto, Il paradiso degli animali, che ha (ancora) come protagonista lo stesso del primo, L'uomo lucertola, come se fossero un prologo e un (lungo) epilogo a circoscrivere Il paradiso degli animali. L'insistita direzione verso le coste californiane avvicina la raccolta di David James Poissant, per l'ovvia assonanza, ma anche per il gusto e per il tatto, alle considerazioni di T. C. Boyle in Gli amici degli animali: due diverse versioni dell'ecologia dei sentimenti umani, ma anche del confuso rapporto con gli altri abitanti dello stesso pianeta. Il coccodrillo, se lo lasci libero, non ti stacca un braccio a morsi, le foche per andare sott'acqua mandano giù i sassi e gli ippopotami proteggono i propri simili anche quando sono caduti perché se per la vita ci vuole un sacco di amore, per la morte ce ne vuole di più. Merita un appunto a parte La geometria della disperazione, composta dal Diagramma di Venn Sveglia il bambino. Sembrano già i due capitoli di un romanzo e sono una sintesi decisiva delle proprietà narrative di David James Poissant. Consigliatissimo, anche per il futuro.  

giovedì 8 ottobre 2015

Bruce Sterling

Premesso che La forma del futuro è un oggetto di design che usa i contorni del libro in sé per enunciare “una cultura di progetto”, bisogna riconoscere a Bruce Sterling la verve dell'intrattenitore con una sorprendente capacità di attraversare i tanti e diversi livelli del racconto. Molto dipende dal fatto che “la fantascienza contiene sempre un qualche tipo di bruciante, sotterranea impellenza sul punto di erompere senza controllo” ed essendo quello il suo habitat naturale, Bruce Sterling è trascinante anche quando cerca di rendere trasparenti concetti come progettazione rappresentativa”, “metastoria”, “stufato informazionale” e “pantano digitale” o come sia rilevante il valore dei rifiuti come (unico) lascito culturale al prossimo che verrà. E' uno dei segni più netti che tratteggiano La forma del futuro, e forse il suo snodo fondamentale perché come precisa Bruce Sterling “noi umani siamo ciò che gli utensili hanno fatto di noi” avvertendo, subito dopo, che “la nostra cultura è in pericolo, perché manchiamo di idee solide su dove siamo nel tempo e su cosa potremmo fare per assicurarci un futuro. Siamo in difficoltà anche per ragioni tecniche e pratiche: disegniamo, costruiamo e usiamo dispositivi che funzionano male”. Quello che non utilizziamo più, o che abbiamo consumato, è soltanto una parte della macilenta eredità che ci stiamo tramandando di generazione in generazione e La forma del futuro dipende moltissimo da questa spada di Damocle sospesa sopra la testa dell'umanità, come riesce a spiegare con molta chiarezza Bruce Sterling: “E' difficile avere a che fare con l'immondizia. Gli umani hanno sempre fallito nel gestire i rifiuti. Quindi, a lungo andare, il ruolo dei rifiuti è aumentato. Le civiltà collassano, ma le loro rovine sono proverbiali. I rifiuti sono sempre il nostro principale dono culturale al futuro”. Quando Bruce Sterling immagina il futuro (così come il passato, “perché un tempo le cose erano come erano, perché oggi le cose sono come sono e come sembra stiano diventando”) e resta nell'alveo del racconto, della metafora e della suggestione sa rendere credibili i neologismi, le ipotesi, le architetture del linguaggio a cui si applica con lo spirito del designer e il gusto innato del romanziere che però ha capito che “la fantascienza non s'incentra sulla libertà di immaginazione, ma su una libera immaginazione serrata e stridente entro quella morsa che alcuni chiamano vita reale”. Lo sforzo, a quel punto, non è molto diverso da quello dei suoi amici designer che comunque sono altrettanto in trappola visto che “la ricerca per un mondo sostenibile può aver successo, oppure può fallire. Se fallisce, il mondo diventerà impensabile. Se funziona, il mondo diventerà inimmaginabile”. Quando si fa prendere dall'urgenza (ed è abbastanza inevitabile) e passa dalla concretezza del racconto alla rigidità delle teorie, il filo del discorso si ingarbuglia negli schemi e nelle affermazioni apodittiche. Non che le conclusioni non siano apprezzabili (anzi), ma nella seconda parte del libro Bruce Sterling tende ad apprezzare le tesi più che la loro definizione, quasi coinvolto dall'ammissione che passiamo da un momento in cui l'informazione voleva essere libera a uno in cui la conoscenza anela a trovare forma”. Il futuro, insieme a “un qualche senso di integrità personale”, è una condizione di equilibrio rispetto al tempo e allora, sì, “pensare in termini temporali è una visione morale del mondo”. L'arduo compito è una propaggine dell'osservazione per cui “i cambiamenti davvero radicali nella concezione umana del tempo non sono causati dalla filosofia, ma dalla strumentazione. I più radicali fra i cambiamenti della nostra concezione del tempo derivano da dispositivi tecnologici, da strumenti di percezione temporale: orologi, telescopi, datazioni al radiocarbonio, spettrometri”. Un sacco di gingilli, di gadget, di oggetti, di codici a barre che sono obsoleti ancora prima di essere moderni, che saranno la nostra prossima spazzatura e che comunque ci stanno circondando tanto che La forma del futuro si conclude con una riflessione che sa di profezia: “La condizione umana non verrà improvvisamente abolita, cancellata. Verrà decomposta e riciclata”. Su questo non è difficile essere d'accordo. Sta già succedendo.

venerdì 2 ottobre 2015

Sherwood Anderson

Parziale come ogni autobiografia che si rispetti, Storia di uno scrittore di storie parte dall'esperienza propria di Sherwood Anderson, “un servitore delle parole”, e diventa subito un'assidua e meticolosa circumnavigazione attorno all'idea di scrittura e di letteratura. La coincidenza millimetrica con la vita di Sherwood Anderson fa della Storia di uno scrittore di storie un corso di percezione molto acuto, che parte proprio da dove ha origine tutto: “Nelle strade della città non c'erano racconti a lieto fine come sulle riviste. La vita andava avanti, e fra gli uomini accadevano piccole cose illuminanti. Sulla strada e nella vita delle persone che passavano per quella strada si svolgeva un dramma che sembrava penetrare la vita stessa”. Quella lunga, intensa lezione che è Storia di uno scrittore di storie, ovvero il racconto del raccontare, si sviluppa dall'embrionale certezza che “le parole sono tutto” e poi, per ammissione dello stesso Sherwood Anderson, procede spesso brancolando nel buio perché la materia, “ le vite e i drammi della gente”, resta instabile, e non è molto docile quando viene ingabbiata nella forma predestinata alla pagina. In più, c'è una questione di stile: le storie le scrive lo scrittore, le filtra attraverso la sua sensibilità e quella di Sherwood Andeson è quasi un rivendicazione sindacale: “I miei racconti, narrati e non narrati, ne sono pieni: fughe in acqua, al buio, su una barca che non tiene, fughe da situazioni complesse, dalla mediocrità, dalle pretese, dalla seriosità pomposa dei mezzi artisti. Quale scrittore di racconti non ha una passione per le fughe? Sono l'aria stessa che respiriamo”. E' in quell'attimo fugace che l'inafferrabile diventa visibile, quando la scrittura si manifesta perché “le frasi sono come le finestre nelle case. Improvvisamente un velo viene strappato, e tutte le bugie, tutti gli imbrogli che riguardano la vita scompaiono per un momento”. La ricchezza e in fondo l'estrema sintesi della Storia di uno scrittore di storie è tutta lì, in quell'istante in cui Sherwood Anderson si presenta così: “Sto cercando di raccontarvi la storia di un momento e, in quanto narratore, mi viene da pensare che tutta la vita non sia fatta altro che di momenti. Viviamo solo in rari momenti. Volevo uscire dalla porta e allontanarmi. L'americano è rimasto un vagabondo, un uccello migratore non ancora pronto a costruirsi il nido. Tutte le nostre città sono provvisorie, come le case in cui viviamo”. Il rapporto tra Sherwood Anderson, americano tra gli americani, e l'America, dove qualcosa “è andato storto fin dall'inizio”, è complicato dal tentativo di raccontare quel “guazzabuglio” che è l'America stessa. Molte delle sue impressioni, disseminate lungo tutto l'arco della Storia di uno scrittore di storie formano, nell'insieme, una visione articolata, e per niente edulcorata. La lunga dissertazione comincia con la constatazione di essersi ficcati “in un buco senza uscita. Puntavamo a essere superuomini ed è saltato fuori che siamo figli di uomini che dopo tutto non erano così diabolici. Non possiamo biasimarci se siamo riluttanti a scoprire ciò che vi è di umano in noi”. La sua è una conoscenza a livello antropologico, minuziosa e non casuale: “Il vero americano sapeva qualcosa dei fatti, ma nulla dei sentimenti; seguiva la legge alla lettera, ma non ne percepiva la sostanza”. Sherwood Anderson non si esclude dall'abbaglio che è implicito alla fondazione di una nazione, ma è già qualcosa: “Noi americani dovevamo cominciare a stare fermi, nella nostra terra, perlomeno con lo spirito. Dovevamo accettare la nostra materia, affrontarla”, e invece no. E' proprio lì che la versione di Sherwood Anderson si fa molto radicale: “Pretendere che abbiamo fatto l'America, sia pure materialmente, mi sembra ormai come raccontarsi una favola della buonanotte”. Ci sono storie che si possono scrivere, e ce ne sono altre che non reggono il confronto. Storia di uno scrittore di storie è (anche) un manuale che insegna a distinguerle. Obbligatorio.

mercoledì 30 settembre 2015

Chaim Potok

Fuggendo dai combattimenti che incalzano la pianura coreana un uomo e sua moglie trovano in un fosso un bambino ferito. Non hanno nulla, soltanto un carro malandato, la paura e l'istinto di sopravvivenza, a cui devono aggiungere la pietà per un bambino. L'uomo, vecchio e confuso dalla realtà della guerra, non vuole portarselo dietro, sarebbe soltanto un peso in più. Tra l'altro è più morto che vivo. La donna, risoluta a non lasciarsi trascinare nella crudeltà, lo raccoglie, lo cura, lo salva e lo nutre. Parte da lì una lunga marcia di profughi, inseguiti dalla guerra, lontana eppure presente in tutta la sua orrenda natura, tormentati dalla fame e convinti di essere soltanto “giocattoli in mano agli spiriti”. Riportati a una condizione primitiva, si ritrovano ad accendere il fuoco per scaldarsi in una buca, usando residui di legna e arbusti secchi. Mangiano zuppe fatte con un biscia nera strappata dal suo letargo o erba di campo (selvatica), carne di cane randagio o pesci catturati spaccando il ghiaccio. Spogliano i morti per recuperare i vestiti e le coperte, lasciando sprofondare i cadaveri nel fango. Dentro la terra ormai ci vivono anche loro: dormono nelle grotte e si inerpicano su sentieri duri, aspri, senza speranza, tutta una fatica tragica per scollinare, per poi vedere le valli trasformate in gironi danteschi. I corpi bruciati che diventano nuvole puzzolenti, la marea di profughi che compiono il viaggio al contrario ricalcando i ricordi non meno delle impronte, le colonne di soldati e mezzi che travolgono tutto, lasciando un “mondo piatto e vuoto. In balia di demoni brutali”. Chaim Potok è parsimonioso nelle descrizioni, non spreca una parola che sia una, eppure riesce a far capire quanto importante sia un pugno di riso o il mozzo cigolante di una ruota. La drammatica odissea si percepisce da quei dettagli e continua fino a quando “un giorno d'estate sentirono dire che la guerra era finita, ma nella loro vita niente cambiò”. In quel momento l'uomo e la donna si convincono che il ragazzo ha dalla sua parte una fortuna o una curva del destino, magari soltanto per aggrapparsi a un motivo per per tornare al proprio villaggio, Molti non trovano più né la casa, né il paese. Loro ritrovano entrambi, deserti e pieni di polvere, ma intatti. Rimane la convivenza con lo straniero, che non cambia molto, prima o dopo. Gli americani, venuti in aiuto, sono sempre oltre il filo spinato, volano su aerei lucenti e troppo veloci per essere visti, sferragliano senza sosta nelle strade, lasciano vaste distese vuote e aride quando le basi cambiano coordinate. La distanza non è soltanto geografica: c'è proprio una differenza umana. Loro sono contadini, poverissimi, il destino, legato alle stagioni, alla siccità, alla pioggia, alle variazioni d'umore degli spiriti. Gli altri sono soldati, hanno disponibilità illimitate e il senso di questa frattura si vede quando il ragazzo va a lavorare in una caserma e scopre l'ambivalenza del rapporto, lo sfruttamento, i piccoli furti, la corruzione, come se non ci fosse mai una fine. A Io sono l'argilla si adatta la descrizione del romanzo secondo Claudio Magris che lo definisce “un paradosso, una lancia di Achille che ferisce e guarisce; è intessuto delle lacerazioni del moderno e insieme le abbraccia in una nuova totalità”. Lancinante, aspro, senza mezzi termini, Io sono l'argilla non lascia indifferenti.