giovedì 27 novembre 2014

Joseph Mitchell

Joseph Mitchell è un reporter della vecchia scuola: consuma le suole delle scarpe per andare a caccia di notizie, non inventa niente ed è un osservatore acuto, curioso, generoso ed entusiasta, persino molto ironico, quando deve una certa indolenza: “Non mi è molto difficile inventare una scusa che giustifichi il mio comportamento (ho una grande esperienza nel giustificarmi di fronte a me stesso”). Si vede anche nello spazio limitato dalla forma embrionale di Una vita per strada, poco più di un articolo che destinato ad avviare un romanzo autobiografico: Joseph Mitchell riesce a dipanare tutta una grande (grandissima) abilità nel leggere la realtà quotidiana di NYC, la sua architettura, i suoi angoli, le forme e le atmosfere. “Cammina per la città, indaga ogni stradina, ogni avvenimento insolito, ogni personaggio eccentrico. Continuò a farlo, e in modo ossessivo, per tutta la vita” dicevano i suoi colleghi ed è lo stesso Joseph Mitchell a confermare la sua predisposizione al vagabondaggio: “Quello che amo davvero è gironzolare senza meta per la città, camminare giorno e notte per le strade. E’ più di un piacere, un semplice piacere, è un’aberrazione”. Anche se si muove come un rabdomante lungo le perpendicolari di New York, quel “diventare parte della città”, non è casuale. La distinzione è nitida e non lascia scampo: i suoi preferiti sono “visionari, ossessivi, impostori, fanatici, predicatori della fine dei tempi, vecchi re e regine degli zingari, e freak puri e semplici”. Non cerca, non segue e non vuole saperne di “signore mondane, capitani d’industria, ministri, esploratori, attori di cinema, e attrici di qualsiasi tipo al di sotto dei trentacinque anni”. L’essenza di Una vita per strada è nella sua visione dal basso perché nello spirito con cui l’affronta Joseph Mitchell “non esiste osservatorio migliore da cui guardare la città ordinaria, comune l’altezzosa, maestosa, argentea città verticale, ma la vasta città orizzontale di un grigio, di un marrone, di un rossiccio e di un rosa fuligginosi, la città intricata che cova sotto le ceneri, vecchia, inquinata e a un passo della demolizione”. Le immagini, le sensazioni, le percezioni non sarebbero niente senza la scrittura elegante, raffinata, avvolgente che è palpabile anche nei ristretti margini di Una vita per strada: “E mi piace in particolare recarmi in una di queste chiese in un’assolata domenica mattina estiva quando le strade del quartiere sono praticamente deserte e tutto è calmo e sereno e pare che molti più uccelli che nei giorni feriali si muovano tra gli alberi e gli arbusti e l’edera del cimitero e i vetri colorati risplendono e le porte sono accostate e le finestre al piano terra sono state alzate appena appena e da qualche parte un ventilatore ronza e i libri di preghiera e gli innari aperti rilasciano nell’aria calda l’odore acidulo dei vecchi testi maneggiati a lungo, e c’è solo un gruppetto di persone, il solito gruppetto di irriducibili, tra i quali ci sono sempre alcune vecchie ossute, rigide, altere, che sprizzano New York da ogni poro”. Manca soltanto Joe Gould, che rimane là, dietro l’angolo. 

martedì 25 novembre 2014

Robert Penn Warren

Se la dimensione di un classico si misura attraverso la sua atemporalità, allora Tutti gli uomini del re è una pietra miliare della narrativa (americana, e non solo) nel ricostruire le deformazioni del potere, degli uomini e delle donne dentro il potere, nella sua espressione più appariscente, la ricerca del consenso. Sesso, soldi, politica, famiglia: legati in modo indissolubile, confluiscono in una palude morale, dove menzogne, tradimenti, rivalse e vendette sguazzano senza sosta come mocassini acquatici (e più velenosi). Il romanzo è molto più delle sue riduzioni cinematografiche e la differenza non è relativa. Da cronista della provincia americana, Jack Burden diventa uno degli spin doctor di Willie Talos, un parvenu dell’agone politico che si presenta così: “Il mio verbo è il cuore del popolo”. Secondo il parere (rispettabilissimo) di Joyce Carol Oates è il suo personaggio a conferire un “valore eterno” a Tutti gli uomini del re, e non c’è dubbio che Willie Talos abbia i parametri giusti per essere ricordato nei secoli. Al fondo degli eventi, è però il suo rapporto con Jack Burden a definire il sinuoso corso di Tutti gli uomini del re. Jack Burden proviene da una famiglia ricca e dissoluta, con una madre volitiva e amici fraterni e altrettanto altolocati come Anne e Adam Stanton, che hanno avranno un ruolo decisivo nell’evolversi di Tutti gli uomini del re. Willie Talos viene dalla terra, dal fango, dalle radici e diventa governatore senza particolari ambizioni politiche, visto che la sua considerazione della democrazia è lapidaria: “Prova tu ad andare lì e ficcare un po’ di buonsenso in quel parlamento. Stai meglio se ti becchi la dissenteria”. Quando Jack Burden accetta di lavorare per lui, la svolta è un salto mortale: “Sono un politico, e noi non abbiamo amici”. A quel punto soltanto l’amore platonico tra Jack Burden e Anne Stanton rimarrà l’unica cosa pulita e non consumata di tutta una storia che corre spedita verso la tragedia. I semi sono già gettati fin dall’inizio perché “quando si vuole troppo, di solito ti succede qualcosa. Ti trasformi nella sola e unica cosa che desideri, nient’altro, perché hai speso troppo per lei, troppo tempo ad aspettarla, troppo nel desiderarla, troppo per raggiungerla. E alla fine ti fanno solo quelle domandine di merda”. Robert Penn Warren pennella a tinte forti, grezze, impressionanti, una scrittura florida e fluida nello stesso tempo, americana nella sua profonda essenza popolare. Fin dal primo capitolo, maestoso, che potrebbe essere un racconto, fatto e finito, ma poi affascina, per esempio, anche soltatno per come inserisce i personaggi minori, dislocati nei punti strategici, con una gran classe e una personalissima disinvoltura. Con le stesse modalità piazza le scene principali, a partire dall’incontro con il giudice Irwin, nel pieno della notte, mentre Willie Talos diventa “il simbolico portavoce del muto ed encefalitico popolo dei probi” ed essendo uno di loro, dispone del potere che gli è stato conferito per difendere, insieme alla sua gente, anche se stesso. Questo è il refrain nella storia della democrazia; questo racconta un grandissimo romanzo come Tutti gli uomini del re.

martedì 18 novembre 2014

Raymond Carver

Pubblicati nel 2000, gli ultimi racconti di Raymond Carver non sono legati al suo crepuscolo, anche perché nell’ultimo periodo della sua vita, come è noto, più che alla narrativa, si è dedicato alla poesia che riteneva “una grande benedizione”. Pur provenendo da periodi molto diversi, e si va dai primi passi di Raymond Carver fino alla forma ottenuta con infinite revisioni, si ha la sensazione che i racconti Se hai bisogno, chiama siano collegati da un sottile filo conduttore. E’ senza dubbio frutto dell’accurato lavoro di lettura, correzione e assemblaggio di Tess Gallagher e Jay Woodruff, che li hanno scoperti e poi trattati con la necessaria esperienza e la giusta discrezione, ma è soprattutto l’effetto di Carver e dei suoi personaggi, con cui viene spontaneo identificarsi in modo viscerale. E’ proprio quello che succede quando si incontrano lui e le sue legioni di outsider, così come lo spiega Tess Gallagher, dato che nei racconti le vite dei protagonisti “sono talmente depredate dalle circostanze da diventare nostre”. La spiegazione è più che pertinente, e se questi “short cuts” raccolti in Se hai bisogno, chiama, non sono proprio indispensabili, perché non aggiungono nulla di così nuovo ed eclatante alla conoscenza dell’opera carveriana, sono comunque una valido compendio per completarne la conoscenza. Legna da ardere, giusto per andare in ordine, è una storia rarefatta e ombrosa in cui i tre personaggi, Myers, Sol e Bonnie, sembrano specchiarsi uno dell’altro condividendo una modesta abitazione vicino all’acqua. Un particolare ricorrente, e non è l’unico: Carver dissemina (sempre) minuscoli indizi, piccole esche funzionali al meccanismo narrativo, senza malizia, senza artificio. Non c’è nessun trucco, questo si sa, solo piccoli semi sparsi per ricordare il sentiero, la strada del ritorno verso casa, magari con “qualche incidente di percorso”, il più delle volte l’alcol o un legame spezzato, che porta in direzioni impreviste e sconosciute. Lo schema di Legna da ardere è riproposto da Vandali però con una doppia coppia, più un convitato di pietra che sfugge al ricordo. L’incendio è soltanto una leggera distrazione per illuminare il resto del racconto. Diverso è invece lo straziante rogo di Sogni, che mette a dura prova lo scrittore e il lettore, tanto che la soluzione  sembra essere soltanto una. Come scriveva Raymond Carver: “Mettilo nel tuo libro”, ed ecco fatto, come se il racconto in sé fosse in grado di preservare i Sogni (appunto) e circoscrivere il dolore. Un’arte, a cui servono pochi passaggi essenziali. E’ la distribuzione dei dettagli in Cosa vi piacerebbe vedere?, il ronzio del generatore e quello del proiettore, piccole forme di attrazione, per segnalare che “a volte le cose vanno per il verso giusto”. E’ la voce nella constatazione di Se hai bisogno, chiama: “A distanza di tempo sembra tutto così volgare e prevedibile, forse perché lo era, volgare e prevedibile, ma quella primavera era quello che era e basta, e ci stava consumando tutte le energie e la concentrazione, a scapito di tutto il resto”. E’ Carver al 100%.

domenica 16 novembre 2014

Bill Bryson

C’è un equivoco sostanziale nel titolo, perché l’impresa che vorrebbero portare a termine Bill Bryson e il suo amico Stephen Katz non è proprio Una passeggiata nei boschi semplice semplice. Oltre tremila chilometri seguendo i crinali dell’Appalachian Trail, dalla Georgia al Maine, sono qualcosa più simile ad un’odissea che a una gita domenicale e non tanto perché tra gli alberi si può nascondere una congrega di streghe o chissà quali altre spaventose leggende, ma perché come annota subito Bill Bryson “le foreste non sono spazi qualsiasi. Tanto per cominciare, sono spazi cubici. Gli alberi ti circondano, ti guatano, premono da ogni lato, ti impediscono la visuale, lasciandoti intontito e privo di punti di riferimento. Ti fanno sentire piccolo, confuso e vulnerabile, come un bambino sperso in una folla di gambe estranee. In un deserto o in una prateria si ha la sensazione di uno spazio vasto. Ma di una foresta si può solo avere sensazione. Le foreste sono non luoghi, vasti e senza forma. Vivi”. Attraversarle per sfida, senza un’adeguata preparazione, e con un compagno di viaggio poco meno che disastroso, è la vera impresa. Bill Bryson la racconta con una certa verve e Una passeggiata nei boschi è un libro piacevole, a volte persino divertente, sempre scorrevole con quel suo continuo alternare diario di viaggio e saggio storico. Bill Bryson, perfettamente a suo agio in questo strano ibrido, ha anche mestiere da vendere, ma resta l’impressione, già percepita nei precedenti accumulati con America perduta, che non voglia o non possa andare in profondità nel raccontare il territorio americano, come hanno fatto in modi diversi, senza tante pretese ma in maniera più avvincente, William Least Heat-Moon in Prateria o Jonathan Raban in Bad Land. E’ diverso il tono, come se Bill Bryson guardasse l’America da un oblò, quindi con una visione ristretta, univoca e monocolore. Con troppo distacco per essere convincente, Una passeggiata nei boschi è un viaggio con un obiettivo dichiarato proprio dove, come se ne accorge ben presto Bill Bryson, mancano i punti di riferimento. Essendo un umorista, l’ironia gli torna utile nell’affrontare le difficoltà del viaggio, ma spesso rimane l’unico strumento a sua disposizione  e si perde di vista il tema centrale, che poi è, nella sua essenza, una specie di mito. Rispetto ad America perduta, con Una passeggiata nei boschi, Bill Bryson ha alzato il tiro, perché tra l’avvistamento di un alce e una disgressione sulla qualità di un certo tipo di zaini, offre anche ampi squarci di piogge acide, specie in via d’estinzione, disboscamenti forsennati, fabbriche e miniere che distruggono intere montagne o città. Sono le parti più illuminanti perché, superano una visione paesaggistica e olografica della wilderness per spiegare che “niente dura, in America”. Nemmeno le foreste secolari: figurarsi che speranze hanno gli episodi, gli aneddoti e le nozioni da escursionista che costituiscono gran parte di Una passeggiata nei boschi. 

giovedì 13 novembre 2014

Luci Tapahonso

Una delle voci più originali della letteratura nativa americana, Luci Tapahonso, sovrappone racconto e poesia, li alterna e li scambia lungo “il confine sottile di un miracolo”, il compromesso tra il navajo e l’inglese. Sono due vocabolari molto diversi, che tengono insieme “le fragili vite” e confluiscono in una lingua essenziale e scheletrica. Se a prima vista la scrittura raccolta in Sáanii Dahataał può apparire istintiva, se non addirittura naïf, c’è invece un sentimento solidissimo radicato nelle sue fondamenta. Le “vie dei canti” di Luci Tapahonso appartengono a una cultura offesa, minacciata, vessata e distrutta, ma che non è mai stata dimenticata e le sue liriche usano una lingua che sopravvive nel ricordo perché lo scopo trascende le pagine in cui è incastrata: “Per molte delle persone che, come me, risiedono lontano dalla propria terra, scrivere è il mezzo per tornare, per rinnovarsi e per riportare i nostri spiriti allo stato di hohzo, o bellezza, che rappresenta la base della filosofia navajo. E’ una piccola parte della cosa vera, ed è funzionale, ma, man mano che la cultura navajo cambia, noi ci adattiamo di conseguenza”. L’ossessione per le parole non deve nemmeno essere giustificata, anche se Luci Tapahonso si premura di precisarne la funzione e, va da sé, l’importanza: “Le parole generano bellezza, felicità, riso, calma come anche distruzione e morte, quindi fate attenzione al modo in cui le usate. In navajo diciamo che il sacro ha inizio sulla punta della lingua”. Sáanii Dahataał che è il modo migliore per aprire una porta a Luci Tapahonso parte proprio da lì, votato a “ordinare e riordinare con cura parole e pause che erompono come ricordi dal pieno respiro”, come scrive in Fuori da una piccola casa. E’ “un’irrequietezza innominabile”, quella che spinge con insistenza verso la memoria, una vocazione a collocare “un senso di eredità culturale come un senso della storia”, quasi a costruire un rifugio con le parole stesse. Succede in E’ notte in Oklahoma, una toccante poesia in cui i due protagonisti, in fuga dal dolore e dal gelo di avvolgono uno nell’altra e dicono: “qui dentro, noi respiriamo la pelle dell’altro, ci muoviamo per sentire il battito dei nostri polsi, e questa è l’unica rassicurazione delle nostre fragili vite”. Questo sfuggente equilibrio permea tutto Sáanii Dahataał, senza distinzione tra poesie, canzoni o racconti, ed è tra i motivi principali che rendono la scrittura di Luci Tapahonso così vivida e magnetica. Il confronto con un altro idioma, usato come uno strumento per saldare tante, diverse visioni non intacca la scintilla originale, che è evocata, fin dal titolo, in Ricorda le cose che ci hanno detto: “Ogni suono che facciamo evoca la potenza di questi venti e noi siamo, allo stesso tempo, miti e forti”. Il cuore, l’epicentro e la stella polare di Sáanii Dahataał sono proprio lì, e sembrano prodotti dall’eco tramandato nel tempo di un antico canto navajo: “Tutto quello che hai visto ricordalo, perché tutto quello che dimentichi torna a volare nel vento”. 

lunedì 10 novembre 2014

Dennis Cooper

“La verità è arida. La verità si capisce solo quando tutto il proprio mondo appare come soffritto a fuoco lento finché non ne rimangono solo le informazioni strettamente necessarie a separarlo dal mondo altrui” confessa Dennis Cooper in uno dei passaggi fondamentali di Idoli. La verità è che ha visto l’inferno, ci è passato dentro, “sembrava quasi amore”, e, ora, è qui a raccontarlo. Dennis Cooper è un autore che non ha misure: il suo meccanico narrare di violenza e sesso, sesso e violenza (che per lui sono indissolubilmente legati) scuote più di una coscienza e, in effetti, l’abulia morale dei suoi romanzi, le assurdità spiegate con una freddezza vicina al cinismo sono sufficienti a spiegare tanta tensione e a concordare con lui sul fatto che “la realtà è troppo complessa per lasciarsi decodificare da uno qualsiasi di noi”. Dal punto di vista narrativo, monotonia e ripetività sono, nello stesso tempo, le sue armi e i suoi punti deboli, tali da lasciar supporre una voglia di shock a tutti i costi e per tutti i bisogni dello spettacolo. Un dubbio lecito visto il proliferare di scrittori che non raccontano più di quello che ha già spiegato Vladimir Nabokov. Magari aggiungono qualche particolare, d’accordo, un po’ di violenza in più, ma non è questo il punto perché Dennis Cooper, almeno da quello che si riesce a capire in Idoli, va oltre. Affiorano dubbi: è vero che il paesaggio umano è sempre degradato ai minimi livelli (anche peggio), ma a differenza di tanti altri votati a un approccio superficiale, Dennis Cooper sembra accorgersi che sta raccontando e che, in qualche modo, la sua è già una presa di posizione, un definirsi, probabilmente un tentativo di venirne fuori. Con il contorno sonoro di Guided by Voices (un’ossessione), Smear, Sebadoh, Lemonheads, Blur che già evocano un paesaggio fluttuante ed evanescente, le realtà formate dagli acidi e dalla noia assumono il centro di gravità, lasciando a “qualsiasi potenziale problema insito nell’avere rapporti con gli altri” il ruolo di “effetti collaterali irrilevanti”. Gli Idoli si formano in quelle particolari orbite e in modo altrettanto repentino scompaiono perché l’alter ego di Dennis Cooper dice: “Chi distruggo nel corso della narrazione per me non ha importanza. Vorrei solo essere in grado di fare lo stesso in questa vita molto meno plasmabile che stiamo iniziando a vivere insieme”. Questa è la frattura, la ferita dentro Idoli e sembra confessarlo lo stesso Dennis Cooper un passo più in là: “Scrivo romanzi che sostanzialmente sono soltanto descrizioni prolisse e involute dei mondi dei miei desideri, insoliti e utopici, in cui realisticamente non sono in grado di entrare”. Idoli, pur non spiegando nulla, mostra che l’inferno di Dennis Cooper, per folle e arido che sia, è soltanto una cellula e che tutto intorno c’è qualcosa che non funziona perché ammette: “Tutta la bellezza del mio mondo è addormentata, priva di sensi o cadavere”. Durissimo, sincero: Idoli è un libro da prendere con le pinze e con i guanti, ma che affronta la realtà con gli occhi spalancati e senza paura di niente. 

mercoledì 5 novembre 2014

A. M. Homes

Il primo edificio dell’evanescente architettura di Los Angeles a diventare protagonista del reportage di A. M. Homes è lo Château Marmont, albergo che è l’equivalente del Chelsea Hotel di NYC, con tutto il suo bagaglio di storie e drammi, a partire dalla folle notte in cui se ne è andato (in un sacco nero) John Belushi. E’ anche l’ultimo perché la sua “antropologia del quotidiano” è un cocktail leggero ed effervescente di ironia, ipocondria, osservazioni e divagazioni in misure uguali per cercare di capire e spiegare: a) “una delle città più americane d’America”; b) “forse il luogo più surreale d’America”; c) una città specializzata nell’eliminazione dell’incredulità, nella sospensione del tempo, della realtà, della storia e della memoria”. Le premesse sono altisonanti, i punti di domanda rimangono lì perché quando A. M. Homes si avventura in territori che non gli appartengono (l’analisi, la critica, il conflitto), non riesce a sfuggire alla trappola dell’ovvietà: “Per quanto riguarda l’architettura di Los Angeles è sempre stata un avamposto progressista. Dal punto di vista estetico, è eccezionalmente democratica: un ambiente urbano che accetta quasi di tutto, cosa che ne costituisce la bellezza, ma anche l’orrore”. In realtà, A. M. Homes sfiora appena e/o sorvola la complessità di Los Angeles: lascia cadere con un certo aplomb l’idea che, per scoprirla, serve leggere Mike Davis (questo è poco, ma sicuro), poi trotterella tra una centrale eolica e una beauty farm, tra un hotel e l’altro. C’è qualcosa di attraente nell’incidentalità delle sue tappe attraverso una “città di frontiera” ed è una leggerezza che, non a caso, scivola meglio in superficie quando A. M. Homes scrive: “Los Angeles è la patria di Hollywood, l’industria che ha creato il sogno americano: è il luogo dove si fabbricano speranze e desideri che poi ti vengono consegnati come se fossero tuoi, dove donne e uomini fortunati sono elevati al rango di star, di eroi, almeno fino a quando non arriva qualcosa di meglio”. Quando torna nell’ambito che gli è proprio, sé stessa, A. M. Homes è molto più convincente e riesce a delimitare un legame con Los Angeles in modo preciso: “E’ facile e pericoloso fingere che non ci sia alcun mondo al di fuori del proprio. In questa città ognuno fa per sé; ogni persona crea la propria realtà. Ci sono poche esperienze collettive: le condizioni meteorologiche, il traffico e la terra”. Per qualcosa di più specifico deve parafrasare Gertrude Stein, quando diceva (a proposito di un altro luogo, di un’altra città): “Là non esiste alcun là”. E’ proprio così e lo spirito eccentrico, quasi incantato, con cui A. M. Homes si lascia trascinare nella multiforme geografia di Los Angeles non è sufficiente a risolvere i limiti nell’impostazione e nell’ampiezza di una ricerca che, alla fine, ha prodotto una cartolina, curiosa, firmata e di classe, ma pur sempre una cartolina. Basta non chiederle di più, potrebbe rintanarsi nella sua stanza preferita allo Château Marmont e scrivere un altro romanzo.

sabato 1 novembre 2014

Jack London

L’attualità di Preparare un fuoco, scritto tra il 1902 e il 1910 rimane sorprendente, per non dire profetica, a distanza di un secolo. Le condizioni assolute, più che estreme, in cui cammina Tom Vincent o Tom Collins (così è variato il nome del protagonista di Preparare un fuoco nel corso delle diverse versioni) è la sua lampante incomprensione della stessa realtà della wilderness, che permette a Jack London di evidenziare e acuire la distanza tra l’uomo, e per estensione il genere umano, e la natura che incombe sopra di lui. Preparare un fuoco sarebbe un’attività che rientra nella routine delle normali procedure quotidiane, ma nella rigidità dell’inverno dello Yukon diventa una questione di vita o di morte, senza eccezioni. Le due versioni di Preparare un fuoco, pur nella differenza dell’evoluzione finale, mostrano l’incapacità dell’uomo di assoggettarsi ai propri limiti e di comprendere quelli imposti dalla natura. Anche i bizzarri tentativi di antropomorfizzare i fenomeni naturali sembrano un frutto dell’arroganza e dell’euforia, almeno alla partenza, come scrive Jack London: “Nonostante tutto si sentiva presente, aveva la percezione di una gioiosa ebbrezza, una vera esultanza; stava facendo qualcosa, stava raggiungendo un obbiettivo, dominava gli elementi”. E’ proprio quella l’esca che attira l’uomo nella sua stessa trappola perché la natura, l’inverno, il ghiaccio e la neve sono lì e non si inventano niente. L’idea di sfidarli e il tentativo di controllarli è insito nell’esigenza dell’uomo di provare la sua stessa esistenza. La fatica di comprenderli rimane esclusa, ed è questa la morale, perché c’è una morale, in Preparare un fuoco. La sua sconfitta non è la vittoria della wilderness che è indifferente al destino umano. E’ un fallimento, dovuto alla negazione dell’istinto primordiale e all’azzeramento dell’esperienza, più percepibile nell’ultima versione del racconto, dove interviene un terzo elemento, quello animale. Lo precisava meglio George R. Adams: “Attraverso il parallelo tra uomo e cane, London suggerisce una sorta di perverso e ironico processo evolutivo: gli esseri umani finiranno per snaturare il cane, rendendolo talmente dipendente e oggettivato che non sarà più in grado di sopravvivere nel proprio ambiente: quindi non sarà nemmeno più utile per servire o salvare gli esseri umani”. Sull’ereditarietà dei caratteri il dibattito resta aperto, ma Preparare un fuoco resta un tassello importante nella variegata bigliografia di Jack London perché traduce in uno splendido frammento narrativo, quello che Charles Darwin aveva già intuito in Diario di un naturalista intorno al mondo: “Noi non teniamo sempre presente alla mente la profonda ignoranza in cui siamo delle condizioni di vita di ogni animale”. Nella categoria è compreso anche in genere umano e “mai viaggiare da soli”, l’imperativo da rispettare nel gelo dello Yukon, vale anche in senso lato perché dice che bisognerebbe condividere e restare vicini alla sostanza degli elementi e dei fenomeni naturali. Sfidarli rimane molto pericoloso, oltre che inutile.