domenica 21 dicembre 2014

William Carlos Williams

Paterson è una città cresciuta per accumulo, nell’arco di vent’anni, dal 1946 (anche se le sue radici arrivano fino al 1926) al 1963, un work in progress che William Carlos Williams ha sviluppato partendo da un’ipotesi quasi matematica nella sua dimostrazione: “Cerca il nulla, sbaraglia il tutto, l’N di tutte le equazioni, quella roccia, il vuoto, che le sostiene, una volta strappato via, la roccia è la loro caduta. Cerca quel nulla, che sta oltre ogni visione, la morte di ogni cosa che sta oltre, oltre ogni essere”. Tutto comincia con le domeniche d’estate a Paterson, New Jersey,  le conversazioni open air, il pulviscolo sfuggente della quotidianità, la semplicità di una passeggiata sotto gli alberi. La realtà rientra nelle parole in modi misteriosi e, come scrive Octavio Paz, i versi di William Carlos Williams sono “fiori immaginari che operano sulla realtà, ponti istantanei tra gli uomini e le cose. Ed è così che il poeta fa del mondo un luogo vivibile”. L’edificazione di Paterson procede fluttuando nel tempo visto che la città “un luogo è fatto di ricordi al pari del mondo che lo circonda” e coincide con “la fantasia che non si può scandagliare”. William Carlos Williams avanza senza esitazioni: non cerca la “sporca argilla”, vuole il “prodotto finito”, la pietra d’angolo su cui innalzare un tempio degno della capitale di un sogno, di un’idea, di una rivoluzione. Il genio sta nell’abbandono, nell’inseguire un miraggio, in fondo, nell’estrema consapevole per cui “noi non sappiamo nulla, salviamo la danza: il ritmo è tutto ciò che abbiamo”. La materia prima, la parola, ricostruisce sulle fondamenta di Paterson “l’affinità tra la mente dell’uomo moderno e una città”. E’ una svolta epocale del ventesimo secolo: nell’interpretazione di William Carlos Williams “un uomo in sé è una città e inizia, cerca, realizza e conclude la sua vita in modi personificabili nei vari aspetti di una città”, e nessuno, come lui, ha tradotto in poesia questa simbiosi. Come una marea, Paterson avanza e scompare, mostra e nasconde, parte e ritorna rispondendo a quella sensazione “anfibia” che, secondo Octavio Paz “unisce e allo stesso tempo ci separa dalle cose. E’ la porta attraverso cui entriamo nelle cose ma anche uscendo dalla quale facciamo nostra l’idea che noi stessi cose non siamo. Perché la sensazione lasci il passo all’oggettività delle cose essa deve a sua volta trasformarsi in oggettività. Il linguaggio è l’agente di questa trasformazione: le sensazioni diventano oggetti verbali. Una poesia è dunque un oggetto verbale, fusione di due proprietà tra loro in contraddizione: la vitalità delle sensazioni e l’oggettività delle cose”. Paterson è quello, è tutto proprio perché, come scrive William Carlos Williams, “tratti via dalle strade noi rompiamo la clausura della mente e siamo presi dal vento dei libri, cercando, cercando nel vento, finché non sappiamo più quale sia il vento quale il potere del vento su di noi che porta la mente lontano”. Da leggere, rileggere, consultare come un vocabolario magico.

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