giovedì 27 novembre 2014

Joseph Mitchell

Joseph Mitchell è un reporter della vecchia scuola: consuma le suole delle scarpe per andare a caccia di notizie, non inventa niente ed è un osservatore acuto, curioso, generoso ed entusiasta, persino molto ironico, quando deve una certa indolenza: “Non mi è molto difficile inventare una scusa che giustifichi il mio comportamento (ho una grande esperienza nel giustificarmi di fronte a me stesso”). Si vede anche nello spazio limitato dalla forma embrionale di Una vita per strada, poco più di un articolo che destinato ad avviare un romanzo autobiografico: Joseph Mitchell riesce a dipanare tutta una grande (grandissima) abilità nel leggere la realtà quotidiana di NYC, la sua architettura, i suoi angoli, le forme e le atmosfere. “Cammina per la città, indaga ogni stradina, ogni avvenimento insolito, ogni personaggio eccentrico. Continuò a farlo, e in modo ossessivo, per tutta la vita” dicevano i suoi colleghi ed è lo stesso Joseph Mitchell a confermare la sua predisposizione al vagabondaggio: “Quello che amo davvero è gironzolare senza meta per la città, camminare giorno e notte per le strade. E’ più di un piacere, un semplice piacere, è un’aberrazione”. Anche se si muove come un rabdomante lungo le perpendicolari di New York, quel “diventare parte della città”, non è casuale. La distinzione è nitida e non lascia scampo: i suoi preferiti sono “visionari, ossessivi, impostori, fanatici, predicatori della fine dei tempi, vecchi re e regine degli zingari, e freak puri e semplici”. Non cerca, non segue e non vuole saperne di “signore mondane, capitani d’industria, ministri, esploratori, attori di cinema, e attrici di qualsiasi tipo al di sotto dei trentacinque anni”. L’essenza di Una vita per strada è nella sua visione dal basso perché nello spirito con cui l’affronta Joseph Mitchell “non esiste osservatorio migliore da cui guardare la città ordinaria, comune l’altezzosa, maestosa, argentea città verticale, ma la vasta città orizzontale di un grigio, di un marrone, di un rossiccio e di un rosa fuligginosi, la città intricata che cova sotto le ceneri, vecchia, inquinata e a un passo della demolizione”. Le immagini, le sensazioni, le percezioni non sarebbero niente senza la scrittura elegante, raffinata, avvolgente che è palpabile anche nei ristretti margini di Una vita per strada: “E mi piace in particolare recarmi in una di queste chiese in un’assolata domenica mattina estiva quando le strade del quartiere sono praticamente deserte e tutto è calmo e sereno e pare che molti più uccelli che nei giorni feriali si muovano tra gli alberi e gli arbusti e l’edera del cimitero e i vetri colorati risplendono e le porte sono accostate e le finestre al piano terra sono state alzate appena appena e da qualche parte un ventilatore ronza e i libri di preghiera e gli innari aperti rilasciano nell’aria calda l’odore acidulo dei vecchi testi maneggiati a lungo, e c’è solo un gruppetto di persone, il solito gruppetto di irriducibili, tra i quali ci sono sempre alcune vecchie ossute, rigide, altere, che sprizzano New York da ogni poro”. Manca soltanto Joe Gould, che rimane là, dietro l’angolo. 

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