mercoledì 5 novembre 2014

A. M. Homes

Il primo edificio dell’evanescente architettura di Los Angeles a diventare protagonista del reportage di A. M. Homes è lo Château Marmont, albergo che è l’equivalente del Chelsea Hotel di NYC, con tutto il suo bagaglio di storie e drammi, a partire dalla folle notte in cui se ne è andato (in un sacco nero) John Belushi. E’ anche l’ultimo perché la sua “antropologia del quotidiano” è un cocktail leggero ed effervescente di ironia, ipocondria, osservazioni e divagazioni in misure uguali per cercare di capire e spiegare: a) “una delle città più americane d’America”; b) “forse il luogo più surreale d’America”; c) una città specializzata nell’eliminazione dell’incredulità, nella sospensione del tempo, della realtà, della storia e della memoria”. Le premesse sono altisonanti, i punti di domanda rimangono lì perché quando A. M. Homes si avventura in territori che non gli appartengono (l’analisi, la critica, il conflitto), non riesce a sfuggire alla trappola dell’ovvietà: “Per quanto riguarda l’architettura di Los Angeles è sempre stata un avamposto progressista. Dal punto di vista estetico, è eccezionalmente democratica: un ambiente urbano che accetta quasi di tutto, cosa che ne costituisce la bellezza, ma anche l’orrore”. In realtà, A. M. Homes sfiora appena e/o sorvola la complessità di Los Angeles: lascia cadere con un certo aplomb l’idea che, per scoprirla, serve leggere Mike Davis (questo è poco, ma sicuro), poi trotterella tra una centrale eolica e una beauty farm, tra un hotel e l’altro. C’è qualcosa di attraente nell’incidentalità delle sue tappe attraverso una “città di frontiera” ed è una leggerezza che, non a caso, scivola meglio in superficie quando A. M. Homes scrive: “Los Angeles è la patria di Hollywood, l’industria che ha creato il sogno americano: è il luogo dove si fabbricano speranze e desideri che poi ti vengono consegnati come se fossero tuoi, dove donne e uomini fortunati sono elevati al rango di star, di eroi, almeno fino a quando non arriva qualcosa di meglio”. Quando torna nell’ambito che gli è proprio, sé stessa, A. M. Homes è molto più convincente e riesce a delimitare un legame con Los Angeles in modo preciso: “E’ facile e pericoloso fingere che non ci sia alcun mondo al di fuori del proprio. In questa città ognuno fa per sé; ogni persona crea la propria realtà. Ci sono poche esperienze collettive: le condizioni meteorologiche, il traffico e la terra”. Per qualcosa di più specifico deve parafrasare Gertrude Stein, quando diceva (a proposito di un altro luogo, di un’altra città): “Là non esiste alcun là”. E’ proprio così e lo spirito eccentrico, quasi incantato, con cui A. M. Homes si lascia trascinare nella multiforme geografia di Los Angeles non è sufficiente a risolvere i limiti nell’impostazione e nell’ampiezza di una ricerca che, alla fine, ha prodotto una cartolina, curiosa, firmata e di classe, ma pur sempre una cartolina. Basta non chiederle di più, potrebbe rintanarsi nella sua stanza preferita allo Château Marmont e scrivere un altro romanzo.

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