venerdì 18 luglio 2014

Wallace Stevens

Anche in un minuscolo libro che raccoglie piccole frasi, versi sparsi e altri frammenti di scrittura, Wallace Stevens si rivela un poeta in grado di elevare il suo ruolo, il suo lavoro a un livello superiore. Le schegge raccolte in Aforismi e prose sono indicazioni per prendere le misure alla realtà attraverso la poesia e come interpretare la poesia guardando gli effetti della realtà e Wallace Stevens è esplicito nell’indicare le direzioni e il senso di marcia: “Noi abbandoniamo il reale e vi torniamo, torniamo a quanto vogliamo che sia reale, non a quanto è stato, non a quanto troppo spesso è stato”. In pochi, nel ventesimo secolo, hanno saputo scrivere e, soprattutto, leggere la poesia come Wallace Stevens con l’idea, convinta, che “la vita è il riflesso della letteratura”, piuttosto che del contrario. Le interpretazioni di quell’entità chiamata poesia sono parecchie e tutte convergono perché “le parole sono l’unico armonium” (a parte la musica, s’intende) e le definizioni di Wallace Stevens si susseguono senza soluzione di continuità perché la poesia “è qualcosa di più che un concetto della mente. E’ una rivelazione della natura. I concetti sono artificiali. Le percezioni, essenziali”, ed “è realtà e pensiero oppure emozione”, e anche se “non tutti i giorni il mondo si accomoda in una poesia” è sempre “la vita che cerchiamo di raggiungere nella poesia”. Aforismi e prose rivela “quel ronzio di pensieri elusivi”, per quello che dovrebbe essere, come scriveva Owen Barfield, “un cambiamento avvertito nella coscienza”, ed è ciò si avverte di più che nella scrittura di Wallace Stevens. Non a caso, il suo profilo combacia con ideale tracciato da Cesare Pavese: “Il poeta, creatore di favole, è geloso e studioso di questi luccichii aurorali che di ogni bella favola sono l’avvio e l’alimento. Far poesia significa portare a evidenza e compiutezza fantastica un germe mitico. Ma significa anche, dando una corposa figura a questo germe, ridurlo a materia contemplativa, staccarlo dalla materna penombra della memoria, e in definitiva abituarsi a non crederci piú, come a un mistero che non è piú tale. Allora comincia la vera sofferenza dell’artista: quando un suo mito s’è ormai fatto figura, e lui, disoccupato, non può piú crederci ma non sa ancora rassegnarsi alla perdita di quel bene, di quell’autentica fede che lo teneva in vita, e la ritenta, la tormenta, se ne disgusta. Il possesso finisce cosí, come ogni possesso, salvo che la ricca costituzione umana dell'artista non fosse tale da fargli trascurare o addirittura ignorare lo scopo puramente contemplativo del suo lavoro e indurlo a rivolgere le sue mire a uno scopo pratico (pedagogico, parenetico, culturale o sperimentale) per cui il suo interesse nell'opera sopravviva alla realizzazione”. In più, i propositi dichiarati in Aforismi e prose da Wallace Stevens concordano in gran parte con l’analisi di Pavese: “Il mio intento poetico è scrivere poesia: senza una particolare definizione, raggiungere ed esprimere quanto ognuno riconosce come poesia, e farlo perché lo sento necessario”. Un piccolo compendio di una straordinaria grandezza.

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