mercoledì 23 luglio 2014

Joe Boyd

Le biciclette bianche affronta, attraversa e racconta gli anni sessanta e la musica, che li ha distinti per sempre e come nessun altro momento nella storia della civiltà moderna, con il tatto, la premura e l’ironia di Joe Boyd. Manager, produttore, discografico, testimone colto, appassionato, raffinato e (più di tutto) partecipe, Joe Boyd era lì, sul luogo del delitto, durante la rivoluzione copernicana di Bob Dylan a Newport nel 1965 o mentre i Pink Floyd emergevano come una visione lisergica all’UFO di Londra ed era ancora lì quando, ormai al crepuscolo degli anni sessanta, prese per mano un fragile e geniale songwriter destinato a diventare (per sempre) Nick Drake. Il periodo potrebbe indurre a immaginare un retrogusto di nostalgie, di rimpianti o di celebrazioni, invece Joe Boyd si rivela un narratore abbastanza accorto e con quel minimo sindacale di consapevolezza (anche qualcosa in più) per non lasciarsi trascinare dagli eventi e dalla naturale inclinazione a deformare i ricordi e le biografie, compresa la propria. Le biclette bianche è più vicino a uno stralcio di narrativa che a un saggio o a memoir e se la musica è l’elemento principale, Joe Boyd ricorda che il terremoto è arrivato perché “c’era la percezione che nulla fosse stato definito, che un presupposto si potesse sfidare. I miti affrontavano regolarmente i potenti e spesso vincevano, o almeno ci provavano. Studenti senza debiti con tempo a disposizione costrinsero il Pentagono a smettere di impiegare i ragazzi di leva americani come carne da cannone e cambiarono il paesaggio politico della Francia”. Le biciclette bianche partono da questo magma e Joe Boyd comincia la sua carriera proprio in Europa, dove si trova ad accompagnare Coleman Hawkins poi, tra il 1966 e il 1974, produce tra gli altri l’Incredible String Band, il primo singolo dei Pink Floyd, Nick Drake, Desertshore di Nico e John Martyn fino a Dueling Banjos ovvero la colonna sonora di Un tranquillo week-end di paura, a suo modo un ritorno alle radici. Attorno a questi dischi e a questi nomi Le biciclette bianche prendono forma come istantanee di un momento analogico, scandito da conversazioni logorroiche, assegni in bianco, tumulti personali e collettivi. Sono anni di grandi movimenti ideali e Joe Boyd non perde l’occasione per un’analisi approfondita rivelando, da suo punto di vista, che “sotto la superficie, gli anni sessanta progressisti nascondevano molti aspetti di sgradevolezza: il sessismo, il conservatorismo, il razzismo e il conflitto fra diverse fazioni. In realtà, nulla di stupefacente. L’idea che le droghe, il sesso e la musica potessero trasformare il mondo fu sempre un sogno molto ingenuo”. Una visione molto lucida, corroborata da una lunga teoria di missing in action che Le biciclette bianche non dimentica perché, come scrive ancora Joe Boyd, “ottenemmo molto, prima che le autorità capissero come capitalizzare la nostra autodistruttività”. Con grande sincerità, Le biciclette bianche dice che finita la rivoluzione, è rimasta la musica: non è poco, non c’è molto altro. Indispensabile.

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