sabato 12 luglio 2014

Charles Jackson

Don Birnam non è un barfly qualsiasi ed è molto distante dalle interpretazioni alcoliche mostrate nelle infinite versioni dal cinema o della letteratura. Mentre procede con il suo piano, (il suo unico piano: “Aveva raggiunto il punto in cui c’era sempre un sola cosa da fare: bere, e bere ancora, fino a che non arrivava l’amnistia; e il giorno dopo, bere ancora) nella sua mente si affolla tutta una congregazione di idee, propositi, fantasie, illusioni e miraggi partoriti e guidati dall’euforia etilica. Una visione autoindulgente, a dir poco, in cui domande e risposte coincidono: “Sono in grado, loro, di immaginare la struttura di una storia come quella, anche solo la struttura, non la stesura? Sono in grado, loro, di immaginare come qualcuno, pur essendo capace di pensare alla struttura, pur essendo capace di padroneggiare sia la struttura che la stesura, sono in grado di capire come qualcuno possa fallire, come possa fallire semplicemente perché non riesce a scrivere, perché, come? Non c’era una risposta, c’era solo il whisky”. Avvolto in queste considerazioni, il suo volto si scontra con quello che vede nel liquore, nel bicchiere, in uno schermo ed è sempre “un uomo dentro un bar della Seconda Avenue in un pomeriggio di ottobre uguale a questo, un uomo uguale a lui, che beve un bicchiere di whisky, molti bicchieri di whisky, e guarda il suo riflesso nello specchio del bancone”. Charles Jackson è impietoso nel posizionare tutti i contrasti possibili davanti e/o dietro Don Birnam, compresa la rettilinea ragnatela di New York, come se fossero quinte ingannatrici di un moderno aggiornamento del dramma shakespeariano. Fondali da cui non c’è scampo, non c’è soluzione, se non arrivare in fondo: la stagione all’inferno di Don Birnam è una spirale in cui l’alcolismo è causa ed effetto perché “ogni giorno che aveva bevuto cancellava quello precedente, andava sempre così, sempre”. E’ il significato stesso del titolo ed è tutto nel senso della sconfitta, del fallimento, della condanna che matura con il tempo. La reiterazione diventa il ritmo della scrittura e della vita, indissolubili e schiacciate l’una dentro l’altra in un’illusione che è il distillato dei Giorni perduti: “A forza di creare cose che non esistevano la sua immaginazione lo stava portando sull’orlo del delirio, e lui avrebbe fatto meglio a rassegnarsi a questa situazione. Stava cominciando a sentire e a vedere ciò che di solito semplicemente pensava”. Ispirato, in parti uguali, come in un cocktail, da “un terzo della storia era basato su esperienze che aveva vissuto lui stesso, un terzo sulle esperienze vissute da un suo amico di cui aveva seguito da vicino la carriera di alcolizzato e un terzo era pura invenzione”, Giorni perduti è un avviso di garanzia per tutti “gli inadempienti, gli inaffidabili, gli immaturi, i nostalgici, gli eterni bambini” ed è immacolato, fin troppo esplicito, nel raccontare la pericolosissima storia d’amore con “una bella bottiglia da un litro. Grande come la vita e due volte più vuota”. Con gli omaggi del fantasma di Francis Scott Fitzgerald, che aleggia sornione su tutti i Giorni perduti di Don Birnam alias Charles Jackson.

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