venerdì 13 giugno 2014

Philipp Meyer

Quando Isaac English decide di lasciare la valle della Pennsylvania in cerca di una speranza che non ha più, la sua fuga finisce ben presto tra le mura di un’acciaieria abbandonata, una delle tante. Lui e l’amico Billy Poe che lo sta accompagnando vengono aggrediti da un trio di famelici homeless. L’acciaieria, quello che ne rimane, è una terra di nessuno e Isaac English colpisce il più grosso degli homeless con una sfera d’acciaio pescata tra i rottami e sparata come una palla da baseball. Da lì, dai resti macilenti di un’industria crollata su se stessa, e proprio da quel preciso istante, si dipana una fitta ragnatela di legami contorti e ambigui che Philipp Meyer, al suo esordio, riesce a delineare con tratti vividi, quasi impressionistici, eppure netti e decisi. Nessuno è innocente e la cornice ambientale lo sottolinea senza pietà perché è la brutale decadenza del paesaggio, il suo sfruttamento, così come quello degli uomini e delle donne, ovvero del loro lavoro, l’origine ultima della malefica Ruggine americana. E’ il degrado delle macerie e di quelle rovine polverose e ingombranti a ricordare che “nessuna impresa dell’umanità, nemmeno la peggiore espressione della natura umana sarebbe durata al punto da lasciare il segno, bastava guardare un fiume o una montagna per capirlo: hai voglia a inquinare, ad abbattere foreste, loro guarivano sempre, perfino gli alberi durano più di noi, le pietre sarebbero sopravvissute alla fine del mondo. A volte te lo scordi, cominci a prendere sul personale le brutture umane. Ma neanche quelle durano per sempre”. Proprio per questo il paesaggio diventa l’espressione di un’identità perché come scriveva Simon Shama in Paesaggio e memoria, “siamo abituati a pensare natura e percezione umana a due regni distinti; in realtà sono inscindibili. Prima di essere riposo dei sensi, il paesaggio è opera della mente. Un panorama è formato da stratificazioni della memoria almeno quanto da sedimentazioni di rocce”. Quando la Ruggine americana comincia a intaccare il tessuto connettivo delle famiglie, delle comunità, rivelando la disperazione di una lunga teoria di small town senza lavoro, le deviazioni dell’economia, diventano evidenti così come le cadute verticali di valori (per esempio, la mancanza di ossigeno nella produzione dell’acciaio, come nell’aria che si respira tutti i giorni) rendono sempre più labili i contorni della legalità. Tutti quelli che restano hanno un’arma (e sono pronti a usarla), non solo lo sceriffo e l’alternativa della fuga è solo l’ultimo disperato tentativo davanti alla delusione che traspare dalle forme distorte di immense strutture metalliche ormai inutili e testimoni del fatto inevitabile che “ci evolviamo da un milione di anni, per gustarci una giornata di sole”. La tragedia della Ruggine americana è la stessa di Io sono Red Baker di Robert Ward: un dramma blue collar, ancora e sempre attualissimo, a cui Philipp Meyer riesce a dare il senso compiuto di un (grande) romanzo cogliendo il vero dilemma di un infinito fallimento: “Era la vita. Era paragonare le idee alla vita vera, il paragone non reggeva, erano parole contro sangue”. Educazione civica.

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