martedì 15 aprile 2014

Philipp Meyer

Questa è l’America e Il figlio ha il coraggio di dirlo senza patemi, con grande chiarezza e uno stile che avvinghia il lettore dall’inizio alla fine. Con Philipp Meyer, la costruzione di una nazione attraverso la distruzione di una famiglia: la trama di questo splendido romanzo è tutta condensata nello sviluppo di un’idea di America molto realistica, molto concreta, molto poco diffusa e che invece scoperchia quei pozzi nelle cui profondità sono nascoste alcune ineluttabili verità. Scomode, senza dubbio: Il figlio si annoda e si scioglie proprio come una treccia attraverso l’alternarsi del racconto dei tre protagonisti della famiglia McCullough, lungo il border tra il Texas e il Messico. Ne arriverà un quarto, alla fine, ma questo sta al lettore scoprirlo. Il capostipite è Eli McCullough: rapito dai Comanche dopo che gli hanno massacrato la famiglia, vivrà con loro gran parte della sua vita. Già in questa fase Il figlio sfata il mito del buon selvaggio e dell’uomo bianco crudele (che pure ci sta) perché prende forma una sorta di spietata democrazia quando “il sangue che scorreva nella storia poteva rimpiere tutti i fiumi e gli oceani, ma nonostante quell’ecatombe, tu eri lì”. Eli (o Tiehteti nella lingua Comanche) diventerà poi un ranger, quando la sua tribù verrà sterminata dal vaiolo, e infine un petroliere. Non riuscirà a tramandare al figlio Peter, ancora legato all’agricoltura e all’allevamento, lo stesso spirito avventuroso e aggressivo, destinato piuttosto alla nipote prediletta Jeanne Anne. Sono loro due gli altri protagonisti attorno ai quali ruota lo sfruttamento indiscriminato della terra, e delle sue risorse, così come quello degli esseri umani (in particolare degli immigrati messicani) che è alla radice della formazione americana. Philipp Meyer lo concentra in una frase laconica, che condensa tutto Il figlio in due righe: “Diventeremo padroni di tutto. All’infuori, ovviamente, di noi stessi”. E’ proprio per questo che, per seguire la saga della famiglia McCullough, più che un albero genealogico, serve una mappa. Bisogna districarsi nel significato estremo della frontiera, che è il confine, è il border ed è un mondo e un nemico diverso da scoprire ogni volta. Ad ammettere il senso ultimo del limite, implicito nel confine, reale o immaginario che sia, è Jonas, figlio di Eli e fratello di Peter, che osserva con disincanto il mito dell’America: “Non so che fine farà questo posto, ma al momento non ne vedo i vantaggi. Non è abbastanza popolato per avere una cultura, ma nemmeno così selvaggio da essere interessante. E’ solo una provincia”. Lo dice di ritorno dall’Europa devastata da quella seconda guerra mondiale che è stata la fortuna economica e industriale dell’America e dei McCullough, ma anche una maledizione infinita. Con Il figlio, Philipp Meyer ha il dono di riuscire ad allineare due secoli di storia spesso crudeli, sempre contraddittori, senza timori reverenziali, senza esitazioni trasformandoli in un romanzo che, nella sua semplicità e con le sue imperfezioni, si avvicina parecchio a un’idea edificante di letteratura.

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