venerdì 14 marzo 2014

Robert Ward

Quando la Larmer Steel, alla fine del 1983, chiude i battenti, gli operai tornano a bere nei bar di Baltimora con la certezza che tutto un mondo è finito. Il lavoro in acciaieria è duro, faticoso e pericoloso e per arrivare alla fine della giornata Red Baker, Dog Donahue e gli altri compagni di sventura hanno sviluppato un rete di sicurezza tessuta di orgoglio e amicizia. Anche quella viene travolta e con Io sono Red Baker Robert Ward rispolvera i drammi umani seguiti alle politiche economiche dei governi Reagan e delle guerre commerciali con il Giappone. Questo è solo il punto di partenza, il prologo della storia, l’inizio di un tuffo nella vita a livello zero dove alla dolorosa routine quotidiana si sostituiscono sogni improbabili, che presuppongono quasi sempre la fuga che è un altro modo per evitare la realtà. L’ombra della fabbrica chiusa è un peso insostenibile per la dignità di chi ci ha vissuto per anni e le spinte di una società competitiva fino all’ossessione rendono la tensione palpabile. Anche i comportamenti più resistenti e costruttivi come quelli di Wanda, la moglie di Red Baker, sembrano inutili nella marea di disperazione che attanaglia un'intera città. La condizione di estrema precarietà crea un’atmosfera cupa, senza alternativa. I legami, le amicizie, i matrimoni diventano scomodi, ingombranti, asfissianti perché, come dice Red Baker, “vuoi qualcuno che ti conosca, per condividere ogni tuo segreto, qualcuno con cui condividere la tua solitudine e poi, dopo che questo succede, ti senti completamente vuoto e privato di tutto. Ti rubano i segreti, conoscono le paure nascoste dietro i tuoi modi. Sei ridotto all’osso”. Robert Ward riprende la lingua grezza, popolare, incolta e naturale: gergo da strada, da bar, da birra e whiskey, intriso dalla malinconia delle canzoni country & western e dall’urlo incondizionato di Satisfaction. Senza tanti aggiustamenti la trasforma in una scrittura che è livida, sgraziata, grezza e comunque molto solida e concreta nel raccontare la disperazione e il disorientamento blue collar. Tra una fila all’ufficio di collocamento e una rissa, una sbronza e una crisi famigliare, le solitudini di Red Baker e Dog Donahue si rincorrono nell’inverno di Baltimora: anche se l’umanità è la stessa, il quadro degli outsider di Robert Ward è molto meno edificante delle ballate springsteeniane (la seconda parte di The River e Nebraska in modo particolare) che l’hanno ispirato. Tra tutte, è quel verso di Atlantic City che dice “ora sto cercando un lavoro, ma è difficile trovarne, qui ci sono solo vincitori e perdenti e non bisogna restare intrappolati nella parte sbagliata della linea” a collimare con la storia di Red Baker. Il dramma, tanto inevitabile quanto realistico, è dietro l’angolo e anche se il finale, che arriva un po’ come un epilogo, è fortunoso, lascia in sospeso ancora molti dubbi irrisolti ed è attraversato dalle ombre dell’acciaieria ormai muta e immobile come una città popolata da fantasmi. Un libro scomodo e necessario.

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