mercoledì 26 febbraio 2014

Ring Lardner

Alla fine della prima guerra mondiale, le sorelle Ella e Kate ricevono in eredità dal padre una cospicua rendita e dal Michigan decidono di partire alla scoperta di New York. Il primo obiettivo dichiarato del trasferimento è trovare un buon partito a Kate, visto che Ella è già sposata a Finch, riluttante accompagnatore e narratore a cui Ring Lardner mette a disposizione una voce frizzante, arguta e, non di rado, sarcastica. Il tono non è casuale: La grande mela accoglie i nuovi ospiti con lo stesso entusiasmo con cui affronta una nuova giornata, giusto un pizzico di indifferenza. Finch se ne accorge fin dal primo impatto, all’arrivo, quando commenta “un formale benvenuto dalla Big Town” così, con una punta di acidità: “Il personale alberghiero di New York sembra sempre che abbia perso qualcosa visto che non stacca mai gli occhi dal pavimento”. Lo strambo trio si adegua in fretta e comincia girovagare nei meandri della città, senza meta, conducendo una vita sull’orlo della noia. La grande mela è prodiga di tentazioni: dalle orchestre agli spettacoli delle Ziegfeld Follies, dal whiskey di segale alle cene à la carte, dai balli ai cocktail, solo che nessun incontro riesce a suscitare un minimo di entusiasmo o di calore perché sembra che tutti “non hanno da dirsi niente che si potrebbe chiamare novità”. In effetti La grande mela è avvolta in un’aria decadente, la stessa vacua frenesia del grande Gatsby: tutto sembra già vecchio, persino il jazz, che allora doveva essere la next big thing, viene risolto da musicisti che tendono al massacro, almeno secondo l’opinione di Finch. In quel particolare frangente scovare uno sposo per Kate, colto, bello, elegante e, neanche a dirlo, solvente, è una missione dai contorni imprevedibili. I rendez-vous, visto che vivono di rendita e assecondano La grande mela in tutte le possibili digressioni, si susseguono tra un drink e l’altro (Finch ha un atteggiamento “liberale” nei confronti dell’alcol) e in questo La grande mela di Ring Lardner non è molto dissimile dagli spettacoli di vaudeville in voga all’epoca. Una carrellata di personaggi bizzarri, eccentrici, volubili ed estatici che, di volta in volta, si chiamano Griffin, Daley, Codd. Gli improbabili pretendenti sono appariscenti, hanno tutti una scommessa: a Wall Street, all’ippodromo o, per Dodd, il più coraggioso, con il prototipo di un aereo. Facile immaginare come andrà a finire (e non solo per il pilota): La grande mela non fa sconti, gli avventurieri svaniscono e alla fine la constatazione di Finch ha un’amarezza che suona quasi come un presagio, di quello che succederà a New York e in America da lì a qualche anno: “Tutto quello che ho potuto fare, è questa osservazione: non vedo come andremo a finire, specie in vista di un bilancio di verifica”. E’ la proprietà ultima della scrittura di Ring Lardner alias Abe North, secondo Francis Scott Fitzgerald: pur essendo leggero, friabile, vaporoso, frou frou, La grande mela spicca impietoso e impeccabile nel ricostruire il crepuscolo di un’intera società. 

lunedì 24 febbraio 2014

Cynthia Ozick

Nel tormentato rapporto di Cynthia Ozick con la scrittura, i racconti raccolti in Il rabbino pagano rappresentano un momento convinto e ispirato in cui è riuscita a sciogliere i nodi di un modello esigente e rigoroso con una visione coraggiosa e spigolosa. Da una parte, lo stile è raffinato, levigato fino all’ossessione. In uno scambio di battute di Virilità c’è tutta l’arguzia, e forse anche la sintesi, del suo modo di accostarsi alla lingua e ai suoi funambolismi. Dice Margaret, una delle protagoniste di Virilità: “Non si parla delle deformità”. “A meno che non si presentino in forma di poesia”, è la risposta che ottiene dalla stessa narratrice. Il rabbino pagano elenca una giusta selezione di una mezza dozzina di ipotesi di quella che Cynthia Ozick definisce “una dimensione ironica nello sguardo sugli esseri umani e le loro finzioni”. E’ così che intende la sua scrittura, associando leggende e realtà, con un tono che varia da racconto a racconto, anche se l’intenzione comune a tutti è “esplorare il lato più incline alla comprensione”, pur utilizzando sia gli elementi fantastici e leggendari di Il rabbino pagano e La strega dei docks sia quelli più concreti di La valigia e La moglie del dottore.  Ancora di più, è evidente, quando racconta l’esilio, ancora in Virilità: “E’ dura la vita e desolata in questo paese d’esilio: noi che vi abitiamo (i sopravvissuti, sarebbe meglio chiamarci, noi dell’undicesimo decennio) siamo così pochi, così mutilati, così poco affidabili riguardo alla cronologia recente e così in disaccordo con le vostre idee di grandezza, che di fatto tendiamo ad avere una mentalità distinta, e secondo logica ci spetterebbe una bandiera”. Una condizione che ispira la Gerusalemme descritta in La farfalla e il semaforo come “fenice tra le città”, che “ha una storia di storie”. Una possibile risposta si trova nel racconto centrale della raccolta, Invidia, ovvero lo yiddish in America, perché “dopo tutto c’era una ragione per vivere la vita che vivevano: altrove era peggio”. Anche in questa specifica occasione, Cynthia Ozick non rinuncia, proprio tra le pieghe di Invidia, ovvero lo yiddish in America, alla sua sottile e perfida vena autoironica: “Lo so che mi date della scribacchina, e mi va anche bene, sono quello che lei pensa, immaginazione zero, talento più no che sì (anch’io ai tempi volevo fare il poeta, ma questa è un’altra vita)”. Persino nelle sue divagazioni, tutto meno che casuali, Cynthia Ozick impone una particolare sensibilità  nell’accostarsi alle pagine, forte anche della sensazione che “oggi sono le stelle a decidere della fama, ai nostri tempi eravamo noi, ed eravamo noi a decretare le nostre stelle”. Il rabbino pagano è l’espressione migliore di quell’esigenza singolare, che parte dalla scrupolosa attenzione alla coerenza dei mondi letterari per arriva a una destinazione forse più ambiziosa, forse più realistica, come diceva la stessa Cynthia Ozick, “acquisire una visione partecipe nei confronti della vita, perché so che, come lettrice, non voglio leggere quello che scrivo”. 

giovedì 20 febbraio 2014

James Baldwin

Harlem, 1930: nel ghetto l’intreccio delle vite è prepotente, un senso permanente di minaccia gonfia l’aria, ognuno ha una sua preghiera per arrivare alla fine del giorno e per superare la notte, per resistere all’inferno in terra e sperare nel paradiso in cielo e così “gli uomini hanno parlato di come il cuore si spezza, ma non hanno mai parlato di come l’anima resta sospesa, muta, nella pausa, nel vuoto terrificante tra la vita e la morte; di come, strappati e gettati via tutti gli abiti, l’anima entra nuda nella bocca dell’inferno. Una volta entrati non si esce più: una volta dentro, l’anima si ricorda, anche se il cuore qualche volta dimentica. Perché il mondo si rivolge al cuore, che balbettando risponde; la vita, e l’amore, i piaceri e, più falsamente, la speranza, chiamano l’immemore cuore dell’uomo. Solo l’anima, ossessionata dal cammino percorso e da quello ancora da percorrere, persegue il suo misterioso e terribile fine; e trascina con sé il cuore, gonfio di pianto e di amarezza”. Nel campionamento umano di Gridalo forte finiscono due coppie di fratelli, due matrimoni, due donne, tutti incastrati in un oscuro triangolo perché c’è qualcosa di geometrico nei modi con cui tutti cercando di nascondere le proprie ombre o, infine, di rivelarle. La capacità di James Baldwin di interpretare la distanza minima tra bene e male, quasi di visualizzarne la percezione, è il cuore ricco, denso, fluttuante di Gridalo forte e la forza dei suoi protagonisti lo rende un classico. Gabriel, il predicatore che nasconde i suoi demoni in omelie spiritate e contorte e poi ricorda che “fuggiva nella notte stellata e camminava finché arrivava a una taverna, o a una casa che aveva già adocchiato nella lunga giornata della sua libidine. E lì beveva finché sentiva dei martelli risuonare nella sua testa annebbiata; malediceva gli amici e i nemici, e faceva a botte finché non scorreva il sangue; la mattina si ritrovava nel fango, nella terra, in letti sconosciuti, e una o due volte in prigione; con la bocca impastata, i vestiti stracciati, emanando da tutto se stesso il fetore della corruzione. Allora non riusciva nemmeno a piangere. Nemmeno a pregare. Desiderava quasi la morte, l’unica cosa che potesse liberarlo dalla crudeltà delle sue catene”. I sermoni non bastano a mascherare la verità perché “essere un predicatore non ha mai impedito a nessun negro di fare le sue porcherie”. Questo lo dice la sorella Florence, già sposata a Frank, che beve, canta i blues e muore in Francia, dove la guerra non ascolta né i canti né le preghiere. Con Florence ci sono Deborah, Elisabeth, Esther e James Baldwin trova la svolta giusta, anche all’interno di una condizione drammatica, di spiegare che “su tutte le donne pesava, fin dalla culla, una maledizione; in un modo o nell’altro, tutte vittime dello stesso crudele destino: essere nate per sopportare il peso degli uomini”. Dei padri e dei figli che qui hanno il nome di Roy, Elisha e John (soprattutto), l’unico che, non senza dolore, saprà distinguere la realtà del peccato dalle sue evocazioni. Rivelatorio.

martedì 11 febbraio 2014

John Steinbeck

Quello di Tom Joad è un fantasma che si ripresenta più e attuale e spettrale che mai. Il viaggio della sua famiglia su una strada che è viva, senza fine e brulicante di migranti, un nuovo popolo in cerca di una terra promessa, un’inedita specie americana, evoca il giorno in cui “gli eserciti dell’amarezza andranno tutti nella stessa direzione. E marceranno tutti insieme, e spargeranno un terrore di morte”. Il tenore apocalittico è il senso primo e ultimo di Furore perché “la gente è il posto dove vive” e quando la meccanizzazione dell’agricoltura attraverso le colture intensive e quelle pratiche economiche che rendono mostri i trattori e le banche i Joad rimangono devastati vedendo che “la terra partoriva sotto il ferro, e sotto il ferro a poco a poco moriva, perché non era stata amata né odiata, non aveva attratto preghiere né maledizioni”. L’illusione di essersi lasciati alle spalle una ferita vasta quanto una nazione è un miraggio e dura lo spazio di un niente: la polvere è ovunque e ai Joad non resta che chiedersi “come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato?”, e sono queste le domande che hanno trasformato Furore in un classico. Duro, estremo, non riconciliato, unico tanto da sollecitare l’inequivocabile sentenza di Tom Wolfe: “La grande letteratura americana è finita con John Steinbeck. Dopo di lui, il diluvio. Solo autori molli, contagiati dalla malattia perniciosa del romanzo francese: nessuno che abbia più raccontato una storia sporcandosi le mani con la realtà”. Su questo si può anche essere in disaccordo, ma, come puro e semplice narratore, Steinbeck è incredibile: per dire, dopo un capitolo passato a decantare l’amore per le automobili (usate, peraltro) lascia Tom Joad in mezzo a un sentiero desertico. E’ quella la forza di un’amarezza che Furore non stempera mai: l’odissea della famiglia Joad procede su strade che dovrebbero portare in California e invece si inerpicano nel mezzo del nulla. Furore aveva e ha ancora un’energia infinita nelle descrizioni, nel racconto della Route 66, un’ossessione micidiale nell’inquadrare lo spirito di un tempo sfuggente, di tutti i tempi, di sempre e John Steinbeck è stato soltanto straordinario a evidenziarne, quasi con precisione fotografica, i dettagli perché siamo “la rabbia di un momento, le mille immagini”, e poco altro. Una di queste, appare subito nelle prime pagine e rimane scolpita dalle parole: “Venne l’alba, ma senza giorno”. C’è l’intero Furore in una frase, anche se poi John Steinbeck sguscia fuori dalla pelle dello scrittore e alza la voce con un tono che è soltanto profetico: “Se riusciste a capire questo, voi che possedete le cose che il popolo deve avere, potreste salvarvi. Se riusciste a separare le cause dagli effetti, se riusciste a capire che Paine, Marx, Jefferson e Lenin erano effetti, non cause, potreste sopravvivere. Ma questo non potete capirlo. Perché il fatto di possedere vi congela per sempre in io, e vi separa per sempre dal noi”. Imprescindibile. 

venerdì 7 febbraio 2014

Erskine Caldwell

Dalle sue origini, che risalgono alla rivoluzione americana, e fino all’inizio della seconda guerra mondiale, il linciaggio non è mai stato l’imprevedibile frutto di una follia collettiva. Quello è l’effetto. La causa  è l’applicazione cinica e brutale di una spietata forma di controllo sociale, distribuita con i termini di un’ingiustizia casuale, e per quello più terrificante, destinata a generare un clima di quotidiana apprensione. Un modo per disseminare incertezza e paura, sempre utili a mantenere lo status quo, e così come serviva alle truppe coloniali dell'impero è servito ai proprietari terrieri e ai governanti che godevano del regime della schiavitù e della segregazione. Fermento di luglio di Erskine Caldwell, che risale al 1940, è un romanzo che nella sua brevità sfrutta un meccanismo narrativo perfetto per rendere trasparente, chiara, inequivocabile una realtà tragica e oscura come la pratica del linciaggio. Con una precisione stilistica che è pari all’analisi storica, politica, per non dire umana. Siamo in Georgia, i campi di cotone sono un oceano da cui non si può fuggire. Jeff McCurtain è uno sceriffo che amministra la legge in nome del popolo sovrano, e che alle prime avvisaglie di un linciaggio prende la sua canna da pesca, sempre pronta all’uso, e si trasferisce sul torrente per giorni e giorni. Fa sempre così, per l’occasione. Provare a fermare un linciaggio è un rischio politico non calcolabile e non necessario e dato che la sua è una carica elettiva, la pesca alla trota in America è pur sempre un bel ripiego. La contea di Andrewjones è da sempre a maggioranza democratica, ma “quando si tratta di votare, la gente è mutevole come il vento del sud a novembre” e lo sceriffo ci tiene alla sua stella che coincide con la sua casa, visto che abita nei locali sopra gli uffici e la prigione. In quel Fermento di luglio, quando lo tirano giù dal letto per dirgli che è partita la caccia, Jeff McCurtain perde quell’attimo fuggente che gli permette di sparire e quindi di non interferire con il linciaggio, visto che in fondo l’amministrazione della giustizia toccherebbe a lui. In un crescendo inarrestabile e travolgente, si scopre fin dall’inizio che Sonny Clark, il fuggitivo (afroamericano, se bisogna specificarlo) è a sua volta vittima di una macchinazione ispirata da Narcissa Calhoun, una vedova che “girava per la contea raccogliendo firme per una petizione nella quale chiedeva di rispedire tutti i negri in Africa”. Il clima torrido e contorto del Fermento di luglio coincide con un’atmosfera arida e senz’aria eppure Erskine Caldwell non si lascia prendere la mano dalla pietà o dall’indignazione per il vigliacco opportunismo di Jeff McCurtain o del giudice Ben Allen. Frase dopo frase identifica i personaggi (tutti memorabili) e gli spazi in cui si muovono e focalizza e denuncia in modo inequivocabile un contesto in cui il linciaggio è solo una piccola, rozza e atroce leva di un meccanismo molto più antico ed elaborato. Un monito, più che un (perfetto) romanzo.

sabato 1 febbraio 2014

Russell Banks

Bob Dubois ha un’innata predisposizione da loser: non c’è una mossa sbagliata che non riesce a evitare per arroganza, per incapacità, per frustrazione, perché segue più il suo uccello del suo cervello. Aggiusta caldaie nel New Hampshire fino a quando non trascina la moglie e la famiglia in Florida, dal fratello Eddie, in cerca di una versione più scintillante del sogno americano. In realtà Bob Dubois fugge dal gelo, dalla monotonia della provincia, dove “niente sembra migliore rispetto a ieri”, dai suoi piccoli sotterfugi. Non può scappare da se stesso e la sua vita è proprio una ben misera Atlantide, destinata ad essere spazzata via dagli eventi, “così lontano dalle cose vere” perché sempre votata ad altre soluzioni: ipotetiche, fantastiche, un tiro di dadi, un colpo di fortuna. Vanise Dorsinville (con il figlio e un nipote) invece si è lascia alle spalle Haiti, spinta dal naturale e spontaneo istinto per la sopravvivenza. La deriva dei continenti è un’anomala ellisse in cui Bob Dubois e Vanise Dorsinville sono i fuochi: attorno a loro si sviluppa un coro tragico dove nessuno è innocente e tutti hanno qualcosa da nascondere. Quando Bob Dubois assume l’incarico di guidare una barca per recuperare i migranti di Haiti, la distanza tra i due fuochi si azzera e l’ellisse si schianta con una violenza inaudita. La deriva dei continenti di Russell Banks si incrocia nell’incognita dell’oceano Atlantico, dove le rotte delle migrazioni di Bob Dubois (per noia e per assuefazione) e Vanise (per fame e per disperazione) si intersecano in un destino fatale. Ci vogliono le parole del Nobel dei Caraibi, Derek Walcott, per capire il senso e il peso del dramma: “Certe cose non le scegliamo noi, ma siamo quello che abbiamo fatto. Soffriamo, gli anni passano, lasciamo tante cose per via, fuorché il bisogno di fardelli. L’amore è una pietra che si è posata sul fondo del mare sotto acqua grigia”. La rappresentazione poetica racchiude in poche righe tutta La deriva dei continenti: quando due disperazioni si incrociano, la tragedia è inevitabile e Bob Dubois trova la sua nemesi, spietata, senza appello. Anche nel suo florilegio stilistico, Russell Banks non concede nulla ai protagonisti del suo portentoso affresco “perché hanno fatto una cosa tremenda e spaventosa: hanno barattato una vita per un’altra e questa nuova vita è adesso l’unica che hanno”. Le rotte tracciano due punti di domanda che si riflettono e s’intrecciano e che nelle loro scie si portano dietro miti, leggende e costruzioni. Per Bob Dubois sono tutti gli orpelli americani, la birra, le sigarette, la televisione, i conti da pagare. A Vanise Dorsinville basta il voodoo, ”lunghi richiami tremanti, vecchi quanto il desiderio della specie umana di segnalare la propria presenza, vecchi quanto la solitudine e la paura”. In mezzo c’è l’oceano, la notte, l’oscurità, un’odissea nelle tenebre in cui le due metà collidono senza incontrarsi: La deriva dei continenti e quella degli esseri umani è proprio così. Un capolavoro, con l’aggiunta di un titolo perfetto.