martedì 30 luglio 2013

Philip Roth

Di tutti gli alter ego di Philip Roth, David Kepesh è il più sincero, istintivo, leggero. In una parola simpatico: è un professore universitario che si innamora di una sua studentessa, di origini cubane, la splendida Consuela Castillo e nella loro storia, nelle loro vite, amore, sesso e morte s’intrecciano e si attorcigliano svelandone tutta la fragilità perché “tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati”. Fin qui, è il Philip Roth ormai classico, che insiste con assoluta convinzione sui temi che gli sono propri, a partire dal sesso. Un argomento che ha già trattato nel dettaglio, sia rispetto a tutte le possibili e immaginabili variazioni (Il teatro di Sabbath), sia a legami che i luoghi comuni considererebbero sconvenienti (La macchia umana) e che con L’animale morente sembra trovare una sua definizione: “L’arte francese del corteggiamento non m’interessa. L’impulso selvaggio, sì. No, questa non è seduzione. Questa è una commedia. E’ la commedia che si recita per creare un collegamento che non è il collegamento, che non può competere con il collegamento, creato spontaneamente dalla lussuria Questo è un istantaneo richiamarsi alle convenzioni, un darci subito qualcosa in comune, il tentativo di trasformare la lussuria in qualcosa di socialmente conveniente. Ma è proprio la radicale sconvenienza che fa della lussuria la lussuria. No, questo si limita a tracciare la rotta, non in avanti ma indietro, verso l’impulso primordiale. Non confondiamo la dissimulazione con il problema sul tappeto”. L’animale morente ha poi avuto, in prospettiva, il compito di inaugurare e in un certo senso di sublimare la lunga dedizione di Philip Roth al crepuscolo del corpo, e qui a proposito scrive alcune pagine davvero magnifiche, che in fondo possono essere condensate nelle poche righe in cui dice che tutto è “il passare del tempo. Ci siamo dentro, affondiamo nel tempo, fino al giorno in cui anneghiamo e ce ne andiamo”. Il legame tra David Kepesh e Consuela Castillo diventa l’elemento in cui non soltanto si riflette L’animale morente, ma anche  il senso ultimo della visione di Philip Roth: “Deduzione e controdeduzione: è di questo che è fatta la storia. O uno impone le sue idee o se le vedrà imporre. Volenti o nolenti, questa è la situazione. Ci sono sempre delle forze contrapposte, e così, se non si ha una sfrenata passione per la subordinazione, si è sempre in guerra”. Quasi riprendendo i temi conflittuali di Pastorale americana, s’inventa, nel bel mezzo della storia, una disgressione sugli ideali, sulle follie cercando, insieme ai suoi personaggi, di “osservare in che modo si liberavano della buona educazione e scoprivano la propria volgarità, ascoltare la loro musica, fumare insieme a loro e ascoltare Janis Joplin, la loro Bessie Smith con la pelle bianca, la loro urlatrice, la loro squallida e strafatta Judy Garland, ascoltare insieme a loro Jimi Hendrix, il loro Charlie Parker della chitarra, farsi con loro e sentire Hendrix che suonava la chitarra a rovescio, capovolgendo ogni cosa”. Molto più di una rivoluzione.

domenica 28 luglio 2013

David Foster Wallace

L’intervista di Ostap Karmodi comincia partendo da questioni tanto cruciali quanto indefinite ed è affascinate notare la progressione esponenziale con cui David Foster Wallace cerca di riportarla nel suo alveo naturale, quello della letteratura e della narrativa in particolare. Non che gli manchino gli argomenti alle legittime sollecitazioni di Ostap Karmodi. Siamo nel 2006 e DFW, come tutti, brancola nel buio: “Come andranno le cose? Non lo so. E una delle ragioni è che l’America vive tempi molto spaventosi: molti di noi si trovano nella posizione di aver più paura del nostro paese e del nostro governo di quanta non ne abbiamo per i presunti nemici all’estero”. Se non altro, anche negli spazi ristretti di un’intervista riesce a mantenere una certa lucidità: “Tutti i giorni mi imbatto in qualcosa che avevo dato per scontato ma che si rivela falso. Per come vanno le cose in America adesso, posso andare in giro e rendermi conto al di là di ogni dubbio che il più delle volte quello in cui credo fermamente sono tutte cazzate. E rendersene conto è un grosso privilegio. Penso che in tantissimi momenti della storia del mondo e in molte nazioni non ci si affatto la possibilità di realizzare quanto spesso ci si sbagli”. Ostap Karmodi, come era nelle intenzioni prova a mantenere il dialogo sui temi d’attualità e DFW cerca sempre di schivare l’ovvietà, anche se non può esimersi di esprimersi sull’evoluzione di questi anni: “La mia personale opinione è che, siccome la tecnologia e la logica economica sono diventate così sofisticate, oggi è possibile perpetrare crudeltà inimmaginabili due o trecento anni fa. Pertanto, abbiamo l’obbligo morale di tentare con tutte le nostre forze di sviluppare la compassione e la pietà e l’empatia. Il che significa che questi sono tempi davvero difficili per l’America, perché l’elettorato americano è per lo più semplicemente disinteressato a gran parte di queste tematiche”. Piano piano, aggrappandosi a piccole variazioni tra una domanda e l’altra, David Foster Wallace riporta anche il suo interlocutore all’essenza, non senza lasciare prima una nitida impressione di umiltà: “Da profano, penso semplicemente di non avere un’opinione informata sul tema dell’evoluzione morale. Forse è questione del numero di variabili e quindi il fatto che sia irrisolvibile dipende dal genere di modello che vuoi usare per misurarle. E’ una domanda affascinante, ne convengo. Non penso nemmeno di avere un’opinione su questo. Ho solo una serie di paure diverse”. Appena può, subito dopo, rimette la barra dell’intervista sulle coordinate che più ama: Čechov, Puškin, Tolstoj, Dostoevskij, ma anche Viktor Pelevin, Jacques Derrida o Henry James perché, dice lo stesso DFW “tendo a pensare alla narrativa come qualcosa di composto soprattuto da personaggi, esseri umani e una specie di esperienza interiore”. Dal suo volentoroso ospite si congeda con una sorta di inchino: “quello che scrivo è così americano e così idiomatico”, ed è così unico, anche in una piccola, sghemba intervista.

lunedì 22 luglio 2013

Ben Fountain

L’halftime è l’infinito intervallo tra i due tempi dei più importanti show sportivi. E’ un tempo di mezzo in cui può succedere di tutto, da un concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band all’annuncio straordinario dell’inizio di una nuova guerra: un modo come un altro per tenere incollati decine e decine di milioni di spettatori televisivi in attesa che ricominci lo spettacolo, piazzando sponsor e stacchi pubblicitari uno dopo l’altro. Per l’halftime del Thanksgiving in un imprecisato anno dal 2003 in poi, oltre allo show delle Destiny’s Child, è prevista l’apparizione della squadra Bravo o di ciò che ne rimane: una sparuta pattuglia di soldati americani che qualche giorno prima è stata protagonista di uno scontro a fuoco, finito in modo fortuito su tutte le reti televisive. Li chiamano eroi e sono soltanto ragazzi, non hanno nemmeno vent’anni, che vengono catapultati dal sangue e dalla polvere dell’Iraq alle luminarie e agli ologrammi, all’eccitazione e all’illusione collettiva dell’halftime che non sono meno devastanti. La squadra Bravo è un totem, deve diventare un film, sarà un affare per tutti, una perfetta storia americana. Qualcosa non funziona come dovrebbe, c’è un eccesso di falsità nell’aria, un po’ troppo anche per un momento costruito dettaglio dopo dettaglio come l’halftime e il primo ad accorgersene è proprio Billy Lynn quando dice che “è molto meglio starsene laggiù a sparare e a far saltare in aria le cose piuttosto che gironzolare come comparse in una pessima sitcom”. La lapidaria constatazione è solo la miccia che sottolinea una tensione costante, a tratti insopportabile tanto è tagliente. Ben Fountain usa il ritmo frenetico della scrittura per riprodurre con una certa fedeltà l’iperattività, i luoghi comuni e l’atmosfera complessiva dell’America in guerra dopo l’11 settembre (2001). Se l’halftime appare surreale nel romanzo è perché anche “l’assurdo è il nuovo normale”, per quando non sia del tutto agevole trovare un senso alla definizione di “normale”. La costante generazione di mondi paralleli, la confusione esponenziale dei valori il cui senso è stato consumato dall’infinita ripetizione, la sovrapposizione della guerra e del football, delle decisioni prese a Washington e rappresentate a Hollywood, inglobano i giovani e disorientati soldati nella società dello spettacolo. Solo che dietro le uniformi tirate a lucido, dietro le medaglie e dietro le tonnellate di iprocrisia si nascondono spirali di tenebra e di paranoia, di paura e di noia, di disperazione e di pura e semplice follia. D’altra parte, l’America è “la chiesa di ciò che è”, ed è sempre halftime: lo show non si può fermare e ognuno deve coltivare la solitudine del proprio destino, anche in uno stadio sold out e in diretta televisiva nazionale. Scoppiettante, irriverente, il più delle volte trascinato dalla verve di Ben Fountain, che riesce nell’impresa di rendere la vacuità e l’amarezza che Billy e i suoi compagni di sventura attraversano, è un romanzo scomodo e necessario.

venerdì 19 luglio 2013

A. M. Homes

“E’ stato uno strano, lungo viaggio” scrive A. M. Homes nell’ultima riga utile di Che Dio ci perdoni ed è una definizione che si può condividere con generosità, anche se è una lettura scomoda, spigolosa, tagliente. Eppure scorre, trascinandosci sull’orlo di domande che sono voragini buie. E’ davvero questa la vita all’inizio del ventunesimo secolo? E’ una decadenza infinita con rari e casuali sprazzi di dignità? E’ una dissoluzione mascherata dalle banalità? Che Dio ci perdoni è romanzo teso come una corda di violino, solo che non si spezza mai, emana una melodia stridente che prova a “restituirci l’immagine di quello che siamo”. E’ come se A. M. Homes avesse letto l’opera omnia di Philip Roth la sera e quella di Don DeLillo il giorno dopo (e nel frattempo anche John Cheever, Richard Yates, e Raymond Carver, tutti citati en passant) e poi si sia messa a scrivere Che Dio ci perdoni. E’ un ritratto non edificante, non consolatorio, anche crudele della vita (borghese) nell’America di oggi: George e Harold Silver sono fratelli legati da grande animosità e diventati adulti (produttore televisivo il primo; professore universitario con un’ossessione per Nixon il secondo) devono fronteggiare “un’infinita caduta libera”, travolti da eventi in sospesi tra il drammatico e il surreale. Come un brutto sogno a occhi aperti, prima George rimane coinvolto in un sanguinoso incidente stradale, poi in un raptus omicida uccide la moglie scoperta a letto con Harold e siamo solo all’inizio. George finirà in manicomio, Harold si ritroverà alle prese con i resti della famiglia (in particolare con i nipoti, Nate e Ashley), i rimorsi e i sensi di colpa e una catena infinita imprevisti perché “succedono cose strane quando gli uomini vengono abbandonati a se stessi”. Dio ci perdoni ha anche una sua ripetitività, con ogni probabilità voluta e dichiarata, come se fosse un’acidissima soap opera distinta da un accento continuo di sarcasmo quando tra le tragedie e le commedie il confine va sfumandosi, trasformanolo in un romanzo spietato e, per dirlo con A. M. Homes, “complesso e molto umano, con tutto quel che comporta”. Lo si capisce quando Harold Silver, un personaggio che fa della modernità una sorta di situation comedy confessa: “Quando fa buio sento un brivido di paura. Accendo tutte le luci e la televisione e mi trovo a domandarmi: e ora come mi invento una cena? Vado in cucina, apro e chiudo il frigo e poi torno al divano”. E’ un Ulisse che cerca di ricostruire o almeno tenere insieme quello che gli è rimasto anche se si sente come “che abbia sempre solo volato da passeggero e adesso si trovi a dover fare un atterraggio di fortuna”. Il senso è quello e se c’è una costante irriverente, nel romanzo, è che per un motivo o per l’altro tutti gli offrono soldi (un sacco di soldi), come se non finissero mai e come se fossero la soluzione e in effetti non è proprio quello il problema: è tutto il resto che è un disastro. Americani brava gente: Che Dio ci perdoni è un romanzo complicato perché riflette il tempo in cui viviamo (che è tutto, ma non semplice). 

lunedì 15 luglio 2013

Henry James

La notte del 10 gennaio 1895, l’arcivescovo di Canterbury, Edward White Benson, nella sua residenza di Croydon, racconta una ghost story che Henry James si annota con puntualità sui suoi Taccuini. Trama, ambiente, personaggi sono già delineati in una manciata di righe che conclude così: “E’ tutto vago e incompleto, il quadro, la storia, ma sembra recelare una vena di strano raccapriccio”. Nella decadente tenuta di Bly, in mezzo alla campagna inglese, viene mandata una giovane istitutrice incarica di accudire i piccoli Flora e Miles. La bucolica residenza nasconde i fantasmi della signorina Jessel e del signor Quint che appaiono enigmatici: sono appena ombre dietro una finestra o sulla riva di un lago eppure scatenano un vorticoso maelstrom psicologico. Giro di vite è un micidiale labirinto narrativo, e chissà se è vera la storia dell’arcivescovo, in cui ogni varco si spalanca su un livello più profondo. Henry James lo definiva “un’escursione nel caos pur rimanendo, come Barbablù e Cenerentola, solo un aneddoto, anche se un aneddoto amplificato e altamente accentuato e tornante su se stesso: come, del resto, tornano su se stessi Cenerentola e Barbablù”. Il senso di “un ulteriore giro di vite” è palpabile, pagina dopo pagina, perché sulla residenza di Bly gravano il sospetto, l’angoscia, il dubbio che qualcosa di orrendo sia successo ai due bambini e che non sia ancora finito. Il mistero è proprio in quel Giro di vite impresso alla trama che Henry James ha tessuto con meticolosa genialità: “Rendi la visione generale del male da parte del lettore abbastanza intensa, dissi a me stesso, e questo è già un compito piacevole, e la sua esperienza, la sua fantasia, la sua simpatia (per i bambini) e il suo orrore (dei loro falsi amici) gli forniranno a sufficienza tutti i particolari. Fagli pensare il male, faglielo pensare da sé, e sarai liberato dal peso di deboli specificazioni”. Tenere in considerazione il lettore, come scriveva Henry James nella prefazione di Giro di vite, è già un elemento di rara coerenza a cui fa seguito uno svolgimento in cui lo stile ricerca, con un’ossessiva attenzione, di “rendere denso come una fitta pasta il soggetto della mistificazione della mia giovane america, della mia immaginaria narratrice, e tuttavia mantenerne l’espressione così chiara e fine che ne risultasse bellezza: nessun aspetto della cosa rivive tanto per me quanto quello sforzo”. Ogni dettaglio, ogni singolo gesto, ogni particolari dei racconti che si inanellano l’uno con l’altro, persino “gli oggetti quotidiani della vita”, come li definisce ancora Henry James, tendono ad evocare l’humus da cui gli spettri prendono forma, a partire dalle parole e dai silenzi. Sembra paradossale che la realtà sia il loro habitat ideale e invece ha una sua logica stringente se ci fida di Virginia Woolf quando scrive che i fantasmi “hanno la loro origine in noi” ed è l’autorevole indicazione che porta a comprendere quel senso unico che Giro di vite imbocca dall’incipit fino al finale agghiacciante, emblematico, perfetto.

mercoledì 10 luglio 2013

John Williams

Quando John Williams, all’inizio di Stoner, lascia filtrare l’idea che non c’è “nient’altro”, ovvero che c’è molto poco da raccontare, suggerisce già tutta l’essenza di un personaggio che si muove nella vita come se fosse qualcosa di inevitabile. I costanti e reiterati tentativi di William Stoner di prendere le distanze dal dolore, dalla fatica delle emozioni e dell’ambizione e di rendere la vita un fiume tranquillo, di considerarla normale quando tanto normale non è mai, sono persino commoventi. Figlio poverissimo della terra americana, William Stoner si laurea e trova la sua vocazione per la letteratura tutta nell’alveo dell’università e dell’insegnamento. Nonostante il mondo, fuori, sia nel frattempo travolto da due guerre mondiali, la sua ricerca di un ordine, limitato e monotono finchè si vuole, ma pur sempre un ordine, è tanto insistente quando votata al fallimento. Non si chiamerebbe vita, allora, e l’impossibilità della realtà diventa il vero fulcro di Stoner che prova “perfino a essere felice, di tanto in tanto” anche se è difficile, dovendo combattere ogni giorno con quell’infernale virus che sono gli altri. Tra i protagonisti che irrompono nella routine quotidiana di Stoner, vanno annoverati almeno la moglie, Edith Elaine Boswick, con cui popola un triste matrimonio alias “un lungo armistizio, che aveva tutta l’aria di un punto morto” e il barone universitario Hollis Lomax che lo coinvolge in una ventennale faida e da lì in qualcosa che è solo “una sorta di perenne insoddisfazione”. La coincidenza della biografia di William Stoner con il romanzo è perfetta, un’identificazione totale che è possibile grazie a uno stile asciutto, pulito, preciso nei dettagli fino all’ossessione. E’ evidente che John Williams è uno scrittore di livello superiore, in grado di siglare un classico come è a tutti gli effetti Stoner ed è altrettanto chiaro che il suo rifugiarsi nella lettura e nella scrittura ha qualcosa di famigliare perché la realtà non poi così interessante e perché anche per William Stoner “la serenità tanto agognata andava in mille pezzi appena realizzava quanto poco tempo aveva per leggere tutte quelle cose e imparare quello che doveva sapere”. Non appare casuale che l’unico personaggio con cui sviluppa un minimo di empatia sia Katherine Driscoll, sua amante e appassionata letterata dato che con Stoner “l’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio”. Come scrive Peter Cameron nella sentita postfazione di Stoner, non ultimo svelando il suo vitale paradosso: “Ecco uno dei regali che dobbiamo all’arte: la sensazione che non tutto è perso, che alcune cose restano perfette e inviolabili”. E’ proprio l’anima di Stoner. Essenziale.

venerdì 5 luglio 2013

Patti Smith

E’ interessante il continuo lavoro di ricostruzione del passato, l’utilizzo della scrittura come strumento per riformulare la lettura di una biografia, di una storia, di una vita, la sua in particolare. Il ritorno all’infanzia a fragili increspature dei ricordi, a nodi di legami intrecciati, aggrovigliati in immagini senza cornici è celebrato da Patti Smith assecondando cicli regolari perché è quel momento inafferrabile in cui “vaghiamo nella vita, castoni senza pietra. Finché un giorno non prendiamo una svolta ed eccola lì a terra davanti a noi, una goccia di sangue sfaccettato, più reale di un fantasma, sfolgorante. Se ci muoviamo, rischierà di sparire. Se non agiamo, nulla sarà redento. C’è un modo per risolvere questo piccolo enigma. Dire la propria preghiera. Non importa in che modo. Perché una volta finito si possiederà l’unico gioiello che valga la pena di conservare. L’unica gemma degna di essere regalata”. E’ lei la principale tessitrice di sogni che propaga attraverso una scrittura dalla forma mutevole e impalpabile le suggestioni della memoria e dell’emozione scardinata dal tempo e dalla vita. In prospettiva, comincia tutto con I tessitori di sogni, un piccolo libro che viene dal passato e da un frangente molto delicato dell’esistenza di Patti Smith, coinvolta in una conduzione famigliare difficoltosa, in un primo, timido comeback con Dream Of Life e con il marito Fred Sonic Smith avviato lungo un doloroso crepuscolo (morirà tre anni dopo la prima pubblicazione di I tessitori di sogni). Nei rari momenti di tranquillità, Patti Smith si rifugiava in un angolo incolto e selvaggio del suo giardino per lasciarsi avvicinare dal soffio dell’arte, dell’ispirazione, della bellezza da “una di quelle cose inesplicabili. Perché è una modalità in cui si entra senza aspettative o finalità. Quando, persi nei propri pensieri, si sente un colpetto sulla spalla e ci si ritrova scagliati lontano, in un turbine di polvere, sballottati e frenati di colpo”. Anche se nella rilettura e nella scrittura degli anni successivi quel periodo sarà di volta in volta reinterpretato e circondato da una luce più morbida e sfocata, la sincerità di Patti Smith emerge in queste pagine come “un folle patchwork di verità, di quelle selvagge e caotiche, che non hanno quasi nulla a che fare con la verità”. I suoi piccoli rituali bucolici, il minuscolo taccuino da riempire con “attenzione” e “accortezza” nel tentativo di “catturare qualcosa di lontano e portarlo vicino” si risolvono in un tessuto impressionistico, a tratti criptico, frammentario ed evanescente che però si conclude con una singolare epifania: “Il destino ha voluto che seguissi un cammino molto lontano da quello dei miei antenati, tuttavia i loro costumi sono anche i miei. E nei miei viaggi, quando vedo una collina punteggiata di pecore o un bastone poggiato tra le foglie di castagno, mi sento invadere dal desiderio di essere di nuovo ciò che non sono mai stata”. Un fragile turning point che, da lì in poi, ha segnato la sua vita e la sua percezione in modo indelebile.