giovedì 26 settembre 2013

Jack Kerouac

Scritta nel 1957 e rimasta avvolta nella polvere fino a qualche anno fa, Beat Generation è una commedia che fa onore al suo titolo. E’ sgangherata, eccessiva, divertente, anche se ha una sua solidità nei dialoghi sincopati che a vario titolo prendono forma con Buck, Milo, Tommy, Manuel, Slim, Jule, Vicki, Irwin, Mezz, Cora e Paul. Una carrellata di personaggi che bevono, giocano e più di tutto, come ha sottolineato A. M. Homes, “vogliono sapere come e perché esistono e poi, in una specie di combustione spontanea, alla fine arrivano a scoprire che una risposta non esiste, esistono solo l’attimo in cui ci troviamo e le persone attorno a noi”. Se il tema è in buona sostanza proprio quello, le improvvisazioni deviano spesso e volentieri in sacrosanti voli pindarici fino a quando ci si chiede: “Quante sabbie ci sono, che devono essere tolte dall’oceano Pacifico, ogni volta che versi un milione di galloni di succo della gioia nel vuo dell’intero spazio, e importa davvero qualcosa”. Dalla buca del suggeritore a quel punto della pièce arriva un bisbiglio che dice: “(Beve)”, e non sono previste controindicazioni. Le chiacchiere fluttuano inesorabili almeno quanto i propositi di Jack Kerouac che erano, al solito, fantastici e magniloquenti perché, prima di lasciarsi sfuggire Beat Generation in un angolo, e di imbarcarsi in altre mirabolanti avventure, proclamava: “Quello che voglio è rifare il teatro e il cinema in America, imprimere un moto spontaneo, rimuovere i concetti imposti di situazione e lasciare che la gente vada a ruota libera come fa nella vita reale. Ecco che cos’è questa commedia: non c’è una particolare storia, non c’è un particolare significato, c’è solo il modo di essere delle persone. Ogni cosa che scrivo è scritta immaginando me stesso come un angelo che fa ritorno sulla terra e, tristemente, la vede com’è”. La direzione intrapresa è suggestiva ed è la lettura di A. M. Homes  a renderla esplicita: “A differenza di quei reduci della seconda guerra mondiale che, dopo essere tornati a casa, si erano sposati e trasferiti nei sobborghi, abbandonandosi completamente al sogno americano e alla cultura rampante del di più e di più, allargando a dismisura il loro stile di vita, la vita beat veniva vissuta ai margini. I beat avevano poco da perdere e non molto in basso da cadere”. E’ un’annotazione interessante perché riporta la Beat Generation alle sue radici blue collar: la “guerriglia linguistica” di Jack Kerouac nasce dai bassifondi ed è per questo che, come dice A. M. Homes, “Beat Generation è un dono, una caramella trovata sotto i cuscini di un divano. Per quelli di noi che di Kerouac non ne hanno mai abbastanza, ecco qualcosa in più”. Anche se non è molto, con “tutta questa mediocrità che è entrata nella nostra vita negli ultimi tempi”, può sempre servire a guagnarsi il “permesso di esistere”. Un piccolo dettaglio scenografico. Alla fine c’è un flauto che suona. Lo immagino un po’ stridente e il profilo del jazzista nell’ombra è quello di Roland Kirk.

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