domenica 25 agosto 2013

Stephen King

Devin Jones è stato lasciato dal suo primo amore (insopportabile) e per ovviare all’ossessivo pensiero dell’abbandono decide di trascorrere un’estate a lavorare in un parco di attrazioni nella Carolina del Sud. Una volta entrato a Joyland verrà chiamato Jonesy e la sua specialità sarà impersonare Howie, il cane che è la mascotte del luna-park, indossando un costume che è una tortura. Oltre a una nutrita schiera di pittoreschi personaggi, Joyland è abitato dal fantasma di Linda Gray, uccisa e abbandonata della galleria degli orrori, ed è l’unico elemento fantastico della storia. Stephen King ha una leggerezza tutta sua quando si avvicenda dal danse macabre e si possono perdonare le ripetizioni, qualche caduta di tono, una cerca meccanicità perché Joyland si sviluppa “proprio come una canzone” o meglio attingendo a un immaginario speciale, che meriterebbe un saggio a parte. Big Joe Turner e Johnny Otis suonano o hanno suonato nell’auditorium di Joyland, Madame Fortuna o Rozz o Rozzie (i nomi variano con l’umore e le interpretazioni) cita Good Vibrations dei Beach Boys, poi vengono richiamati all’appello in un modo o nell’altro Jimi Hendrix, John Lennon, gli Hollies, i Beatles e gli Stones. In una ghost story non potevano mancare (e si rivelano fondamentali) i fantasmi più rilevanti della storia del rock’n’roll, la voce di Jim Morrison nei Doors ed Elvis che all’epoca di Joyland (siamo nel 1973) non ancora lo spettro più famoso d’America. A proposito di canzoni: la prima che viene citata è Stay With Me dei Faces ed è la chiave per entrare nella storia: per inciso, i Faces avevano un catalogo inarrivabile di pop song suonato con tutta l’energia e la forza di una rock’n’roll band e i riferimenti musicali rendono Joyland una specie di “series of dreams” dylaniana o una circus song springsteeniana. Il tema è chiaro fin dall’inizio e il tono è ben presto dettato dall’avvertenza che Jonesy riceve dal suo factotum, Fred Dean: “Qui improvvisiamo di più. Siamo ancora legati allo spirito delle fiere di un tempo. Forza, cerca di capire che cosa ne pensi. Anzi, meglio, che cosa provi”. E’ quello che chiede Stephen King mentre si entra in Joyland: di sentire qualcosa, più che di leggerlo. Per questo anche se comincia come una rock’n’roll fantasy e poi si sviluppa con la luce di un b-movie, con un gran finale che è a sua volta un cliché, va aggiunto che l’intenzione arriva intatta fino in fondo all’epilogo. A saldo di tutte le ironie possibili, è come bere una birra fresca nel giorno più caldo dell’estate ed è anche legittimo non chiedere di più. Ciò non toglie che piccoli valori come amicizia, lealtà, sincerità, generosità che a Joyland hanno un senso e nel resto del mondo sono stati dimenticati, per far spazio a una non inedita brutalità, riempiano di nostalgia la storia di Stephen King rendendola una favola moderna capace persino, en passant, di non dimenticare il sassofono di Clarence Clemons nelle battute conclusive. Tempo di lettura: una notte con temporale (obbligatorio), tuoni e fulmini compresi nel prezzo.

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