giovedì 22 agosto 2013

Chris Fuhrman

E’ l’estate del 1973 a Savannah, Georgia e Chris Fuhrman scrive di “un gruppo di adolescenti anarchici che combattevano l’ipocrisia, l’ingiustizia e le eterne stronzate” con un tatto particolare, persino una gentilezza, usando tutte le premure possibili per trattare la materia delicata e friabile di ricordi destinati a dissolversi. E’ il motivo principale per cui tutta la parte principale, e ben oltre la metà di Vite pericolose di bravi ragazzi scorre innocua, pratica ed essenziale. Anche un po’ sciatta, a dire la verità: Chris Fuhrman avvicenda piccoli episodi in miniature senza scossoni rilevanti, lasciandoli apparire in una modalità tiepida e lineare. Tra le tante deviazioni dalla rigida istruzione cattolica, la banda dei bravi ragazzi coltiva con grande passione l’arte dei fumetti e ne realizza uno colorito e blasfemo che viene intercettato dall’autorità scolastica, poco incline all’interpretazione creativa dei sacri profili. Il giudizio e l’eventuale punizione gravano come una spada di Damocle su di loro e, mentre si dedicano ad altrettanti guai perché “il problema della vita è che quando non sei nei casini è noiosa”, hanno un’illuminazione eversiva. Durante una gita scolastica, notano le vistose caratteristiche di un puma in cattività e progettano un piano per sequestrarlo e liberarlo nella scuola in modo da creare un caso più grande da far dimenticare quello del fumetto. Il rammendo è peggio dello strappo sia perché l’impresa è ad alto rischio, sia perché l’effetto è tutt’altro che prevedibile, eppure nessuno tra Francis, Rusty, Tim, Joey e Wade se ne cura dato che “le cose che vivono nella mente sono vere come tutte le altre”. Il principale promotore di questa attitudine è proprio Tim, lo spirito più fervido e genialoide del gruppo, a sua volta alter ego del protagonista, Francis, che lo dipinge così: “Ogni giorno Tim Sullivan incendiava il mondo, e dopo vivevi nei luoghi che avevano resistito all’incendio, quelli abbastanza forti da costituire dei punti di partenza. Era bellissimo. Scoprivi che potevi anche pensare”. A maggior ragione visto che le Vite pericolose di bravi ragazzi sono immerse e circoscritte dagli elementi fantastici della religione cattolica e dalla concreta realtà delle tensioni razziali che serpeggiano sullo sfondo. I chierichetti saltano la scuola, provano l’ebbrezza del primo bacio e bevono ascoltando Elton John oppure spaccano tutto (come capita a Tim: “Oh. Niente. Mi annoiavo. Ho preso l’ascia e ho abbattuto un palo della luce. Ci è voluto un attimo”) e si azzuffano e la vita nella scuola così come in città trascorre in modo più o meno ordinato e il tono di Chris Fuhrman sembra rispecchiarlo senza troppe ambizioni. Il finale è una frustata che riporta in modo brusco alla realtà: un risveglio durissimo che proietta alla velocità della luce le Vite pericolose di bravi ragazzi nell’età adulta, dove oltre alla noia, dovranno rendere conto al dolore. Lo si legge nella firma di Chris Fuhrman: è il suo primo e unico romanzo, visto che se ne è andato a poco più di trent’anni, finendo le ultime, fragilissime pagine. 

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