venerdì 19 luglio 2013

A. M. Homes

“E’ stato uno strano, lungo viaggio” scrive A. M. Homes nell’ultima riga utile di Che Dio ci perdoni ed è una definizione che si può condividere con generosità, anche se è una lettura scomoda, spigolosa, tagliente. Eppure scorre, trascinandosci sull’orlo di domande che sono voragini buie. E’ davvero questa la vita all’inizio del ventunesimo secolo? E’ una decadenza infinita con rari e casuali sprazzi di dignità? E’ una dissoluzione mascherata dalle banalità? Che Dio ci perdoni è romanzo teso come una corda di violino, solo che non si spezza mai, emana una melodia stridente che prova a “restituirci l’immagine di quello che siamo”. E’ come se A. M. Homes avesse letto l’opera omnia di Philip Roth la sera e quella di Don DeLillo il giorno dopo (e nel frattempo anche John Cheever, Richard Yates, e Raymond Carver, tutti citati en passant) e poi si sia messa a scrivere Che Dio ci perdoni. E’ un ritratto non edificante, non consolatorio, anche crudele della vita (borghese) nell’America di oggi: George e Harold Silver sono fratelli legati da grande animosità e diventati adulti (produttore televisivo il primo; professore universitario con un’ossessione per Nixon il secondo) devono fronteggiare “un’infinita caduta libera”, travolti da eventi in sospesi tra il drammatico e il surreale. Come un brutto sogno a occhi aperti, prima George rimane coinvolto in un sanguinoso incidente stradale, poi in un raptus omicida uccide la moglie scoperta a letto con Harold e siamo solo all’inizio. George finirà in manicomio, Harold si ritroverà alle prese con i resti della famiglia (in particolare con i nipoti, Nate e Ashley), i rimorsi e i sensi di colpa e una catena infinita imprevisti perché “succedono cose strane quando gli uomini vengono abbandonati a se stessi”. Dio ci perdoni ha anche una sua ripetitività, con ogni probabilità voluta e dichiarata, come se fosse un’acidissima soap opera distinta da un accento continuo di sarcasmo quando tra le tragedie e le commedie il confine va sfumandosi, trasformanolo in un romanzo spietato e, per dirlo con A. M. Homes, “complesso e molto umano, con tutto quel che comporta”. Lo si capisce quando Harold Silver, un personaggio che fa della modernità una sorta di situation comedy confessa: “Quando fa buio sento un brivido di paura. Accendo tutte le luci e la televisione e mi trovo a domandarmi: e ora come mi invento una cena? Vado in cucina, apro e chiudo il frigo e poi torno al divano”. E’ un Ulisse che cerca di ricostruire o almeno tenere insieme quello che gli è rimasto anche se si sente come “che abbia sempre solo volato da passeggero e adesso si trovi a dover fare un atterraggio di fortuna”. Il senso è quello e se c’è una costante irriverente, nel romanzo, è che per un motivo o per l’altro tutti gli offrono soldi (un sacco di soldi), come se non finissero mai e come se fossero la soluzione e in effetti non è proprio quello il problema: è tutto il resto che è un disastro. Americani brava gente: Che Dio ci perdoni è un romanzo complicato perché riflette il tempo in cui viviamo (che è tutto, ma non semplice). 

Nessun commento:

Posta un commento