mercoledì 24 aprile 2013

Steve Earle

La lapidaria intestazione di Non uscirò vivo da questo mondo non dipende soltanto dalla canzone di Hank Williams, a cui, va da sé, attinge il titolo del romanzo di Steve Earle. Dai i bassifondi di San Antonio, Texas, non se ne esce né vivi né morti perché sono popolati da ombre sulle soglie del precipizio, le esistenze consumate dalla droga, dalla prostituzione, dall’emarginazione, dalla notte, da un coltello, da un proiettile sparato un motivo qualsiasi, anche nessuno. Doc Ebersole, medico e tossico dall’ambiguo passato, ha trovato in quegli isolati dove l’età non viene misurata in anni, ma in chilometri accumulati sulla strada, un rifugio, un covo dove nascondersi, prima di tutto a se stesso, e poi al fantasma di Hank Williams. Lo spettro, che incombe ogni volta che l’ago della morfina entra nella vena, è acido, ostico, irriverente e invadente e irriverente. Vuole qualcosa e Doc lo sa, così come sembra saperlo Graciela, la giovane messicana che accende le uniche scintille di redenzione e speranza nella sua vita. E’ l’unica che potrebbe alleviare l’estrema solitudine di Doc, capace di confessare che “essere soli è una condizione temporanea, una nube che offusca il sole per qualche tempo e poi, dopo essersi spostata, fa sembrare i raggi ancora più luminosi. Come quando sei lontano da casa e senti la mancanza delle persone che ami e hai la sensazione che non le rivedrai mai più. E invece le rivedrai, e quando accade non ti senti più solo. Essere solitari è un’altra cosa. E’ incurabile. Terminale. Un buco nel cuore talmente grande che potrebbe passarci dentro un camion a rimorchio. Così grande e profondo che nessun quantitativo di denaro, whisky, fica o droga potrebbe colmarlo, perché l’hai scavato tu stesso e lo stai ancora scavando a forza di inanellare menzogne, delusioni e promesse non mantenute”. E’ proprio in quel frangente di Non uscirò vivo da questo mondo che affiora la trama dell’autobiografia di Steve Earle, della sua vocazione a stare in trincea, anche dalla parte sbagliata e di raccontarne il dolore e la miseria. Per questo è del tutto condivisibile quello che ha scritto Patti Smith: “Steve Earle riesce a conferire alla sua prosa la stessa autenticità, lo stesso spirito poetico, e la stessa energia che ispirano la sua musica. Questo romanzo è come un sogno pieno di bellezza, rimorso e redenzione da cui non puoi ridestarti”. Proprio come un sogno, in coabitazione con un incubo, viste le presenze che s’aggirano, Non uscirò vivo da questo mondo è sgranato e sfocato perché Steve Earle si affida alla scrittura senza particolari mediazioni. E’ uno storyteller più che uno scrittore, e sulla distanza del romanzo, che sovrappone una o due ambizioni abbastanza evidenti (il fantasma di Hank Williams incrocia anche l’ectoplasma americano per antonomasia, JFK), lo stile arranca in cerca di una scappatoia che non c’è. L’ossessione di Non uscirò vivo da questo mondo sono le mani sporche di sangue e Steve Earle alle formalità preferisce la polvere, The Hard Way, la sua storia. Imperfetta, onesta, umana troppo umana.

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