domenica 28 aprile 2013

Ron Kovic

Ron Kovic è un testimone vivente di ciò che fa la guerra: non spezza soltanto i corpi, come ha fatto con il suo, ma spacca anche il concetto stesso di nazione, di una visione comune e condivisa, di un posto da abitare insieme, di un ideale. L’espressione in Nato in quattro di luglio è funzionale a rappresentare questa ferita ed è sempre e soltanto nuda, diretta e del resto tante formalità non servono, almeno in questo caso. Il diario di Ron Kovic è grezzo, traballante, modesto, sgraziato: la forza è tutta nell’urgenza della dolorosa testimonianza, nella ristrutturazione di una metamorfosi costellata dai luoghi comuni americani che crollano uno dopo l’altro. Ronnie Kovic è Nato il quattro di luglio per cui il compleanno “era un giorno di festa per tutto il paese” e cresce poi nel mito di John Wayne, dei marines, di American Pie e di The Star Spangled Banner nonché di Elvis la cui epocale apparizione è ricordata così: “Ricordo Elvis Presley all’Ed Sullivan Show e mia sorella Sue che diventava matta e saltava su e giù per il salotto. Lui pizzicava le corde della chitarra e muoveva le anche, ma per qualche ragione lo facevano vedere soprattutto dalla vita in su. Mia madre era seduta sul divano, con le mani in grembo come se pregasse e mio padre stava in un’altra stanza e diceva che domenica in chiesa ci avevano avvertiti che guardare Elvis poteva indurci al peccato”. L’immagine a metà di Elvis non è un caso: Ron Kovic si arruolerà nei marines (l’addestramento coincide con la ricostruzione di Full Metal Jacket) e dopo essere rimasto ferito in Vietnam, nel 1965, Ron Kovic rimane paralizzato dal bacino in giù e si ritrova nella drammatica condizione di veterano e reduce di una guerra che pochi comprendono e nessuno più vuole. Il ritorno a casa è un calvario, in cui lo stesso Ron Kovic si concede ben poca pietà. Il suo nuovo nemico e infine il suo migliore alleato sarà la solitudine: “Sono rimasto solo, ancora una volta. E’ almeno un mese che sono nella stanza 17. Mi hanno isolato perché sono molesto e importuno. Ho litigano con l’infermiera del reparto. Ho chiesto che mi facessero fare un bagno. Ho chiesto che pulissero il vomito dal pavimento. Ho chiesto che mi trattassero come un essere umano”. Le prime, elementari rivendicazioni portano a compilare un diario di sofferenza e di dolore perché “ci aggrappiamo a noi stessi, alle cose attorno a noi, ai ricordi, ai pensieri, ai sogni”, pagine scarne e lapidarie che si evolvono per gradi, senza soluzione di continuità, dalla disperazione alla consapevolezza. Per Ron Kovic, ferito, dimezzato, “l’amarezza di essere stato imbrogliato” diventa il carburante che lo trasforma in un simbolo della guerra Vietnam, del tragico fallimento americano: un’icona che viaggia sulle quattro ruote di una carrozzella, una voce stonata nel coro della maggioranza silenziosa, una fugace crepa che si allarga fino alla sigla di Del Shannon che presta Runaway per mettere un ultimo segno all’epilogo. Un punto di domanda che pesa ancora oggi. 

giovedì 25 aprile 2013

John Cheever

La differenza tra giustizia e condanna è il varco in cui precipita Ezekiel Farragut. Per la legge è colpevole di aver ucciso il fratello in un raptus di follia, crimine che forse ha dimenticato o rimosso o che riteneva inevitabile. Oggi le condizioni del prigioniero di Falconer sarebbero giudicate sintomi o effetti del disturbo post-traumatico da stress, essendo Ezekiel Farragut un veterano della seconda guerra mondiale e un professore universitario e sono quelli i veri motivi della sua pena, la “tossicomania” e i “disordini sessuali”. John Cheever lo mette subito, nero su bianco, nelle prime pagine di Falconer, quando Ezekiel Farragut viene destinato al peggior lato del carcere (ammesso che ne esistano di migliori): “Ti hanno messo nel braccio F, F come fregnoni, fanatici, folli, figli di puttana, fessi, fantasmi, facce di merda, finocchi, fetenti. E come tante altre cose che ora non ricordo. Quello che ha steso la lista è morto”. La durezza della prigionia, la quotidianità collettiva condivisa con ricordi e presenze che evocano crimini efferati, l’assenza di pietà e la fredda essenza dei muri e delle sbarre sono una parte fondamentale di quella che John Cheever chiama la “stupida ostentazione del giudizio”. Per Ezekiel Farragut sono l’espressione formale di un’associazione spontanea tra ordine e caos, un contrasto che è il nucleo vitale ed elettrico da cui trae energia. Falconer, il carcere, dentro, diventa il riflesso della società, fuori, proprio perché come scriveva John Berger “quando raggiungono il limite estremo della disperazione, gli esseri umani trovano la saggezza, oppure sfuggono a ogni controllo, che si tratti di quello imposto da un sistema o del loro controllo su se stessi. L’incontrollabile e la saggezza sono rinchiusi nella stessa cella dietro la stessa porta della disperazione assoluta”. La personalità di Ezekiel Farragut e la sua evoluzione in carcere corrispondono alla perfezione: è un uomo in bilico, che vive le sue deviazioni sommando nel minimo comun denominatore autoindulgenza, cinismo e il naturale istinto per la sopravvivenza. Lo confessa senza sentire il bisogno di aggiungere troppa enfasi: “A questo punto non ti parlerei sommessamente e pazientemente se non fossi convinto che matematica e geometria sono un’analogia bugiarda e scorretta dell’indole umana”. Falconer resta un romanzo scomodo, tagliente, duro, perfetto nel suo sarcastico finale: è John Cheever al cubo, è John Cheever e nient’altro. Senza sconti, senza correzioni: “E’ scabro, è elegante, è puro” diceva Saul Bellow di Falconer, dove si trova l’essenza concentrata di quello che c’è fuori: “Tanti anni fa, quando hanno inventato la bomba atomica, la gente aveva paura che scoppiasse e facesse fuori tutti; non sapevano che l’umanità ha nelle budella tanta di quella dinamite da far saltare l’intero merdoso pianeta”. Dentro (e/o oltre), Ezekiel Farragut sa invece che la sua pena non ha fine dovendo vivere per sempre con se stesso, la stessa condanna di John Cheever.

mercoledì 24 aprile 2013

Steve Earle

La lapidaria intestazione di Non uscirò vivo da questo mondo non dipende soltanto dalla canzone di Hank Williams, a cui, va da sé, attinge il titolo del romanzo di Steve Earle. Dai i bassifondi di San Antonio, Texas, non se ne esce né vivi né morti perché sono popolati da ombre sulle soglie del precipizio, le esistenze consumate dalla droga, dalla prostituzione, dall’emarginazione, dalla notte, da un coltello, da un proiettile sparato un motivo qualsiasi, anche nessuno. Doc Ebersole, medico e tossico dall’ambiguo passato, ha trovato in quegli isolati dove l’età non viene misurata in anni, ma in chilometri accumulati sulla strada, un rifugio, un covo dove nascondersi, prima di tutto a se stesso, e poi al fantasma di Hank Williams. Lo spettro, che incombe ogni volta che l’ago della morfina entra nella vena, è acido, ostico, irriverente e invadente e irriverente. Vuole qualcosa e Doc lo sa, così come sembra saperlo Graciela, la giovane messicana che accende le uniche scintille di redenzione e speranza nella sua vita. E’ l’unica che potrebbe alleviare l’estrema solitudine di Doc, capace di confessare che “essere soli è una condizione temporanea, una nube che offusca il sole per qualche tempo e poi, dopo essersi spostata, fa sembrare i raggi ancora più luminosi. Come quando sei lontano da casa e senti la mancanza delle persone che ami e hai la sensazione che non le rivedrai mai più. E invece le rivedrai, e quando accade non ti senti più solo. Essere solitari è un’altra cosa. E’ incurabile. Terminale. Un buco nel cuore talmente grande che potrebbe passarci dentro un camion a rimorchio. Così grande e profondo che nessun quantitativo di denaro, whisky, fica o droga potrebbe colmarlo, perché l’hai scavato tu stesso e lo stai ancora scavando a forza di inanellare menzogne, delusioni e promesse non mantenute”. E’ proprio in quel frangente di Non uscirò vivo da questo mondo che affiora la trama dell’autobiografia di Steve Earle, della sua vocazione a stare in trincea, anche dalla parte sbagliata e di raccontarne il dolore e la miseria. Per questo è del tutto condivisibile quello che ha scritto Patti Smith: “Steve Earle riesce a conferire alla sua prosa la stessa autenticità, lo stesso spirito poetico, e la stessa energia che ispirano la sua musica. Questo romanzo è come un sogno pieno di bellezza, rimorso e redenzione da cui non puoi ridestarti”. Proprio come un sogno, in coabitazione con un incubo, viste le presenze che s’aggirano, Non uscirò vivo da questo mondo è sgranato e sfocato perché Steve Earle si affida alla scrittura senza particolari mediazioni. E’ uno storyteller più che uno scrittore, e sulla distanza del romanzo, che sovrappone una o due ambizioni abbastanza evidenti (il fantasma di Hank Williams incrocia anche l’ectoplasma americano per antonomasia, JFK), lo stile arranca in cerca di una scappatoia che non c’è. L’ossessione di Non uscirò vivo da questo mondo sono le mani sporche di sangue e Steve Earle alle formalità preferisce la polvere, The Hard Way, la sua storia. Imperfetta, onesta, umana troppo umana.

martedì 23 aprile 2013

Wallace Stevens

I sette frammenti radunati sotto L’angelo necessario sono l’unico esemplare in prosa di Wallace Stevens e uno strumento vitale per comprendere l’essenza dell’arte. “Una forza capace di generare fluttuazioni della realtà prive di misticismo è una forza indipendente dal desiderio che si può avere di innalzarla. Non he ha bisogno. Si deve solo descriverla, come meglio si può” ed è quello che prova a fare Wallace Stevens in questi Saggi sulla realtà e l’immaginazione: il poeta, uno dei più grandi poeti americani del ventesimo secolo, concede con generosità libero accesso agli ampi spazi dei suoi percorsi, rispondendo convinto all’idea che “uno dei compiti da sempre assegnati al poeta è quello di scoprire attraverso il proprio pensiero e le proprie emozioni che cosa sia per lui, in quel momento, la poesia. Di solito è nella sua poesia, con la poesia stessa, che egli rivela le sue scoperte”. Le liriche di Wallace Stevens sono, in effetti, l’incredibile che serve per credere, o la resa incondizionata all’irreale, almeno “ogni volta che ci è possibile farlo”, mentre la profondità delle riflessioni allineate con L’angelo necessario sembrano davvero delimitare i confini dell’immaginario e dell’infinito assedio a cui è sottoposto perché “la vita, non l’artista, crea o rivela la realtà”, idea ribadita ancora quando dice che “se l’immaginazione non trae forza dalla realtà, non ha forza alcuna”. Per rivelare questo tratto, che si appoggia a una fittissima filigrana filosofica, Wallace Stevens non si confonde in voli pindarici o in contorte spirali di elucubrazioni. La sua scrittura, sia poesia, saggio o critica, si avvale di una chiarezza, di un’espressione limpida e naturale, ricca e nello stesso tempo cristallina, come se fosse sempre l’inizio di qualcosa che sta “sempre iniziando” e non avesse bisogno altro, se non di rendersi viva. Pare logico quindi che, tra le varie forme di realtà e immaginazione archiviate con L’angelo necessario, tocchi proprio alla musica, il fenomeno più istintivo e spontaneo, a tenere insieme gli accordi dell’esperienza perché, scrive un’illuminato Wallace Stevens, “la musica influenza ciò che vediamo, lo rende ambiguo, a volte simile a qualcosa, a volte a qualcos’altro. Nel frattempo, però, la storia viene narrata e la musica ci esalta, la identifichiamo con la storia ed essa diviene la storia e la velocità con cui la seguiamo. Quando la musica cessa, allora ci accorgiamo che abbiamo avuto un’esperienza assai simile alla storia narrata, come se avessimo preso parte a ciò che è avvenuto, proprio come se avessimo ascoltato una recitazione toccante con una comunione di sensi assoluta. La musica comunica le emozioni, e non sarebbe stato diverso se si fosse trattato della musica della poesia o della voce del protagonista che racconta una storia o che dichiara la propria idea del mondo”. E’ quello che serve, che è necessario “a restituire all’immaginazione ciò ch’essa va perdendo a un ritmo catastrofico, e sostenere ciò ch’essa ha guadagnato”. Da studiare.