mercoledì 27 febbraio 2013

George Saunders


La scrittura non è felice. E’ sgraziata, spigolosa, spesso gergale e colloquiale. Anche i temi sono scomodi e fin troppo attuali perché la percezione orwelliana che, è una costante che lega tutti i racconti di Pastoralia, per non dire della narrativa di George Saunders, attinge alle contraddizioni della società dello spettacolo e dell’intrattenimento, puro veleno. Il livello di attenzione, mescolato a una rara vocazione satirica porta George Saunders a leggere la realtà attraverso una particolare lente deformante, e il suo un punto di vista speciale, e mai accomodante, anzi. Il più delle volte spiazza e disorienta eppure, anche in queste condizioni, George Saunders riesce comunque a trovare a ogni racconta una sua efficace armonia. L’esempio più pratico ed evidente è quello di Pastoralia, la short story da cui questa raccolta prende il nome. I due protagonisti interpretano altrettanti trogloditi in una sorta di parco a tema di ambientazione preistorica. Forse non hanno trovato niente di meglio perché il lavoro prevede una vita di stenti, rari contatti con il mondo esterno e con le rispettive famiglie e di essere osservati, dai visitatori (paganti), come una specie in via d’estinzione. Se le letture metaforiche e le interpretazioni si possono sprecare in gran quantità, va detto che Pastoralia traccia già le due linee essenziali da cui George Saunders non di discosta: zero moralismi e una punta di acida veggenza, visto che il reality nel 2000 era ancora uno dei tanti azzardi dello show business. Una percezione che vale anche per protagonisti ingombranti come Tom Rodgers, il predicatore di Winky che manipola chiunque gli si avvicini, proprio come manipolano i predicatori (“Forse gli occorre un imperativo interiore. Un mantra. Un mantra può essere inteso come un imperativo interiore, no? Qualcuno ha un bel mantra di quelli azzeccati da suggerirgli?”) o la Miss Hacienda in Il parrucchiere infelice o ancora l’intera genia dei Dalmeyer in La fine di firpo nel mondo (e già capire chi è o cos’è un firpo è un’impresa). La popolazione dei racconti di Pastoralia è questa e i paesaggi non sono più rassicuranti: Quercia del Mar, il luogo da cui ruba il titolo l’omonimo racconto “non è un posto tranquillo. In lavanderia ci spacciano il crack e la settimana scorsa Min ha trovato un pugno di ferro nella piscina dei pupi. Potessi fare di testa mia, trasferirei tutto in Canada”. Con queste coordinate la riduzione di quello che George Saunders chiama “il classico sogno americano” è in bilico tra la sua parodia o una ricostruzione fin troppo concreta della realtà, visto che lo descrive così: “Parti da una topaia pericolosa, ti fai il mazzo così e un giorno potrai trasferirti in una topaia un po’ meno pericolosa”. Nella mezza dozzina di short stories di Pastoralia cambiano i dettagli, la trama, i volti, ma i toni stridenti non cedono di un millimetro e la cupa ironia di George Saunders si nutre del disincanto di chi può dire “padroni di lamentarvi, ma secondo me ci sta andando di lusso”. Ieri enigmatico, oggi puntuale alla meta.

domenica 24 febbraio 2013

Jack Kerouac

Coetaneo di Sulla strada e pubblicato soltanto vent’anni dopo, Pic è un frutto acerbo e colorito. L’effetto è abbastanza straniante perché racconta il viaggio un bambino afroamericano che dalla Carolina del Nord arriva a New York mentre Jack Kerouac era già al capolinea. Il punto di vista è sempre soggettivo e l’emozione della scoperta, di un orizzonte che si apre all’improvviso, quell’anelito verso qualcosa di nuovo e di diverso, si svela quando Pic dice: “E ora eccomi in città di nuovo, ma stavolta ero cresciuto e stavo per andare per il mondo con mio fratello. Be’, ogni cosa stava diventando terribilmente interessante da osservare”. Rocambolesco, pittoresco, confusionario Pic ha la stessa natura di Sulla strada anche se gli manca la visione d’insieme, il trasporto, la forma e forse la fiducia. Il limiti imposti dalle dimensioni e dallo spazio autorizzano a pensare che Kerouac non avesse del tutto chiaro il destino di questo romanzo, anche se i temi (la strada, il jazz, il gusto per l’avventura e per gli outsider di ogni forma e natura) sono gli stessi e la scrittura ha già il vigore e la passione di sempre. Vale ancora, a proposito di Pic, quello che scriveva Seymour Krim: “Quasi dieci anni prima della volgare immediatezza della Pop Art ci mostrò lo stupefacente ambiente in cui viviamo realmente e fece erompere la nostra prosa in un flessibile gioco d’azzardo, di osservazione senza difetti, precisione di dettagli”. In questo il giovane Kerouac ha già la predisposizione di un osservatore acuto, per non dire profetico. Negli scorci finali di Pic, quando deve spiegare come funziona un tubo catodico (oggi, uno schermo digitale) lo presenta così: “La televisione è un grande lungo braccio di luce che raggiunge il vostro salotto, e anche nel mezzo della notte quando non ci sono programmi in onda la luce è accesa; anche lo schermo è scuro. Studiate questa luce. Vi ferirà inizialmente e bombarderà i vostri occhi con cento trilioni di particelle elettroniche, ma dopo un po’ non vi darà più fastidio”. Uno dei suoi lettori più appassionati, Tom Waits, deve essersi ispirato a questo passo quando, un po’ per scherzo e un po’ sul serio, diceva di ricoprire la televisione di notte, come una gabbia per canarini. Come si legge ancora in Pic forse dipende dal fatto che “mentre l’elettricità era luce per mezzo della quale vedere, questa è luce che viene non per far vedere, ma per vedere, non per aiutarci a leggere, ma per leggere. Questa è luce che sentite. E’ la prima volta al mondo che della luce è stata raccolta dalle fonti di luce e proiettata attraverso un tubo in modo che possa essere osservata e studiata invece che farci solo sbattere le palpebre. E ha preso la forma di uomini e donne in carne e ossa nello studio che arrivano in strisce luminose nel vostro salotto con tutti i loro suoni registrati attraverso il sonoro. Che cosa significa tutto ciò, signore e signori?”, ed è una domanda che rimane sospesa in coda a Pic. La risposta di Kerouac è implicita visto che, rispetto alla televisione e a quello che c’è dentro, lui andava nella direzione opposta.

mercoledì 20 febbraio 2013

Gary Snyder

La “circoscrizione elettorale” di Gary Snyder è stata sempre e solo la wilderness e la bella definizione, che spunta in fondo a L’isola della tartaruga, coincide con un’ideale nazione, nella sua visione, di quella comunità che “non significa solo uomini e donne ma anche erbe, rocce, vento, nuvole, gli altri animali”. Il suo programma di governo, espresso in chiave poetica, è tutto concentrato in L’isola della tartaruga e la wilderness è il leitmotiv e insieme il tratto dominante della costituzione immateriale perché “visto che ci troviamo ora sulla soglia del declino della civiltà, il primo passo da fare potrebbe essere ritrovare quella visione primitiva del mondo che da sempre, e in maniera intelligente, ha cercato di aprire dei varchi per comunicare con le forze naturali”. Gary Snyder popola L’isola della tartaruga di liriche brevi e frementi che hanno un’utilità fresca e immediata ancora oggi, forse più del 1974 quando uscì per la prima volta e, fedele alla sua missione, non disdegna la vocazione politica, intesa nel senso più ampio ed evoluto: “I nostri poteri più profondi possono cambiare noi stessi ma anche la cultura. Se l’uomo vuole sopravvivere sulla terra, egli dovrà saper trasformare la tradizione di civiltà urbana, lunga cinque millenni, in una nuova cultura di sensibilità ecologica spirituale-scientifica, tendente all’armonia, intimamente selvatica. La selvaticità è lo stato di completa consapevolezza. Ecco perché ne abbiamo bisogno”. La road map che L’isola della tartaruga comincia con l’elenco delle necessità impellenti che si risolve, secondo Gary Snyder in “una questione d’amore, non l’amore umanistico dell’occidente, ma un amore che si estende agli animali, alle rocce, alla terra… A tutto. Senza questo amore possiamo finire, anche senza guerre, in un luogo inospitale”. L’esperienza insegna che la previsione di Gary Snyder è tutt’altro che ingenua e che la sua utopia (“Obiettivi: aria pura, acqua e bacini dei fiumi puliti, presenza, nelle nostre vite, del pellicano, del falco pescatore e della balena grigia; salmoni e trote nei fiumi; linguaggio incontaminato e bei sogni”) rimane validissima. Anche perché al centro del rapporto tra uomo e natura L’isola della tartaruga riporta che “la gioia di tutti gli esseri è nell’essere più vecchi, più tenaci e consumati”. In questo è perfetta l’appendice autobiografica ripescata dall’introduzione di The Gary Snyder Reader dove diceva: “Ora, riesco a vedere quanto ho girovagato nel mondo, a bordo di petroliere, su vagoni merci, bus del terzo mondo, macchine sgangherate, a piedi e su jumbo jet, bar notturni e moschee all’alba. E’ qui offerto, al di fuori di una vita frenetica (col senno di poi), ma deliberatamente scelta, un mix di idee, immagini, archetipi e proposte. Il tutto con autentico spirito di ricerca, di fare arte, di esplorare la conoscenza, di corteggiare la saggezza”. Poi l’equilibrio è un’invenzione umana, e come tale, è sempre piuttosto precario perché, bisognerebbe ricordarselo più spesso, alla fine “il mondo fa come gli pare".

domenica 17 febbraio 2013

Henry Miller

Tornato in America dopo gli anni caotici, creativi e libertini di Parigi, Henry Miller rifiuta l’Incubo ad aria condizionata, l’omologazione delle idee, il vuoto pneumatico delle emozioni in nome dell’emergenza. L’apocalisse incombente della seconda guerra mondiale non gli impedisce di vedere con estrema lucidità quello che lascerà filtrare il futuro. Nella prima parte di Ricordati di ricordare, ovvero la lettera aperta al soldato semplice Fred Perlès scritta nel 1941 poi intitolata Assassinate l’assassino, Henry Miller assume una posizione radicale, non allineata e indipendente contro la retorica che ha condotto l’Europa nel baratro della guerra e che, nello stesso modo, vi sta trascinando anche gli Stati Uniti. La sua allergia agli schemi e agli ordini imposti dal conflitto è evidente fin dalle prime battute della sua corrispondenza: “In nome della libertà ognuno viene obbligato a tenersi pronto alla linea di partenza; l’assunto è che quando avremo vinto la guerra (stiamo solo oscuramente cominciando a renderci conto che ci siamo già dentro) riavremo la nostra libertà, una libertà, sia detto tra parentesi, che non abbiamo mai posseduto sul serio”. I suoi strali attraversano la coltre dei luoghi comuni, a partire da quell’ineluttabilità con cui viene spacciata la guerra, perché anche di fronte al tragico precipitare degli  gli eventi secondo Henry Miller “ci sono mille modi di accettare l’inevitabile”. Il primo è ricordare di ricordarsi dove e come comincia la vocazione guerriera: “E’ la minoranza che favorisce la guerra, e questa minoranza rappresenta sempre gli interessi costituiti. Nessun governo ha mai il coraggio o l’onestà di rimettere al popolo la questione della guerra. Né sussiste mai la più remota possibilità di creare una situazione per cui coloro che sono in favore dalla guerra vadano alla guerra e coloro che non lo sono restino passivi. L’unanimità di una nazione, in tempo di guerra, si ottiene attraverso la coercizione pura e semplice”. Il tono polemico e risoluto di Assassinate l’assassino è capace anche di farsi sarcastico e nella sua durezza Henry Miller è ancora attualissimo quando scrive: “Ci prepariamo alla guerra e contemporaneamente cerchiamo, come al solito, di fare buoni affari e con entusiasmo”. La seconda parte di Ricordati di ricordare, del tutto complementare ad Assassinate l’assassino, viaggia sulla distanza tra Parigi e New York ed è ricca di una nostalgia per quella terra francese intrisa di arte e bellezza che ormai è un lontano ricordo. Henry Miller ne riconosce la forza perché, come scrive nell’incipit di Ricordati di ricordare “ci attacchiamo ai ricordi allo scopo di conservare un’identità che, se soltanto sapessimo coglierla, non potrebbe andare mai perduta. Quando scopriamo questa verità, che è un atto di memoria dimentichiamo qualsiasi altra cosa”. Lo scrive aggrappato a fugaci memorie di umanità in Europa e nel Mediterraneo, mentre attorno a lui l’America ormai si emoziona soltanto per la luna, un satellite freddo e disabitato. Ecco, la differenza.

mercoledì 13 febbraio 2013

Mark Bowden

E’ il 4 novembre 1979 a Teheran quando gli studenti dell’università assaltano l’ambasciata americana. Sono i giorni della rivoluzione degli ayatollah e la città è scossa fin nelle sue fondamenta. Nulla sarà più come prima, né in Iran, né nel resto del mondo ed è proprio nell’epicentro di quello storico terremoto che un atto di guerra, senza spargimento di sangue, imprevisto e incontrollato, diventa un caso di risonanza mondiale. Per qualche strana e curiosa ragione, fin da Black Hawk Down, Mark Bowden è un reporter specializzato nel raccontare piccoli e grandi fallimenti americani ed pareva destino che rileggesse quei momenti. Il suo approccio nel ricostruire circostanze, movimenti, protagonisti è figlio di un’ossessione per i particolari, coltivata con lo scrupolo di controllare e verificare fonti e notizie. Non a caso scrive, nell’epilogo di Teheran 1979: “Il metodo standard dei giornalisti che scrivono su una nazione straniera è acquisire notizie per avere una visione generale e arrivare a conclusioni probanti. Io posso fornire soltanto queste osservazioni, esperienze e conversazioni, ossia pezzi presi a caso da un puzzle che non si può risolvere”. L’ammissione ha una sua dignità e va detto che almeno Mark Bowden è tornato a Teheran, trent’anni dopo, per capire cosa è rimasto: l’edificio dell’ambasciata è ormai un guscio vuoto e anche il clamoroso gesto degli studenti è visto in un’ottica tutta diversa, e non priva di ombre. Circola persino l’opinione che la CIA non fosse del tutto estranea all’assalto. Un’ipotesi tra le tante vagliate da Mark Bowden, che è sempre meticoloso nel disporre in ordine tutti gli elementi di una storia, o almeno di cercare di dargli una forma comprensibile. Questo accade per tutto lo sviluppo di Teheran 1979, compreso il bis del fallimento, ovvero il disastro dell’operazione delle forze speciali americane nel deserto iraniano. Anche in questo caso, come per l’occupazione dell’ambasciata, Mark Bowden tiene sempre molto alta la guardia sui dettagli, che padroneggia con sicurezza, anche quando si tratta di dati tecnici o tattici molto sensibili e complessi. La sua abilità è di sapere come renderli comprensibili e nello stesso tempo come farli parte della storia. La narrazione, anche se rigorosa dal punto di vista dell’indagine e nella sua percezione storica, richiama sempre una dimensione epica, cercando di usare l’enfasi per mettere in una luce diversa la prigionia degli ostaggi, trasformandola in una resistenza. L’occasione di plasmare il ricordo di una bruciante sconfitta in qualcosa più appetibile è una tentazione troppo forte e anche se Mark Bowden è un principe dell’equilibrio e della misura, si sente la spinta a mutare un fallimento lungo più di un anno dentro le forme di un’altra prospettiva. Detto questo Teheran 1979 è assemblato in modo impeccabile e lo stile di Mark Bowden ha il pregio di convogliare testimonianze, analisi, valutazioni, opinioni, descrizioni in una scrittura che si avvicina al lettore con discrezione, per poi non mollarlo più Molto abile, molto acuto.

domenica 10 febbraio 2013

Dale Maharidge

Nell’estate del 1986 Dale Maharidge e il fotografo Michael Williamson ripercorrono il viaggio di James Agee e Walker Evans di cinquant’anni prima da cui nacque Sia lode ora a uomini di gloria. Anche se è passato mezzo secolo e nell’Alabama le trasformazioni sono andate al rallentatore perché “molti vivono in una specie di limbo, né borghesi né poveri, e si trascinano dietro il grande peso del passato”, anche se c’è già un tracciato molto marcato che Dale Maharidge e Michael Williamson devono seguire, E i loro figli dopo di loro non è per niente accomodante o scontato, anzi. Intanto, le condizioni economiche e sociali non sembrano aver subito trasformazioni tangibili. Quel “passato latente” fatto di disperazione e miseria, di fatiche immani per conservare un lavoro appena appena dignitoso, è una ferita che non vuole rimarginarsi. Se è cambiato qualcosa, è difficile da notare confrontando le immagini di Michael Williamson con quelle di Walker Evans. Come le fotografie in bianco e nero, Dale Maharidge è rigoroso e preciso nel fare un quadro generale degli alberi genealogici potati e scorticati dalle crisi e dalle depressioni: “Molti membri di quelle famiglie non erano pronti per affrontare le sfide del mondo che li aspettava dopo il crollo del sistema del cotone. Non era mai stato insegnato loro il sistema di convinzioni del ceto medio urbano, basato sulla speranza e sull’aspettativa di un continuo miglioramento. La transizione sarebbe stata difficile. La scelta che veniva loro offerta, andare avanti oppure tornare indietro, sembrava irragionevolmente dura. Alcuni insistettero per barricarsi nel passato, continuando a vivere defilati ed evitando il mondo moderno”. L’attenzione che Dale Maharidge dedica alle singole esperienze si scontra con il lascito di James Agee che, trascinato dall’entusiasmo e dalle migliori intenzioni, arrivò in Alabama con pochissime indicazioni utili e una qualità delle fonti molto prossima allo zero. Dopo un mese inconcludente,  il rischio che l’idea stesse avviandosi al fallimento era qualcosa in più di una vistosa probabilità. Poi James Agee e Walker Evans incontrarono i Gudger, i Rickett e i Woods e la storia di Sia lode ora a uomini di gloria cominciò a vivere di vita propria. Tornando laggiù, Dale Maharidge riscopre anche ombre e contraddizioni di quel lavoro, i legami irrisolti di James Agee (che è rimasto un ospite, se non proprio uno straniero) e il profilo tagliente di tempi che appaiono immobili nella loro durezza. E i loro figli dopo di loro non cerca di ricomporre un quadro ormai spezzato e nemmeno di ricongiungere linee scomparse nella polvere. Come spiega Dale Maharidge, E i loro figli dopo di loro “parla di un gruppo di uomini e di donne che, molto tempo fa, ci hanno raccontato sull’America qualcosa che noi, in quanto società, non abbiamo voluto affrontare; e oggi hanno qualcos’altro da dirci che ci riguarda molto da vicino”. La sua attualità, così come quella di Sia lode ora a uomini di gloria, è tutta lì, in quell’errore che si ripete all’infinito.

lunedì 4 febbraio 2013

Jack Cady

Inagehi (che nella lingua parlata dai cherokee si pronuncia in na ghe hii) significa una persona che vive da sola in un luogo selvaggio. E’ la scelta di Harriette Chiamata dal Tuono, Amica dell’Albero che “benché non ci pensasse, aveva trent’anni ed era tormentata da più misteri di quanti ne poteva incontrare un detective in tutta la sua vita”. La giovane cherokee sente, come un imperativo del destino, di dover scoprire, capire e far propria la morte del padre, avvenuta per mano assassina in un passato ancora prossimo. Il misterioso delitto è l’unica nota noir di questo splendido romanzo di Jack Cady, volto da capitano Achab, un passato di camionista e boscaiolo e una dozzina tra romanzi e raccolte di racconti, prima della sua scomparsa, nel 2004. E’ anche la scintilla che accende di un fuoco vivo, intenso Inagehi dove protagonisti assoluti sono la natura selvaggia, le montagne, gli alberi, il passare delle stagioni, le variazioni atmosferiche. Tutti considerati alla stregua di personaggi, persino di testimoni e non in un'ottica misticheggiante come spesso vengono proposte le visioni native. Jack Cady è abbastanza scafato e preparato quanto basta per non lasciarsi trarre in inganno da false suggestioni e presenta il mondo di Inagehi, dei nativi con tutte le sue ombre. A prova di smentita scrive: “La terra a occidente, la terra delle ombre, la terra della morte. Quando moriva un cherokee, si diceva che era andato nella terra delle ombre. Gli indiani d’America non erano stati capaci di affrontare la morte, non più del sesso. Il sesso era circondato da tabù e battute sconce, la morte era accompagnata dal terrore. Si sapeva che certi indiani abbandonavano i propri morti, piangendo allo stesso tempo in preda a un dolore inconsolabile. I cherokee non erano così pittoreschi; a volte, era vero, tenevano cerimonie di sepoltura elaborate, ma in genere non parlavano facilmente della morte”. E’ per questo che il prezzo che paga Harriette Chiamata dal Tuono, Amica dell’Albero si diffonde, frase dopo frase, in Inagehi come le radici degli alberi nella montagna che custodisce i segreti della morte del padre e della sua stessa vita. Inagehi è un libro prezioso non solo riporta perché al centro dell’attenzione il rapporto con la natura e la wilderness nello specifico, dove “vivendo in una radura nella foresta, dormendo un sonno dopo l’altro, si scoprono cose comprensibili e cose incomprensibili; tutte profonde come il sole”. E’ soprattutto un’ecologia dell’anima quella che insegue Harriette Chiamata dal Tuono, Amica dell’Albero:  non vuole né vendetta né giustizia, particolari troppo umani e fragili in confronto al rispetto che trova nel silenzio della natura. Così, dato che, scrive Jack Cady, “come tutte le tragedie, anche questa ha bisogno di un coro” c’è solo l’imbarazzo della scelta: potete metterci i dischi di John Trudell, Robbie Robertson, Jerry Alfred o Bill Miller. Non saranno della stessa tribù di Harriette Chiamata dal Tuono, Amica dell’Albero, ma come colonna sonora di Inagehi andranno benissimo.

sabato 2 febbraio 2013

Neil Young

Uno degli aspetti più curiosi e interessanti della vita di Neil Young è che trova un nome per tutto. Non c’è automobile, caravan, chitarra, garage o abitazione a cui non abbia dato un appellativo neanche fossero esseri umani. Si capisce che è un uomo dalle mille passioni, tutte vissute in modo viscerale ed emotivo, con un’idea tutta sua della disciplina (ammesso che con Neil Young possa essere usato questo termine) o del lavoro. La sua storia, più che la sua autobiografia, è un’altalenante e irriverente carrellata di colpi di testa e sbalzi di umore dedicati di volta in volta alle chitarre, al modellismo ferroviario, alle automobili, al confronto con le rivoluzioni digitali, alle sue rock’n’roll band. La congiunzione di questi punti sparsi in modo bizzarro danno forma e fanno emergere il paradosso della sua coerenza e in fondo quello che Il sogno di un hippie nella sua essenza. Fedele alla sua natura di “cavallo pazzo”,  Neil Young scrive con lo stesso istinto delle convulsioni chitarristiche e, come si può immaginare con una certa facilità, la cavalcata è accidentata e piena di imprevisti perché rimane un incallito e indomito sognatore. Ingenuità ed eccentricità convivono da anni e contribuiscono a delineare una personalità unica, e non lo scopriamo certo oggi. Quello che si trova, anche soltanto sfogliando Il sogno di un hippie, è una collezione disordinata di anni in cui è stato accumulato un po’ di tutto. Come dal rigattiere dove Neil Young e il suo fedele art director comprarono il posteriore della Cadillac del 1959 poi insabbiato nella copertina di On The Beach (la sua preferita) Il sogno di un hippie raduna e mette a disposizione la ricetta degli spaghetti del papà (auguri), le contorsioni di un musicista che, dai Buffalo Springfield a Daniel Lanois non si è fatto mancare niente, i ritratti (sempre affettuosi) di compagne e compagni di viaggio, gli infiniti fotogrammi della vita on the road, gli aneddoti e le polemiche. Memorabili, in questo senso, le cinque pagine dedicate alla diatriba con la Geffen Records, parentesi discografica in cui i soliti, solerti ed efficienti manager pretendevano di sapere e di decidere chi o cosa fosse Neil Young. Lui rispose a modo suo, incidendo e pubblicando album del tutto estemporanei, mutando pelle e costumi senza preavviso. La battaglia, alimentata da “ego e incubi hollywoodiani”, andò avanti per un bel po’ perché “loro volevano che avessi successo commerciale e io volevo essere un artista che esprimeva se stesso: non sempre queste due ambizioni sono compatibili”. La strategia di Neil Young, all’epoca incomprensibile ai più, svela invece tutta la sua trama se ci si misura con Il sogno di un hippie. E’ un segmento elementare, una sequenza in cui diventa intelligibile il suo DNA: Neil Young ha fatto del mimetismo un’arte sublime perché nascondendosi di volta in volta dietro una maschera diversa è diventato ed è rimasto se stesso, che è poi Il sogno di un hippie diventato realtà (più o meno, perché con Neil Young non si è mai sicuri di niente).