lunedì 28 gennaio 2013

Guy Vanderhaeghe

Shorty McAdoo è il classico personaggio che ha visto e vissuto troppo. Ha attraversato in prima persona the real wild West, è stato guida perspicace in cerca di frontiere da superare e ha seguito i cacciatori nelle loro scorribande. E’ l’uomo che sta cercando Damon Ira Chance, produttore cinematografico con un’idea fissa: quella di realizzare un enorme colossal, il film definitivo sul West. Nella sua distorta percezione della realtà, Shorty McAdoo è il serbatoio infinito di tutte le storie e le identità che dovrebbero riempire i chilometri di pellicola del futuro capolavoro. Ovviamente il suo status gli impedisce di può occuparsene in prima persona, così incarica un giovane sceneggiatore, Harry Vincent, di rintracciarlo e di cavargli quanto più materiale utile si riesca. Non senza resistenze, Shorty McAdoo accetta infine di raccontare la sua storia e la differenza, il contrasto tra il suo West e quello che vorrebbe Hollywood, è il cardine su cui si regge il romanzo di Guy Vanderhaeghe. Una contraddizione che vede il tronfio Damon Ira Chance in prima linea, così certo e presuntuoso delle proprie idee da non accorgersi che La storia di Shorty, quella che Harry Vincent sta raccogliendo su sua commissione, non corrisponderà mai ai suoi progetti. Forse ha ragione quando dice: “Gli americani sono un popolo pratico, amano i fatti; i fatti sono solidi, reali. L’americano medio si sente sciocco quando si gode una storia inventata, si sente infantile, insicuro, un’acchiappaluna, un sognatore. Non vuole sentirsi imbrogliato o preso per i fondelli, non vuole sentirsi un sempliciotto che acquista merce da un ciarlatano. Preferisce credersi virtuoso perché ha imparato qualcosa di utile, si è informato e migliorato”. Nel West di Shorty, che Guy Vanderhaeghe descrive con un occhio di riguardo per Cormac McCarthy e con i ritmi serrati di Jim Harrison, i fatti sono troppo duri e crudeli per il cinema e se è vero che “la poesia dei fatti è la poesia dell’anima americana” non è detto che quest’ultima debba coincidere necessariamente con quella di Hollywood. “Il principio di un film è la rivelazione” scrive Guy Vanderhaeghe e la sua esistenza è tutto nel movimento, nella velocità, nell’impressione. Fa leva sulle emozioni, sui sentimenti e non lascia il tempo e il modo di osservare, discutere, riesaminare, pensare. Per chi ha scavalcato le montagne, cavalcato attraverso le praterie e assistito ai massacri di esseri viventi di ogni specie e forma “Hollywood è una tazza di latte acido, buono al massimo per attirare le mosche”. La diffidenza di Shorty McAdoo è contagiosa, tanto che mamma Reardon, sua ospite californiana dice, giusto per rendere l’idea: “La gente del cinema non entra nella mia casa, se posso farne a meno. Sono tutti ladri e puttane, a parte i cowboy; quelli magari sono maleducati, ma onesti”. Probabilmente soltanto un canadese, quale è Guy Vanderhaeghe, poteva camminare sul filo di rasoio tra due miti americani senza paura di cadere, cioè con quell’equilibrio che gli consente anche un finale ad effetto, proprio nel cuore di Hollywood.

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