giovedì 29 novembre 2012

Elizabeth Bishop

Tenere pulita la spiaggia è il lavoro di Edwin Boomer. In realtà, e ci tiene a precisarlo, la spiaggia sarebbe in grado di mantenersi in ordine da sola, se non ci fosse l’intervento degli esseri umani. Allora deve passare la sua giornata a raccogliere la carta che vola sulla sabbia o macera nel bagnasciuga e fin qui l’impiego non ha nulla di straordinario, se non fosse che Edwin Boomer ha poi la premura di selezionare i ritrovamenti. In parte li fa sparire in un bidone, bruciandoli e in parte se li porta nella sua modestissima cabina dove li legge e li rilegge con passione. Di lui sappiamo ben poco: l’unica attività conosciuta, oltre alla pulizia marina e alla lettura è bere, che rimane comunque un dato molto vago. Quello che è certo in Edwin Boomer è la sua predilizione per la lettura come strumento di salvataggio, a cui fornisce tutta una sua personale raffinatezza visto che “data la sua estrema necessità di selezione, aveva finito per diventare un giudice eccellente”. La grazia con cui Elizabeth Bishop costituisce l’identità del lettore, anzi di un super lettore, in Il mare e la sua sponda è sorprendente: un racconto brevissimo, neanche una dozzina di pagine, che letto e riletto ogni volta svela una sfumatura in più. Funziona nello stesso modo anche l’episodio successivo, In prigione, non solo perché la costruzione è meticolosa, precisa, minuziosa. Le due storie hanno in comune l’elemento claustrofobico (la cabina nel primo, la cella nel secondo) che è “un rifugio, ma non per viverci, per pensare”. Poetessa raffinata (è consigliabile conoscerla anche attraverso Miracolo a colazione), personalità tormentata, Elizabeth Bishop pare trasmettere ai due personaggi di Il mare e la sua sponda e In prigione l’essenza di una vita trascorsa a scrivere, a leggere e a pensare, forse sentendosi un po’ come Edwin Boomer che cerca di salvare pagine dall’oblìo e un po’ come il prigioniero che cerca di comprendere e di rivelare le differenze filosofiche tra scelta e necessità. Forse sono le stesse che intercorrono tra lettura e scrittura: più ci si addentra in Il mare e la sua sponda e più, nonostante la brevità dei due racconti, si percepisce la distanza di Elizabeth Bishop dalla superficialità del mondo e della realtà. Potrebbe appartenere a lei quello che dice il protagonista di In prigione: “Credo di apprezzare l’umorismo come tutti, ma mi ha sempre molto amareggiato che al giorno d’oggi tante persone intelligenti pensino che qualsiasi cosa accada loro debba per forza essere divertente. Intanto questo atteggiamento mina la conversazione e la corrispondenza, rendendole monotone, e poi penetra in profondità, corrompe le nostre capacità di osservazione e di comprensione”. Sono parole scritte nel 1938, più vicini alla tragedia che alla farsa, chissà cosa avrebbe detto oggi. A quel punto è facile immaginarsi Edwin Boomer che in una notte di vento, insegue brandelli di carta che si librano nell’aria del mare. Vorremmo avere la sua esperienza nella cernita e un fuoco sempre acceso accanto.

martedì 27 novembre 2012

Kent Harrington

Il Guatemala non è soltanto lo sfondo su cui si proietta l’ombra sfuggente del giaguaro rosso. E’ un paese condannato dalla storia, attraversato da scosse telluriche così come da ondate di violenza inaudita, un luogo dove la povertà alimenta un’infinita precarietà e dove la vita, che ha millenni di tradizioni alle spalle, sembra frutto di un destino del tutto occasionale. Per descrivere il Guatemala che c’è in Il giaguaro rosso, così come quello della realtà valgono le parole, riferite a chissà quale angolo del mondo, ma adattissime allo scopo, che scriveva Graham Greene: “Qui nessuno avrebbe mai potuto parlare di un paradiso in terra: il cielo rimaneva rigidamente al proprio posto al di là della morte, e al di qua prosperavano le ingiustizie, le crudeltà, le grettezze che altrove la gente riusciva abilmente a mascherare”. La citazione non è casuale perché il protagonista, Russell Cruz Price, sembra Il nostro agente all’Avana trapiantato in Guatemala. Nel suo passato, dove si scontato i riflessi autobiografici di Kent Harrington, c’è l’essenza che lo porterà a cercare Il giaguaro rosso. Russell Cruz Price discende da una stirpe di proprietari delle piantagioni di caffè (la prima risorsa nazionale), ha studiato nelle accademie militari americane ed è un giornalista del Financial Times. Crede convinto negli effetti moltiplicatori e autoindulgenti del capitalismo ed è sicuro che non c’è alternativa al libero mercato, anche in Guatemala. E’ per questo che accetta di condividere la caccia al giaguaro rosso che gli propone Gustav Mahler, un archeologo tedesco di illustre discendenza, convinto di aver trovato la pista giusta per arrivare a una delle leggende delle leggende precolombiane. Il giaguaro rosso è un feticcio di giada che pesa svariati quintali, dal valore inestimabile e l’idea di Russell Cruz Price è venderlo per conquistare la femme fatale di cui si è innamorato, Beatrice. Lei è sposata con Carlos Selva, generale dell’esercito e sanguinario responsabile dei servizi d’informazione, ma non è l’unico ostacolo (femminile) a cui deve far fronte Russell Cruz Price perché “quando tutto sembra tranquillo, allora è il momento in cui ti può succedere qualcosa”. C’è il ricordo della madre, Isabella, c’è Olga, che l’ha visto bambino, e c’è Katherine, la volontaria idealista che si innamora dell’uomo sbagliato (lui). Kent Harrington con i colpi di scena non ci va leggero, anche a discapito di qualche elemento di coerenza e di alcuni dettagli (archeologici, strategici, militari): nella prima parte Il giaguaro rosso è denso e affascinante, mentre nella seconda, dove gli eventi precipitano uno dopo l’altro, diventa rutilante e avvincente. Detto questo, Kent Harrington sparge la suspense a piene mani, dalle improbabili love story alle folli missioni geopolitiche (con l’onnipresente invadenza degli interessi americani), soltanto per ricostruire il clima irrespirabile del Guatemala, un posto nel mondo in cui “solo i bastardi possono resistere, ragazzo, perché a loro non gliene frega niente del paradiso”.

giovedì 22 novembre 2012

Cormac McCarthy

“Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti. Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” è la domanda che arriva quando il viaggio Oltre il confine sta ormai sfumando. Billy e Boyd Parham lo stanno attraversando per riportare una lupa tra le rocce messicane. Il padre dei due fratelli la vorrebbe vedere morta, come il bestiame che ha cacciato:  cambiando il destino dell’animale, Billy e Boyd oltre a sfidare l’aspro paesaggio della frontiera, s’inerpicano lungo crinali inesplorati della vita cita perché, come scrive Cormac McCarthy “Le conseguenze di un atto sono spesso molto diverse da quanto si potrebbe immaginare. Devi essere certo che le intenzioni che hai nel cuore siano abbastanza ampie da far posto anche agli sviluppi negativi, alle delusioni. Capisci? Non tutto vale così tanto”. Il centro della Border Trilogy è il romanzo più lirico, per non dire poetico, di Cormac McCarthy. La connessione tra l’elemento naturale, le meravigliose descrizioni delle rocce, del vento, del deserto e degli animali, e poi la minuziosa attenzione alle intangibili forme del mondo umano, quel mondo “fatto solo di respiro” rendono il percorso dei fratelli Parham qualcosa in più di un’iniziazione, di una scoperta, di un’avventura verso l’incognito. Tra gli aridi sentieri di Oltre il confine spunta una rara, intensa sensibilità nel comprendere che “non vi sono viaggi isolati perché non vi sono viandanti isolati. Tutti gli uomini sono uno e non vi è un’altra storia da raccontare”. Questa è la vera linea attraversata, la meta che lo stesso Cormac McCarthy intravede Oltre il confine: “Se la gente conoscesse la storia della propria vita, quanti sceglierebbero di viverla? La gente si preoccupa del futuro. Ma non c’è futuro. Ogni giorno è fatto dei giorni che l’hanno preceduto. Anche il mondo deve essere sorpreso per come ogni giorno si mettono le cose”. E’ la forza del racconto che definisce il tempo, l’esistenza stessa che è “tutto è racconto” ed è la risposta con cui Cormac McCarthy definisce l’esigenza, primaria e irrinunciabile della narrazione: “Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. E’ questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che può cadere. E qui fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare”. Straordinario.

martedì 20 novembre 2012

Tom Franklin

Un colpo di pistola e una ragazza scomparsa danno il via alle danze degli avvoltoi e spalancano una finestra nella vita di Chabot, Mississippi. E’ un’area rurale e povera dove la vita a piedi nudi e ai margini del bosco e delle paludi, ha reso le crepe del razzismo più sfumate, ma non per questo meno ambigue. Larry Ott, ricoverato per un proiettile passato vicino al cuore, è stato amico di 32 alias Silas Jones, “l’unico rappresentante delle forze dell’ordine di Chabot, Mississippi, circa circa cinquecento abitanti”. Larry Ott, bianco, è stato coinvolto nella scomparsa di un’altra ragazza, Cindy Walker, avvenuta anni prima e da allora vive circondato dal sospetto ed emarginato, gestendo l’officina del padre, ormai senza clienti, accudendo la madre e le sue galline. Dopo che qualcuno gli ha sparato, 32, nero, vaga per la contea guidato da un rimasuglio di coscienza, da un’intuizione o dalla concidenza tra il ferimento di Larry Ott e la scomparsa Tina Rutheford, figlia del padrone dell’unica fabbrica della contea. Non è un detective, la sua mansione principale dovrebbe essere dirigere il traffico e i luoghi in cui passa sono sempre gli stessi: una tavola calda, una casa di riposo, un’officina, le strade consumate dalle abitudini, un pollaio e del resto a Chabot non sembra esserci molto altro a parte quel passato che non passa mai, come direbbe William Faulkner. 32 viaggia per triangolazioni da un luogo all’altro in cerca di risposte, ma il municipio ha un budget ridotto persino per gli sceriffi, figurarsi se può permettersi di divorare risorse che non ha per indagare ancora su indizi del passato. Solo che il processo su cui volteggia L’avvoltoio non concede scampo: “Il tempo ammassa anni nuovi su quelli vecchi, senza però che quelli vecchi scompaiano, come gli anelli centrali di un albero, i primi e i più stretti, i più nascosti, racchiusi nell’oscurità e protetti dalle intemperie. Ma poi giunge l’urlo di una sega e l’albero cade e i cerchi sono inondati dai raggi del sole e la linfa scintilla e il ceppo viene esposto al mondo intero”. E’ proprio quello che succede nel corso del romanzo di Tom Franklin, già notato con le short stories di Alabama Blues: la suspense (bisognerà scoprire chi ha fatto sparire Cindy Walker e poi Tina Rutheford e perché hanno sparato a Larry Ott) su cui è imperniato tutto L’avvoltoio è strumentale e destinata ad accogliere il lettore in un segmento di spazio e di tempo, dove tutto funziona al rallentatore e si svela passo per passo, pagina dopo pagina. Sono il contesto, l’insieme e il mood generale che Tom Franklin sa rendere come un grande narratore: dai menù della tavola calda ai serpenti mocassini, dai ripetuti omaggi a Stephen King ai film del drive-in, dal kudzu (un rampicante selvatico si avvolge agli alberi e alle rovine) alle impronte nel fango, ogni dettaglio concorre a definire l’atmosfera in cui promesse e tradimenti, verità e pregiudizi definiscono il destino dei protagonisti, neri o bianchi che essi siano, lasciando al tempo il compito dell’unica giustizia possibile. Molto più di un semplice thriller.

Mark Bowden

La ricostruzione della cattura di Osama bin Laden è pratica, funzionale, schematica, come se Mark Bowden stesse facendo tutto il possibile per spianare le pieghe di un evento storico complesso e pieno di segreti. Tutte le coordinate vengono rese intellegibili anche a costo di ripetere e di ripetersi, usufruendo di uno stile a tratti elementare nella sua schematicità, fatto di frasi brevi, sintetiche, scandite in modo preciso. La cattura diventa così un interessante esperimento in cui un evento storico viene collocato in un contesto non lontano dalla fiction: pur inanellando tutta una serie di problematiche che vanno dalle personalità di Barack Obama e George Bush, dalle funzioni dei consiglieri di stato alle catene di comando dell’esercito degli Stati Uniti, il racconto di Mark Bowden è avvincente e scorrevole. La cattura comincia, come è inevitabile, nei giorni successivi all’11 settembre 2001 e termina dieci anni dopo quando Osama bin Laden, nome in codice Geronimo, viene dichiarato “enemy killed in action”, definizione ufficiale con cui si conclude una lunga caccia all’uomo, vivo o morto (come poi finirà). Prendendolo per quello che è, la sintesi e la semplificazione di una sequenza di momenti storici molto complessa, La cattura riesce senza alcun dubbio a mantenersi in equilibrio sul fragile filo sospeso tra l’intrattenimento e l’approfondimento, operazione abbastanza consueta ai nostri giorni. A differenza di tanti mestieranti che finiscono per confondere in modo irrimediabile i due aspetti, Mark Bowden lo fa con quel tanto di stile e di accuratezza, almeno per quanto riguarda la scrittura, da risultare adeguato e convincente. Quello che non convince sono alcuni passaggi fondamentali su cui si basa La cattura: Mark Bowden sorvola spesso su molte questioni, lasciandole in sospeso, irrisolte e nascoste negli angoli bui di misteri e segreti di stato. Sulla natura stessa di Al Qaeda, rifornita (se non proprio organizzata) dagli aiuti americani per combattere l’invasione sovietica dell’Afghanistan, spende poche parole. Sull’operato dell’amministrazione Bush, prima e dopo l’11 settembre 2001 vengono tralasciati molti punti oscuri e d’accordo che “Bush era nato in una famiglia abituata all’esercizio del potere e, all’epoca degli attentati, era del tutto pronto a giocare in questo ruolo”, ma a promuoverlo sul piano dell’intelligenza ormai è rimasto soltanto lui. Ci sono molti aspetti non chiariti su tutta l’operazione e parecchi punti critici che Mark Bowden appena sfiora. Quello che non dice sembra bilanciare molte rivelazioni, a partire dal fatto che la missione era cominciata con un altro incidente ovvero un elicottero in avaria che è andato a schiantarsi nel compound di Osama bin Laden. Lo spettro di Black Hawk Down e di altri fallimenti, come l’operazione Desert One (il tentativo di liberare gli ostaggi trattenuti in Iran di cui ha scritto in Teheran 1979) sono ancora vivissimi nell’immaginario americano e ricordarli rendono onesta La cattura e, en passant, anche i suoi evidenti limiti. 

lunedì 12 novembre 2012

Maya Angelou

L’infanzia vissuta nel cuore dell’America povera, bianca e nera, osservata da una dimensione particolare: attraverso gli occhi di Marguerite alias Maya e del fratello Bailey prende forma tutto un singolare universo che ha il suo centro di gravità nell’emporio della nonna, chiamata Momma e dello zio Willie. “Se crescere è dolore per una bambina nera del Sud, rendersi conto di essere fuori posto è la ruggine sul rasoio puntato alla gola. E’ un insulto superfluo” scrive Maya Angelou e la metafora rende chiare, senza difetto di sorta, le coordinate in cui si sviluppa Il canto del silenzio. I riferimenti geografici, le implicazioni della storia nei risvolti sudisti, l’evocazione di un blues mai sopito nei secoli sono i sapori amari e pungenti che dissemina Maya Angelou: Marguerite è costretta a crescere presto  in fretta dall’habitat e dagli eventi, compreso uno strupro a otto anni e una gravidanza a sedici anni, e nonostante tutto nella sua voce mantiene salde le posizioni della spontaneità e persino di una palpabile vena ironica. Maya Angelou, con una prosa ricca e invitante, riesce a mantenere una grande equibrio tra la memoria e la consapevolezza del presente, tra l’urgenza di sottolineare la forza dei suoi piccoli personaggi e la necessità di circoscrivere (perché spiegarlo è davvero difficile) le distanze tra loro e il resto del mondo: “Che cosa distingue un paese del Sud da un altro, piuttosto che da una cittadina, un villaggio o una metropoli del Nord? La risposta sta nell’esperienza condivisa dalla maggioranza inconsapevole (il paese) e la minoranza consapevole (tu)”. L’onda latente e/o manifesta del razzismo è una costante, spesso sotterranea, subdola e invisibile che Maya Angelou è straordinaria nel rendere evidente: “Stamps, Arkansas, era Frustalo-Per-Bene, Georgia; Mettigli-Una-Corda-Al-Collo, Alabama; Negro-Sparisci-Prima-Del-Tramonto, Mississippi; o qualsiasi altro nome altrettanto descrittivo. La gente di Stamps diceva che nel nostro paese i bianchi avevano così tanti pregiudizi che un nero non poteva neanche comperare un gelato alla crema. Eccetto il quattro di luglio. Gli altri giorni si dovevano accontentare del cioccolato”. E’ nell’elaborazione del ricordo, nello sforzo della memoria, nella rigenerazione di un tempo lontano che Il canto del silenzio trae la sua forza, senza concedere nulla alla nostalgia o al rimpianto. Ha qualcosa di speciale, e di indefinibile tanto che persino James Baldwin ha fatto fatica a trovare una descrizione coerente: “Il canto del silenzio libera il lettore perché Maya Angelou affronta la sua vita con toccante stupore e luminosa dignità. Non ho parole per quest’opera, ma una cosa è certa: è dai tempi della mia infanzia, quando la gente nei libri era più reale delal gente che si vedeva ogni giorno, che non mi commuovevo tanto”. E Marguerite ci fa partecipe anche di quel “genio” che sarebbe stato al suo servizio per sempre: “i libri”, quelle piccole pietre con cui cerchiamo di mettere insieme un guado in mezzo alla vita. 

giovedì 8 novembre 2012

John Steinbeck

Capita che un torpedone scalcinato s’inchiodi nel bel mezzo del paesaggio californiano con a bordo tutti i suoi passeggeri. La compagnia forma un quadro picaresco e colorito, molto rappresentativo di un’umanità variegata. C’è di tutto, sulla corriera stravagante di John Steinbeck e il casuale incidente, tutto sommato una solida metafora dell’imprevedibilità e della casualità vita, sembra scardinare le esistenze, le convenienze e le convenzioni bloccate on the road, con una sorta di sottile euforia generale, che spesso si traduce in una marcata sensualità. Non c’è dubbio che il John Steinbeck da riscoprire in La corriera stravagante non è certo quello biblico di Furore o Uomini e topi, il cantore della famiglia di Tom Joad, dei derelitti e dei disperati, dei perdenti e dei fuggitivi, degli outsider di un’America lontana e polverosa. Da un certo punto di vista La corriera stravagante è più vicino all’epica di Pian della Tortilla o, almeno, alle stesse visioni. Perché, in fondo, l’incidente, in senso lato, che ferma La corriera stravagante è anche l’occasione perché i viaggiatori scoprano e diano un nuovo senso alla propria vita, vedendo “davanti alla corriera, la strada cantava la sua canzone”, un inedito orizzonte di libertà. A partire dal buon autista, che nelle prime pagine del romanzo si confessa così: “Certe volte sono proprio stufo di guidare quell’accidente di corriera avanti e indietro, avanti e indietro. Certe volte mi viene la voglia di piantare tutto e prendere la strada delle colline. Ho letto di un tale, un capitano di vaporetto a New York, che un bel giorno, senza tante storie, se ne andò per mare e nessuno ne ha saputo più nulla. O è affogato, o ha trovato da sistemarsi in qualche isola. Io lo capisco, un tipo così”. Prendere e partire è un tema che, come è noto, sarà ripreso in continuazione e all’infinito nella narrativa e anche nel rock’n’roll, a partire da Chuck Berry fino ad oggi, con o senza le valenze sociali che John Steinbeck gli ha sempre attribuito. Eppure c’è qualcosa, nel paesaggio attraversato dalla corriera stravagante, che comincia a sgretolarsi sulla superficie della strada, e non solo in senso metaforico: “Una scarpata franava, una buca si apriva, una fessura si formava, che un po’ di ghiaccio nell’inverno allargava: ed ecco che il cemento, incapace di resistere all’azione delle gome, cedeva”. Anche La corriera stravagante, nel suo eccentrico viaggio, non perde di vista la concreta, solida visione di John Steinbeck: anche nel baillame dell’allegra comitiva persa nel deserto affiora quella capacità di evidenziare da distanza ravvicinata le piccole e grandi variazioni cromatiche dell’animo umano. Per questo per La corriera stravagante con ogni probabilità valgono ancora le parole con cui nel 1954 John Steinbeck dedicava La valle dell’Eden ad un amico italiano: “Ci sono dolore ed eccitazione, sentimenti buoni o cattivi e pensieri cattivi e pensieri buoni, il piacere di disegnare e un po’ di disperazione e l’indescrivibile gioia della creazione”. 

mercoledì 7 novembre 2012

Ry Cooder

Quella di Ry Cooder è una Los Angeles dove i musicisti prendono il tram e le femme fatale arrivano in Cadillac ed è punteggiata da una miriade di piccoli locali dove succede tutto perché sono proprio i poli magnetici che attirano un’umanità variopinta e disorientata. La vida es sueño diceva Pedro Calderón de La Barca, la cui filosofia Ry Cooder nasconde dietro una canzone tradizionale ed è proprio con il suono, la musica, i silenzi a raccontare quell’incanto che “è racchiuso nella magia dello straordinario”, quella specie di sogno a occhi aperti con cui ricostruisce racconto dopo racconto l’idea di una città popolata da milioni di luci e altrettanti fantasmi.  E’ l’effetto che fanno le Los Angeles Stories di Ry Cooder: arriva John Lee Hooker, si ascolta Glenn Miller, si corre su strade incise nel deserto e tutto contribuisce a formare il mood di una città e della sua ragnatela di vite e di morti. La sfumatura noir che amalgama le Los Angeles Stories dipende dal fatto che “una pistola cambia le cose” ed è soltanto uno degli strati che sovrappone con gusto artigianale, minuzioso e misurato Ry Cooder: nella scrittura ha trasmesso le medesime modalità della sua musica, puntando sull’atmosfera, sul dettaglio impressionistico, persino sulla nostalgia dove è il caso. Non è difficile immaginare che le radici di queste Los Angeles Stories vadano cercata in Chávez Ravine, disco particolarissimo e geniale che Ry Cooder ha dedicato a un singolo quartiere della città, quasi una particolare porzione con cui confrontarsi. Nella filigrana delle Los Angeles Stories si intravedono, come sottili strati che si sono sedimentati con il tempo, e che Ry Cooder ha ricomposto sotto una malinconica luce, i resti di quelle storie e di quelle tradizioni. Una parte della città che è scomparsa per far posto alle speculazioni del cemento e all’asfalto, come nel resto del’area di Los Angeles. “Nel mio quartiere, o vai forte o te ne vai a casa” dice uno dei personaggi delle Los Angeles Stories e Ry Cooder, anche qui assecondando un gusto minimale e appassionato, sembra temere certe accellerazioni verso un futuro che è sempre più un’incognita. Non bisogna essere urbanisti o sociologi per rendersi conto che con le macerie se va tutta un’identità, viene uccisa tutta una storia, una cultura, una vita. Se serve l’opinione di un illustre cittadino, quella di Ray Bradbury dovrebbe bastare: “La verità è che Los Angeles non esiste. Con un po’ di fortuna, non esisterà mai. Dovremmo pregare che queste ottanta città in cerca di un unico centro non lo trovino mai. Il tessuto connettivo che un tempo fondeva la composita Los Angeles, i grandi treni rossi della Pacific Electric, è sprofondato nella polvere delle autostrade. E le autostrade? Sono affollate di gente che si avventura nella pericolosa vita metropolitana, sedotta dalle sue lusinghe. Sono piene di immigranti a bordo di carrette a benzina che ogni giorno devono trovarsi un qualsiasi posto dove andare, e il più delle volte non vanno da nessuna parte”.