martedì 4 dicembre 2012

John Cheever

Leggi qualcuno che sembra conoscerti a fondo, ed è il suo diario, non il tuo: Una specie di solitudine è un libro che sanguina. Prendete il mio corpo e il mio spirito sembra dire John Cheever rivelando la grandezza di uno scrittore che si spoglia senza esitazioni davanti a uno specchio che in realtà è una finestra spalancata sul mondo. Angoscia, passione, gioie e tormenti: gli ups & downs di John Cheever si susseguono senza soluzione di continuità, con un’aderenza alla vita quasi morbosa e con una percezione che fluttua di giorno di giorno perché “sembra che spesso quello che scambiamo per dolore o dispiacere sia la nostra capacità di porci in un rapporto vitale con il mondo, con questo paradiso quasi perduto. Certe volte ci svegliamo e ci accorgiamo che la lente che ingrandisce l’eccellenza del mondo e della sua gente si è rotta”. Sempre molto acuto e tagliente nel definire i profili dei suoi personaggi, John Cheever riversa le stesse attenzioni a se stesso e trasforma i diari racconti in Una specie di solitudine in una sorta di romanzo crudo e drammatico. Una sofferenza enorme (in gran parte dovuta al gin e al whisky), i controversi rapporti con le dimensioni famigliari, l’assidua e il più delle volte infruttuosa ricerca di “una vita di impossibile semplicità” e la continua rivendicazione di quella che John Cheever chiama “la legittimità della diversità” e che non sembra riferirsi solo alla sfera sessuale, sono i temi che si intrecciano e si sovrappongono nello sviluppo di Una specie di solitudine. Dalle pagine, anche nei passaggi più duri, aspri e disperati, emana un’incredibile energia con con John Cheever alimenta la sua scrittura. Anche qui il rapporto è tutt’altro che lineare: avido lettore, ci sono giorni in cui teme il confronto con i colleghi e amici (Saul Bellow, Norman Mailer, John Updike e Vladimir Nabokov  i più citati) e che nutrono il dubbio del fallimento (“Lo stile della mia scrittura sarà sempre in certa misura prosaico”) e altri in cui la necessità e l’indispensabilità della scrittura gli è più chiara perché “scrivere è l’alleato di molte cose splendide, la fede, la curiosità e l’estasi, e di molte cose brutte, imbrogliare, disegnare immagini oscene sulle pareti dei bagni pubblici, assentarsi dalla partita di baseball per scaccolarsi il naso in solitudine”. Senza alcuna precauzione, senza alcun inutile pudore, John Cheever raschia la sottile pellicola che nello stesso tempo lega e separa l’uomo e lo scrittore e condivide le sue confessioni più sentite, intime e profonde tanto nei passaggi più significativi la prima persona singolare diventa plurale. A quel punto John Cheever ci è più vicino che mai e non è difficile riconoscersi nello stesso riflesso quando dice che “abbiamo quasi tutto quello che desideriamo e di cui abbiamo bisogno eppure il nostro sentire è saturato dal senso di disincanto, come un filamento elettrico che si riempie di luce. Forse è solo che intravediamo la possibilità del fallimento oppure che abbiamo bevuto troppo sabato sera”. Una specie di solitudine è un libro che puzza di vita, quella vera.

1 commento:

  1. Comprato! come pure di L'avvoltoio di Tom Franklin; il tuo blog, per una come me che ama la letteratura americana, è un attentato al potafoglio!

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