mercoledì 17 ottobre 2012

Jon Krakauer

Come ricordava Henry David Thoreau, “siamo dei crociati miserabili” e deve essere stata anche la prima, intima considerazione che ha fatto Alexander Supertramp alias Christopher McCandless alias e fa capire anche perché ha scritto i suoi diari in terza persona come se, non solo si sentisse un estraneo davanti alla wilderness, ma fosse straniero anche a se stesso e ai ponti e ai legami che si è tranciato alle spalle. La sua storia (vera), raccolta non senza fatica da Jon Krakauer, è diventata Nelle terre estreme e a sua volta il libro si è trasformato in Into The Wild, il film di Sean Penn che, incuriosito dall’immagine e dagli strilli in copertina, l’ha preso e l’ha letto e riletto in una notte. La “disobbedienza civile” di Christopher McCandless in apparenza radicale e rivoluzionaria è frutto di una lunga e consolidata tradizione americana: le direzioni della partenza, verso ovest, verso nord dovrebbero essere indizi sufficienti per far collimare un’antica vocazione alla frontiera con altri orizzonti intravisti tra le righe dei libri di Jack London prima e Jack Kerouac poi. Proprio come un’ultima, incosciente scintilla di quell’esuberanza, e ormai diventato Alexander Supertramp, non si accontenta di un viaggio, dei suoi imprevisti, degli incontri, delle sorprese e di un ipotetico ritorno a casa. “Un uomo è beat ogni volta che rischia il tutto per tutto” diceva John Clellon Holmes e la svolta matura proprio “on the road”, rinunciando al denaro, all’automobile, al lavoro, in fondo persino alla propria identità, per diventare parte di un’utopia più grande, dove la libertà, o soltanto una speranza di sfiorarla, è legata in modo indissolubile alla vita (e alla morte) Nelle terre estreme. Anche nella forma rivista e corretta da Jon Krakauer, i grezzi diari di Alexander Supertramp sono la cronaca di chi si crea un destino, piuttosto che subirlo, e costi quel che costi. Quando ripete nei suoi ultimi messaggi la volontà di “entrare nella natura” è qualcosa in più e di diverso di un ritorno a casa, e va ricordato Simon Schama quando scriveva che “la wilderness, dopo tutto, non colloca se stessa in nessun luogo, non si assegna nessun nome”. Non c’è niente di esotico o di esoterico nel complesso viaggio di Nelle terre estreme e la conclusione, più che il finale, è quella giusta perché rimette ordine e ripristina un senso: mostra con lucidità che, non solo siamo parte della natura, ma che ne siamo anche la parte malata o, come diceva William Burroughs, siamo il virus che distruggerà ogni forma di vita sulla terra. Aggiungendoci la deformazione di chi ha il coraggio di sostenere che il clima è peggiorato, i ghiacciai si stanno sciogliendo, il mondo sta andando a puttane, come se fosse colpa delle montagne o dei fiumi o degli alberi. Quando poi, tutto quello che riesce a pensare il genere umano è di cambiare la macchina vecchia con quella nuova, anche se, come fa notare Christopher McCandless in un significativo passaggio all’inizio del suo viaggio, funziona ancora benissimo.

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