mercoledì 3 ottobre 2012

Henry Miller

Parigi è Parigi e “New York è un acquario”, ed è difficile districarsi tra “salamandre giganti e dipnoi e viscide cernie dai denti sporgenti e squali con pesci pilota a prua e a poppa. Se guardi nell’acquario vedi nuotare quei mostri rigonfi. Ogni tanto vedi una scardola, o una perca, o un merlango. Ogni tanto vedi un pesce pagliaccio. Ma perlopiù sono salamandre giganti e lumaconi e quelle murene viscide e verdi e scivolose che si insinuano tra le rocce e si leccano la coda”. New York è New York, una metropoli, uno stato, l’America e “l’America sembra nuova perché non c’è mai un elemento di paragone. L’America in realtà non esiste! Non sono che milioni di cose scollegate una dall’altra, o meglio collegate solo in quanto una parte di una macchina può esser collegata a un’altra parte”. Parigi è Parigi, “un grosso globulo che nuota nel sangue di quel grande animale che chiamano uomo” e nell’atmosfera francese la decadenza, il deterioramento, come qualsiasi processo chimico, è vitale: “Le cose marciscono e in questo rapido marcire l’ego si seppellisce come un seme e rifiorisce”. Henry Miller è in mezzo all’Atlantico quando scrive queste impressioni nel suo rapporto epistolare con Alfred Perlès, uno degli scrittori intrappolati dalla magia della Ville Lumière. E’ il 1935, Tropico del Cancro è un oggetto del desiderio che viaggia clandestino (ci vorranno quasi trent’anni prima che venga pubblicato in America) e Henry Miller è sempre più convinto che “qualcuno deve lanciare una chiave inglese nel meccanismo”. Di possibilità nella tratta Parigi-New York andata e ritorno ce ne sono un’infinità: il tono è colloquiale, immediato, intenso, senza mediazioni come se Henry Miller, invece di scrivere una lettera al suo compagno di avventura, stesse comunicando le proprie intenzioni en plein air al mondo intero. Un flusso inarrestabile, disordinato nell’esposizione, travolgente nella forma, polemico nella sostanza, anche se le richieste  e le aspirazioni di Henry Miller, nonostante l’enfasi e la ricchezza del vocabolario, non siano così straordinarie: “A un genio non si dovrebbe permettere di fare la fame. Dovrebbe fare la fame a metà, o a tre quarti. Gli serve quel poco di nutrimento per riempire un cestino del pane, ma quel poco gli serve sul serio”. Tutto qua, e il proposito per qualche bella (e importante) lettura sulla linea Parigi-New York andata e ritorno: “Un giorno leggerò Ezra Pound. Leggerò gli Unfinished Cantos al galoppo. Poi leggerò Gertrude Stein e Unamuno. Se ho altro tempo mi dedicherò alla Quarta Ecloga forse pure alle tre Ecloghe che la precedono. E ora chiedo una piccola pausa e un sonnellino. Sono le quattro, secondo il fuso orario orientale; se dormo in fretta posso svegliarmi esattamente alla stessa ora di Nagasaki o del Mozambico. Odio perdere tempo, il tempo è la sola cosa preziosa che possiedo”. Glien servirà parecchio, una volta tornato a casa, perché “l’America è un oceano. E’ tale e tanta che non riesci a vedere né il cielo né l’acqua” e dall’altra parte non c’è nemmeno Parigi ad aspettare. 

1 commento:

  1. Bella questa recensione, e il tuo blog è, almeno per me, una miniera in cui cercare ed estrarre libri da leggere. L'ultima estrazione è stato il libro Di Pete Fromm "Un inverno sulle Montagne Rocciose", da cui ho tratto, oltre alla piacevolezza della lettura, una serie di considerazioni sull'uomo e la natura.
    Grazie per aver linkato il mio blog, l'ho un pò abbandonato, ma è sempre lì ad aspettarmi...
    Un saluto, Maria

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