giovedì 4 ottobre 2012

Charles Bukowski

Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze è una ricca antologia di racconti e frammenti inediti, di “taccuini di un vecchio sporcaccione” e primi tentativi di dare forma alle “storie di ordinaria follia”, di prefazioni e recensioni e invettive che portano la firma del Bukowski più volitivo, rissoso, irascibile, tenero, comico, irriverente e sboccato, tutto insieme. Un maestro della vita giorno per giorno: non c’è scadenza o appuntamento che regga, una volta procrastinato all’infinito l’incubo della sveglia mattutina. Il suo tran tran è dedicato a quelle piccole e irrinunciabili esigenze che lo distinguono dal resto dell’umanità e nello stesso tempo lo rendono così umano: bere, amare (“Se togli l’amore, la metà del lavoro di un artista fallisce”) e scrivere a cui dedica qualcosa di molto simile a una preghiera: “L’atto di scrivere la parola è un atto miracoloso, la grazia salvatrice, la fortuna, la musica, quello che fa andare avanti. Mette in ordine tutto, chiarisce le stronzate, salva il culo a te e a molti altri. Se per caso arriva la fama grazie a questo, devi ignorarla, devi continuare a scrivere come se il tuo prossimo verso fosse il primo”. Se ha un pregio (e ne ha parecchi) Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze è quello di ricordare come Bukowski abbia costruito con costruito con maniacale devozione il suo personaggio, attenendosi con scrupolo millimetrico ai suoi lineamenti, senza cedere alla tentazione di cambiare attitudini e abitudini e anzi rivendicando il suo stare sul presunto lato sbagliato della vita e della strada perché tanto “giusto non è bello. Giusto è sinonimo di noia”. Il dogma chiarisce senza dubbi perché Bukowski non chiede mai permesso: uno apre le pagine di Scrivo poesie solo per portarmi a letto e si ritrova proiettato nella giornata di Chelaski, primo degli alias bukowskiani, senza poter concepire una via di scampo, un appiglio, uno svincolo che lo porti altrove, lontano dai bassifondi di Los Angeles e rimane invischiato nell’irrarrestabile sproloquio e travolto da uno tsunami di birre e vino da quattro soldi e sesso (“Per me, il sesso è bello e necessario, come il cibo, il sonno, la musica, la creazione, tutte cose che ti aiutano a vivere bene”). Riguardo allo scrittore, la ricchezza di Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze sembra sostenere invece l’opinione che Fernanda Pivano andava proponendo, a dispetto dell’immagine pubblica portata a spasso dal suo personaggio. Era convinta che Bukowski fosse un grande lavoratore, attaccato alla macchina da scrivere non meno che alla bottiglia. Un’idea che trova qui, tra una sbronza e una scopata, molti punti d’appoggio, soprattutto nell’etica, tutta sua e molto blue collar, con cui Bukowski si applicava alla scrittura: “L’uomo medio spreca otto ore per tornarsene a casa abbattuto e soddisfatto. Per lo scrittore non c’è mai soddisfazione; c’è sempre il prossimo lavoro che deve essere fatto”. Dietro la scorza ruvida, c’era un poeta convinto che metà di un artista è amore, e il resto conta sì e no.

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