mercoledì 19 settembre 2012

T. C. Boyle

Una stramba creatura appare nelle foreste francesi pochi anni dopo la rivoluzione. E’ un piccolo essere umano non troppo umano e suscita sorpresa, sgomento, disorientamento nei villaggi che si trova ad attraversare. Incapace di andare oltre le strette necessità primordiali (il cibo, prima di tutto), una volta catturato, Il ragazzo selvaggio diventa prima un fenomeno da studiare e poi un cittadino da rieducare, non tanto per il suo benessere quanto per ristabilire la correttezza delle distanze tra la civiltà e la natura, tra l’ordine e il caos. L’epicentro del romanzo sembra trovare le sue coordinate ideali nelle parole che Jean-Jacques Rosseau scriveva nelle prime pagine dell’Emilio: “L’uomo naturale è un’entità del tutto a sé stante, è l’intero assoluto che ha rapporto solo con se stesso o con suo simile. L’uomo civile non è che un’unità frazionaria condizionata dal denominatore e il cui valore risiede nel rapporto con l’intero, che è il corpo sociale. Le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio riescono a snaturare l’uomo, a privarlo della sua esistenza assoluta per conferirgliene una relativa, a inserire l’io nell’unità comune, di guisa che ogni singolo individuo non senta più se stesso come unità, ma come parte dell’unità, e non abbia rilevanza alcuna se non nel tutto in cui è assorbito”. Si capisce che Il ragazzo selvaggio è una mina vagante per il nuovo ordine sociale: la sua è un’identità che è situata da qualche parte tra l’innocenza, la crudeltà del mondo animale e il destino di un’umanità evoluta nelle forme di pensiero o di convivenza, o almeno così sembra perché all’epoca della rivoluzione francese, lo strumento più innovativo era la ghigliottina. Il problema è che Victor, questo il nome che Il ragazzo selvaggio si ritrova a sua insaputa, si rifiuta di parlare e di apprendere e quando, dopo interminabili fatiche, il dottor Itard riesce a fargli pronunciare alcuni suoni gutturali e (almeno) a riconoscere qualche oggetto e ad associarlo ad altrettanti nomi, è troppo tardi. Il tema a suo modo è un classico e T. C. Boyle lo affronta con circospezione, come se fosse lui Il ragazzo selvaggio che entra di nascosto nelle stanze riservate della letteratura: è il capolavoro di una scrittura per sottrazione, che pur essendo minuziosa e scrupolosa nella forma, lascia in sospeso un’infinità di temi. Sono spazi aperti e selvaggi per il lettore, ma non indefiniti perché all’essenzialità di T. C. Boyle corrisponde altrettanta precisione. Si spiega solo così perché Il ragazzo selvaggio rimane confinato nel ristretto ambito delle cento pagine: dalla sua riflessione sul linguaggio (o meglio sulla sua mancanza così come è di normale condivisione, parlato e/o scritto), T. C. Boyle apre una lunga serie di crepe sulle certezze dell’ordine costituito dall’istruzione in poi e sembra accostarsi piuttosto a “quella attitudine alla pietà”, come la chiamava Claude Lévi-Strauss, che dovrebbe essere il minimo comun denominatore per tutti gli “esseri sofferenti” dell’umanità. Un piccolo libro per grandi pensieri.

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