venerdì 3 agosto 2012

Ernest Hemingway

Hemingway, in tutta la sua passionalità, in Addio alle armi mescola storia, cronaca, finzione e opinione con quel savoir faire irresistibile. Sembra dare per scontato che il lettore conosca, sia informato, capisca senza ulteriori spiegazioni. Una confidenza con la scrittura che permette ai fatti, quelli con tutti i riscontri nella realtà e quelli creati ad hoc, di giustificarsi e definirsi in completa autonomia. La forma è quella e l’Addio alle armi di Frederic Henry, la sua diserzione e la sua fuga d’amore (“Stavo andando a dimenticare la guerra. Avevo fatto una pace separata”), nascono, prima di tutto, dall’esperienza di Hemingway sul campo e al fronte (italiano) della prima guerra mondiale che l’ha portato a definire un’opinione e cruda, alla base del romanzo: “Siccome di guerre ne ho fatte troppe, sono certo di avere dei pregiudizi, e spero di avere molti pregiudizi. Ma è persuasione ponderata dello scrittore di questo libro che le guerre combattute dalla più bella gente che c’è, o diciamo pure soltanto dalla gente, per quanto, quanto più ci si avvicina a dove si combatte e tanto più bella è la gente che si incontra; ma sono fatte provocate e iniziate da precise rivalità economiche e da maiali che sorgono a profittarne. Sono persuaso che tutta la gente che sorge a profittare della guerra e aiuta a provocarla dovrebbe essere fucilata il giorno stesso che comincia a farlo da rappresentanti accreditati dai leali cittadini che combatteranno”. Il rocambolesco viaggio di Frederic Henry dalle macerie di Caporetto alle sponde del lago Maggiore inseguendo l’amore di Catherine Barkley è un drammatico tentativo di trovare un senso dove non c’è: la devastazione della guerra, il suo orribile ripetersi, perché “c’è qualcuno che non lo capisce mai”, non è soltanto il fondale, il paesaggio, il terreno e l’orizzonte di Addio alle armi. Attraverso Frederic Henry, Hemingway legge attraverso il vuoto che aprono “parole astratte come gloria, onore, coraggio o dedizione” o ancora “sacro, glorioso e sacrificio” quando poi anche la guerra rimane immobile e dura per sempre non c’è nulla di eroico della disfatta, della distruzione, nel massacro e nella disperazione. Hemingway si infila in quella paurosa terra di nessuno, dove le parole sono travolte con tutto il resto, e le rimette nelle mani dei suoi protagonisti che hanno così modo di esprimere tutta la lancinante natura del proprio dolore, come confessa Frederic Henry: “So che la notte non è come il giorno: che tutte le cose sono diverse, che le cose della notte non si possono spiegare nel giorno perché allora non esistono, e la notte può essere un momento terribile per la gente sola quando la loro solitudine è incominciata”. Addio alle armi è una porta aperta sul ventesimo secolo perché soltanto i romanzi, certi romanzi, dicono la verità e questo, anche nel suo volitivo essere, non concede nulla perché “non troviamo mai niente. Siamo nati con tutto quello che abbiamo e non impariamo mai”. Hemingway single malt al 100%.

3 commenti:

  1. Bellissima recensione. Più attuale rispetto ad altri eroi celebrati come Fitzgerald, nonostante le apparenze.
    Hemingway resta un gigante di ogni tempo.

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    1. Grazie Federico, concordo senza dubbio.

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    2. Senza nulla togliere al "Great American Dreamer", ovviamente.

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