lunedì 16 luglio 2012

Norman Mailer

Attraverso la riduzione biografica della singolare individualità di Marilyn Monroe, Norman Mailer mette sul piatto un ritratto feroce dell’America, il riflesso delle emozioni di un’intera nazione. La sua rivisitazione in Marilyn è eccessiva nei toni, Norman Mailer è Norman Mailer, eppure lucida, accurata, precisa nella collocazione di Marilyn nel caotico immaginario americano (a partire dal cinema, come è naturale). Quella che, in superficie, simboleggia “la relazione amorosa di ogni uomo con l’America” diventa, con l’approfondirsi dell’analisi, il primo segnale di “un senso imperiale di autogiustificazione” che s’impone negli anni febbrili che poi porteranno a Nixon, a suo modo un’altra icona. Il ricorso al saccheggio di altre biografie, utile a confrontare dati sensibili e a cercare di organizzare quei “fattoidi” che costituiscono una biografia e che sono sono più complicati da gestire dai fatti che formano un romanzo, induce Norman Mailer a lasciare aperte tutte le ipotesi su Marilyn. Con uno sguardo sottile e perfido, anche se non privo di una punta di affettuosità nei confronti di Marilyn, Norman Mailer punta una luce neutra su di lei: è accompagnata, accudita e protetta nel corso della storia in forma di romanzo, come non lo è stata nella realtà. E’ a tutti gli altri che Norman Mailer riserva un trattamento che non risparmia nulla: il tono è sempre sferzante, critico e puntiglioso e il romanzo della vita di Marilyn diventa un’altra occasione per l’espressione di un dissenso, ancora attuale (Marilyn risale al 1973) perché, in sostanza, la sua storia “è la classica commedia da cittadina americana. La gente impazzisce in tranquille logore strade all’estremità dell’abitato mentre l’invidia è generata e le convenienze sono ora ignorate ora rispettate. Eppure il fondamentale senso della follia americana, quella violenza che vive come un ronzio elettronico dietro il silenzio anche dei più sonnacchiosi pomeriggi domenicali, cova nelle balsamiche serate subtropicali di Hollywood libere dallo smog: la visione della frontiera americana è finita in un visore per diapositive per uscirne sotto forma di spettri di tre metri su uno schermo”. Anche quando cerca di restare nel recinto della sua personalità, Norman Mailer non riesce a distaccarsi dall’idea di Marilyn come l’estrapolazione di un desiderio, la proiezione di un istinto perché “era senza dubbio qualcosa di più e qualcosa di meno dell’argentea incantatrice di tutti noi. Nella sua ambizione, così faustiana, e nella sua ignoranza delle dimensioni della cultura, nelle sue nobili aspirazioni democratiche intimamente contraddette dal sempre più ampio stagno del suo narcisismo (dove ogni amico o schiavo doveva bagnarsi), possiamo vedere lo specchio ingrandito di noi stessi, la nostra generazione esagerata e ora decisamente sconfitta”. Forse la sua Marilyn non è esaustiva né nel senso della biografia né nel senso del romanzo (nel caso biosgna ricorrere a Blonde, il monumentale ritratto di Joyce Carol Oates), ma è perfetta nel raccontare forza, debolezza e altre contraddizioni di un’icona americana del ventesimo secolo.

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