lunedì 28 maggio 2012

Kurt Vonnegut

E’ una comica nel senso più classico del termine: umorale, liquida, perspicace. Se esiste una definizione migliore, è quella di Ralph Waldo Emerson che diceva: “Separate qualunque oggetto, come un particolare uomo, un cavallo, una rapa, un barile di farina, un ombrello, dalla connessione delle cose, e contemplateli da soli, stando lì nell'assoluta natura, e tutt'a un tratto divengono comici; nessuna qualità utile, rispettabile, può salvarli dal ridicolo”. Il profilo della Comica finale combacia alla perfezione: un tourbillon di idee, un flusso inarrestabile di provocazioni e di sentenze lapidarie che si manifesta come uno dei momenti più travolgenti della scrittura di Kurt Vonnegut. Gli elementi della sua identità di narratore ci sono tutti: ritmo, ironia, quello sguardo tagliente verso il mondo, verso se stesso, verso tutto. A partire dalla postilla che Kurt Vonnegut scrisse per l’edizione italiana, una sorta di confessione dove persino l’autocritica diventa l’occasione per tagliare i ponti con schemi consunti e pietrificati: “Non ho mai imparato cosa di dovrebbe mettere in un romanzo, e cosa si dovrebbe lasciar fuori, e quali dovrebbero essere il tono e la struttura, e via dicendo. Loro lo sanno, io no. Così, nella mia ignoranza, ho rovinato questo e parecchi altri romanzi con quella che per loro è mancanza di serietà; e ho fatto cattivo uso della fiction per diffondere le mie strampalate idee sugli Stati Uniti d’America”. Pur essendo fuori dai canoni, caotico e anarcoide, capace di prendere un rivolo di autobiografia e di trasformarlo in un torrente impetuoso di parole che travolge tutto, Kurt Vonnegut dissemina nella sua Comica finale due o tre passaggi che nel cercare di comprendere l’identità del mondo americano non sono affatto così strambi. Anzi, sono molto lucidi a partire dalla fondamentale precisazione che “Se nessuno ve l’avesse ancora detto questi sono gli Stati Uniti d’America dove nessuno ha il diritto di contare sull’aiuto di qualcun altro: dove tutti devono imparare a farsi strada da soli”. Anche quella delicata struttura che è la famiglia, e la sua è protagonista a più riprese della Comica finale, non può assumere ruoli determinanti, se non sperare di “venire a patti in buona fede con il destino”. Anche in questo caso, Kurt Vonnegut non tradisce il gusto per l’iperbole e mentre sbeffeggia le banalità quotidiane dei luoghi comuni (“I veri problemi erano il tempo, che continuava a peggiorare, e la gravitazione”) coglie un aspetto fondamentale della vita americana e lo fissa in una frase che suona come un emendamento alla costituzione: “Tutti gli eccessi rovinosi degli americani sono stati motivati dalla solitudine più che da un’inclinazione al peccato”. La scrittura di Comica finale è uno specchio deformante che rilegge la realtà, la trasfigura, la rende comprensibile. Iconoclasta, incontrollabile, caustico e polemico, eppure distinto da un tratto di leggerezza che lo rende sempre brillante, Comica finale è più americano dell’America.

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