mercoledì 25 aprile 2012

Stephen King

Anche come saggista Stephen King non rinuncia alla sua verve, alla sua dimensione autobiografica e soprattutto alle sue passioni, le storie dell’orrore e del fantastico. Il racconto di Stephen King attraverso il cinema, la televisione (“Chiudete gli occhi, però, mentre danzeremo attraverso il tubo catodico; ha la brutta abitudine di ipnotizzare e poi di anestetizzare”) e la narrativa (con un continuo richiamo al rock’n’roll, e non è male la sua visione di Ramones e Sex Pistols come di un “ritorno al futuro”) è personalissimo, sempre disposto alla divagazione, convincente e colto. Cita, tra gli altri, Hunter Thompson, Joan Didion, Richard Matheson, Harlan Ellison, Henry James e l’elenco è molto lungo e articolato: Stephen King è un lettore attento alle singole peculiarità di ogni narratore, di cui ha modo di sfogliare i romanzi, sapendo che il minimo comune denominatore è che “la narrativa è fatta di bugie su bugie” e in fondo “il romanzo è la verità dentro la bugia, e nella storia dell’orrore, così come in qualsiasi altra storia, la stessa regola vale oggi così come valeva al tempo in cui Aristofane raccontò la sua storia dell’orrore sulle rane: la moralità è dire la verità come il tuo cuore la intende”. Danse Macabre sembra più una lunga confessione, in questo speculare e complementare a On Writing, una florida dichiarazione di intenti, un omaggio ai suoi maestri e insieme una continua precisazione della necessità e dell’utilità dell’orrore e del fantastico. Senza tentativi di aggrapparsi a un’elevazione particolare, che non è e non sarà indispensabile: il suo è un gusto pop, inteso nell’originaria contrazione di popular, e dal un punto di vista estetico, è facile condividere l’idea per cui “l’orrore davvero diventa una danza, una ricerca continua, ritmica. Ed è alla caccia del luogo dove tu, lettore o spettatore, vivi al tuo livello primitivo”. Il suo scopo, pur nelle svariate forme ed espressioni che assume è una sorta di elaborato esorcismo (“Costruiamo orrori per aiutare a convivere con gli orrori del reale”) e, nella candida ammissione di Stephen King, anche un modo per riciclare la nostalgia perché “l’immaginazione è un occhio, un meraviglioso terzo occhio che fluttua in libertà. Da bambini, quell’occhio ha una vista di dieci decimi. Man mano che cresciamo, essa comincia a offuscarsi… E un giorno il tizio accanto alla porta ti lascia entrare nel bar senza chiederti alcun documento di identità; e se vuoi capire capisci: ormai sei dall’altra parte. E’ negli occhi. Qualcosa che è nei tuoi occhi. Guardateli nello specchio e dimmi se sbaglio. Il lavoro dello scrittore del fantastico, o dello scrittore dell’orrore, è di allargare temporaneamente le pareti di quella visione a tunnel; di fornire quel terzo occhio di una singola, potente lente. Il lavoro dello scrittore del fantastico o dell’orrore è di farti tornare temporaneamente bambino”. La ripetizione dell’avverbio rafforza l’idea della Danse Macabre: un viaggio verso quel tempo in cui le storie (e non solo dell’orrore e del fantastico) dominano su tutto e tutti.

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