lunedì 19 marzo 2012

Douglas A. Martin

Una traccia del mio amore non è l’ossessione del fan per un oggetto del desiderio virtuale, per la vita da sogno della rock’n’roll star, per un mondo fantastico, per una visione inseguita con maniacale assiduità, sapendo che è inarrivabile. E’ una love story dolorosa e cristallina, persino sincera quando Douglas A. Martin confessa nelle prime pagine di Una traccia del mio amore: “Il desiderio è tutto quello che ho. Tutto quello a cui mi posso aggrappare”. Colpisce subito la scrittura pulita, ordinata, precisa, soprattutto nella prima parte, quando deve raccontare “la stagione del cambiamento, un tempo in cui non ti lasciava dormire l’eccitazione di una promessa ignota, qualcosa di là da venire. Un altro giorno, un’altra mattina. Un’altra esaltazione da attraversare fino in fondo. Un mattino ti svegliavi ed era lì”. Poi si fa più schematica, quasi a voler dare ordine a un legame impalpabile tra un ragazzo incompiuto, timido, silenzioso e la rock’n’roll star fragile, coerente, sfuggente per natura, sempre in partenza. Quando trova l’amore, agognato, atteso, sperato è quello del cantante colto e indecifrabile che ha reso famosa la città di Athens, Georgia. L’incontro è casuale e avviene bevendo, ballando, immersi nella musica e nelle comuni amicizie e si trasforma in un intreccio complicato tra due persone che condividono qualcosa che appartiene ad un’era che precede i ricordi nonché un’infinità di differenze e di distanze. Sono due estremi che si attraggono per la comune di necessità di essere qualcuno per qualcun altro, di essere considerati, di essere vivi. Fin dai primi giorni la condizione del suo “amore” che deve partire, perché viaggiare è una parte preponderante del suo lavoro, è foriera di lunghe assenze e fosche previsioni. Il rapporto dura qualche anno e si consuma tra tour, saluti, case ammobiliate con scatoloni che nessuno vuoterà, momenti di pura passione e lunghe ondate di incomprensione. E’ una storia di tormento ed estasi perché stare in una rock’n’roll band è un affare esclusivo, è più di un lavoro, è più di una vita e c’è trattativa che tenga. Douglas A. Martin deve insegnarsi “a essere qualsiasi cosa” per rimanere abbracciato a quell’amore in salita, fino a quando l’imponderabile non diventa l’inevitabile realtà. La separazione avviene in modo drastico, eppure quasi senza produrre un rumore perché intorno tutto continua a funzionare e “la gente continua a incontrarsi. Continua a credere di vivere. O forse a loro basta, per loro questa vita è più che sufficiente”. Quando resta soltanto una traccia del suo “amore”, Douglas A. Martin si aggrappa a quello che gli rimane, come sempre, come chiunque e sono soprattutto le parole che ritrova così: “Penso al suono che fanno le cose. Voglio che nella mia mente scorrano soltanto parole che conosco, che posso controllare, capire facilmente. Se mi circondo di parole a sufficienza, loro sono mi abbandoneranno più. Voglio che le parole continuino a scorrermi nella mente”. Intenso, scomodo, struggente. 

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