sabato 28 gennaio 2012

Edgar Lee Masters

Gli “epitaffi viventi” di Edgard Lee Masters sono ballate grezze e lucenti che nell’arco di pochi versi dettano una vita intera. Le epigrafi raccontano una storia attraverso le biografie e i modi di morire sono tanti e tali quanti i modi di vivere. Se ne intuisce la necessità  leggendo sulla lapide di George Gray che “dare un senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio” e con l’Antologia di Spoon River Edgar Lee Masters riesce nel mirabile paradosso di spiegare un senso possibile della vita, parlando dalla e della morte.  Le iscrizioni (e i monumenti) sulle tombe dicono molto, con poche parole, ma non dicono tutto, se prese una per una. L’individuo è peculiare, perché come dice Flossie Cabanis “in questo luogo di silenzio non ci sono spiriti fratelli” e si è soli nella vita come nella morte ma è la rete che collega le esistenze che forma l’essenza dell’Antologia di Spoon River. Visti in filigrana, ci sono legami impalpabili ad annodare tutti quelli che dormono sulla collina. La natura stessa della smalltown su cui (molto più delle metropoli) si fondano le basi della cultura americana diventa l’ambito della specifica ricerca in cui l’Antologia di Spoon River assume via via valori universali partendo da qualche ettaro di terra (e di cielo). Sono i temi umani, troppo umani (come dice Petit, il poeta: “La vita intorno a me, nel villaggio: tragedia, commedia, valore e verità, coraggio, costanza, eroismo e fallimento”) che Edgar Lee Masters mette in scena con il lirismo di una tragedia greca e la sensibilità di Shakespeare (le sue fonti primarie). Se classiche sono le fondamenta, la forma è nuova, moderna, coraggiosa: una ballata che ha più parenti con la nascente musica americana che nella tradizione letteraria, che l’Antologia di Spoon River ha travolto. Innovativa e pericolosa, perché agisce dentro il linguaggio, nel vocabolario popolare, nei luoghi comuni e lo evolve, lo eleva: “la lingua è magari un membro indisciplinato, ma il silenzio avvelena l’anima” ed Edgar Lee Masters scova che un fenomeno tra la musica e la poesia a cui affidare una specie di rivoluzione cantata da un coro di fantasmi. E’ così che l’Antologia di Spoon River diventa a sua volta un classico, il cui valore è e sarà immutabile nel tempo. Quanti direttori Whedon vediamo all’opera (infidi e pericolosissimi) tutti i giorni? Quante volte ci si può riconoscere in Jonathan Swift Somers? O, “affrontando il silenzio, affrontando la prospettiva che nessuno avrebbe saputo della battaglia da me combattuta, in Jefferson Howard? Quanti giovani sfortunati si sono imbattuti nel fervore dei sermoni dell’Henry Phipps di turno e da soldati sono poi rimasti impigliati tra “prepotenza, obio, abbrutimento e giornate di disgusto e notti di terrore fino all’assalto traverso la palude fumante, seguendo la bandiera” per finire Harry Williams, con “gli intestini trapassati” e distesi per sempre sotto quella bandiera? La risposta soffia nel vento, lassù sulla collina di Spoon River.

1 commento:

  1. Una forte emozione
    più che una recensione.
    Complimenti, Marco Denti
    che scrivi quel che senti.
    Paola

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