martedì 31 maggio 2011

Mykle Hansen

Nella geografia americana l’Alaska è un luogo in gran parte imponderabile e che suscita sentimenti contrastanti. Troppo selvaggio per incontrare un mondo basato su un altro ordine di idee o per dirla con Marv Pushkin, il protagonista di Missione in Alaska, “chi lo vuole, un panorama, quando ci sono gli effetti speciali?”, e non è una domanda retorica. D’altro canto l’Alaska è anche un territorio di conquista per via dei giacimenti petroliferi e costituisce una sorta di ultima frontiera americana. I due elementi, l’aspetto della wilderness e lo sfruttamento delle risorse naturali, sono sottintesi nel romanzo di Mykle Hansen e non sono i presupposti della Missione in Alaska, ma rimangono sempre sullo sfondo del delirio, tutto umano, interpretato da Marv Pushkin. Il fulcro della Missione in Alaska è lui: “condottiero aziendale”, arricchito e arrogante, con una moglie ormai consumata e un’amante devota e giuliva, più SUV delle dimensioni di un carro armato decide di portare tutta la Divisione Immagine in vacanza tra abeti e ghiaccio, uno di quei viaggi senza senso a cui vengono incollati significati ancora più idioti come lo spirito di squadra. Per Marv Pushkin, la Missione in Alaska ha ben altro fine. A lui non importa nulla dei suoi collaboratori, se non che rimangano sottoposti e umiliati per sempre, perché la carriera è sua e soltanto sua. Non gli importa nulla della wilderness, anzi è convinto che “la natura è una spina nel fianco dell’umanità. Il tempo della natura è ormai passato, e io la odio, questa natura del cazzo”. Lo scopo della trasferta è l’eliminazione della moglie, per giungere all’eredità, attraverso uno stratagemma che prevede la complicità degli orsi che, con una qualche ragione, ritengono che l’Alaska sia ancora casa loro. Il principale difetto del piano di Marv Pushkin è considerare troppo umani gli orsi, cioè considerarli prevedibili e scontati. Poi c’è un aspetto relativo, ma comunque non trascurabile e riguarda proprio il “condottiero aziendale” che, imbottito di psicofarmaci e di adrenalina e di se stesso, si ritrova fuori luogo, impacciato e disastroso. Lontano dalle comodità, privato delle sue leve di potere Marv Pushkin finisce vittima del suo stesso complotto, con una gamma di prospettive che vanno dal ridicolo al drammatico senza soluzione di continuità. L’aspetto più interessante di Missione in Alaska è proprio il tono caustico e corrosivo di Mykle Hansen, che sceglie di far parlare in prima persona Marv Pushkin, regalandogli tutte le responsabilità. Anche se la logica degli eventi è da fumetto o da film di serie b, Missione in Alaska allinea una bella serie di scene allucinanti (compreso il lungo ed eloquente finale) in cui la dimensione della realtà si sovrappone alle elucubrazioni di Marv Pushkin, ai suoi sogni e, non ultimo, al suo delirio e Mykle Hansen è abbastanza abile da tirare dritto con la sua stramba e acidissima storia che, nonostante un sacco di alti e bassi, si regge sulle sue gambe (e non è una battuta). 

Charles Bukowski

Il suo mondo di “ordinaria follia” è più beat dei beat ed è più lost dei lost: Charles Bukowski è un outsider geniale e incontrollabile che si inventa un universo tutto suo dove il sesso (più di ogni altra cosa), le corse ai cavalli, la birra e il vino costituiscono gli elementi standard del racconto, i soggetti con cui costruisce la sua narrativa e con cui sviluppa la sua stessa voce. Le sfumature scandalose, se ancora si possono chiamare così, le espressioni colorite dello slang, la punteggiatura che va e viene secono un’anarchia totale delle pagine rendono Bukowski unico soprattutto per lo stile, per il linguaggio, per il modo di affrontare la scrittura. Uno dei suoi possibili autoritratti, Storie di ordinaria follia ne è pieno, è questo: “Faccio scorrere l’acqua calda, mi immergo nella vasca, stappo una birra, do una scorsa al bollettino delle corse. Il telefono squilla. Lo lascio suonare. Per me, per voi magari no, per me fa troppo caldo per scopare o per parlare con qualche poeta di second’ordine. Hemingway, lui aveva i suoi tori, a me, datemi solo un cavallo. Per me è la prima cosa”. La sua filosofia invece distingue con chiarezza tra le aspirazioni del vincente e l’eterna condizione del loser. Se la vittoria è l’aspirazione nazionale (come scrive all’inizio di Storie di ordinaria follia: “Uno deve riuscire vincitore in America, non c’è niente da fare, non c’è altra via d’uscita, e bisogna imparare a combattere per niente, senza fare domande”) il fallimento e la sconfitta sono gli argomenti preferiti di Bukowski che vivendoli giorno dopo giorno, a modo suo s’intende, ha imparato a riconoscerli a prima vista, tanto da credere di potere insegnare a sua volta la lezione. Eccola qui: “Tutti perdono. Guardateli. Se ne siete capaci. Un giorno alle corse v’insegna più di quattro anni all’università. Se mai insegnassi scrittura creativa, inviterei i miei allievi a recarsi all’ippodromo una volta a settimana e fare almeno una giocata da 2 dollari per ogni corsa. Sul vincente. Non sui piazzati. Chi gioca i piazzati è uno che avrebbe preferito restare a casa, ma poi è andato lo stesso alle corse. I miei allievi diverrebbero senz’altro più bravi a scrivere, anche se molti di loro comincerebbero a vestire in modo trasandato, e dovrebbero magari andar a piedi. Mi ci vedo, insegnante di scrittura creativa”. Chissà il divertimento, ma quello che si propaga da Storie di ordinaria follia è qualcosa che va oltre la scrittura: è un modo irriverente, sfrontato, risoluto e convinto di rimanere ai margini, di godersi la vita con poco e niente, come lo stesso Bukowski confessa: “L’unica premessa era che io non avrei chiesto nulla. E, sopra tutto questo, c’era come una specie di disco che girava e girava, nel retro del mio cervello, e ripeteva sempre lo stesso motivetto: non tentare, non provarci. Una buona norma, direi”. La vera forza di Storie di ordinaria follia e per estensione di Bukowski in lungo e in largo è proprio quella: distinguersi per eccesso di ribasso, accontentarsi di un posto caldo, di una birra fredda e, nella giornata giusta, di un buon cavallo. Il resto è superfluo. 

domenica 29 maggio 2011

Jack Kerouac

Jack e Neal partono dopo aver ascoltato The Hunt di Dexter Gordon con il vento del sassofono che li spinge euforici: “Eravamo tutti felici, capivamo che ci stavamo lasciando alle spalle confusione e sciochezze per svolgere l’unica e nobile funzione che avevamo a quel tempo, andare”. Il viaggio diventerà Sulla strada che a sua volta ha avuto una storia complicata, riflesso della sua identità incompleta e infinita. Infinita proprio perché incompleta, indefinita, non raffinata. Un viaggio che puntava soprattutto verso nuove dimensioni mentali, piuttosto che in cerca di destini topografici, come ha capito per tempo Henry Miller, che ha detto: “La nostra meta non è mai stata un luogo, piuttosto un nuovo modo di vedere le cose”. Jack Kerouac butta giù tutta una serie di “schizzi” e Sulla strada prende forma da “un romanzo poetico, o meglio, un poema narrativo, un epos a mosaico” e ben preso si evolve “una convenzionale rassegna narrativa di viaggi sulla strada ecc. in un’ampia e multidimensionale evocazione caratteriale conscia e inconscia”. Le esperienze “on the road”, le visioni di Neal (Cassady) e i tormenti di Jack (Kerouac) mezzo secolo fa diventarono un “rotolo” battuto a macchina senza soluzione di continuità con l’idea che “qualcosa ne sarebbe venuto fuori comunque. Si può sempre andare oltre, un po’ più in là---non si finisce mai”. Anche il “rotolo” che ormai appartiene alla leggenda di Sulla strada è in realtà un collage di fogli e nastro adesivo e per giungere nella sua forma naturale sono dovuti passare cinquant’anni. Prima, Sulla strada ha dovuto subire tagli & ritagli e ritrovarsi “migliaia di virgole inutili” perché in una suite jazzistica la punteggiatura non esiste e Jack Kerouac aveva altri punti di riferimento: “E allora io avevo parecchie simpatie romantiche, e sospiravo alla mia stella. Il nocciolo della questione è, si muore, si muore e basta, eppure si vive, sì si vive, e non è una frottola di Harward”. Lontano dalle accademie, l’inno alla libertà intonato da Sulla strada è stato celebrato e vituperato nello stesso modo e la sua influenza è stata più importante e in molti casi fondamentali altrove rispetto all’esperienza letteraria, per quanto si tratti di uno dei romanzi più coraggiosi e rivoluzionari del ventesimo secolo. Come il suo autore, Sulla strada è complesso & contradditorio e va letto in tutte le sue sfumature, anche a costo di riscoprire un Jack Kerouac che dice: “Credevo fermamente in una buona casa, in una vita sana e corretta, nel buon cibo, nel divertimento, nel lavoro, nella fede e nella speranza. Ho sempre creduto in queste cose. E con un certo stupore mi resi conto di essere una delle poche persone al mondo che credevano davvero in queste cose ma non andavano in giro a farne una tediosa filosofia borghese. All’improvviso mi ritrovai con un pugno di stelle impazzite in mano e nient’altro”. Più di altre frasi famose e citate in questo frammento del “rotolo” c’è tutto Jack Kerouac, anche il futuro, il suo e quello di una generazione di beati e battuti.

Philip Roth

C’è stato un momento nella storia degli Stati Uniti d’America in cui Charles Lindbergh, il leggendario aviatore che attraversò l’Atlantico, godeva di una popolarità enorme e da quel palcoscenico gettò nel panico intere comunità con discorsi ambigui, se non di provate simpatie naziste. Il complotto contro l’America è costruito su un presupposto storico fittizio, Charles Lindbergh eletto presidente degli Stati Uniti d’America, ed è un gioco di specchi deformanti e instabili che vertono attorno a un’incognita. La sua complessità nasce da quel grumo congenito, una temeraria trasformazione della realtà per provare a raccontarne un’altra, o forse sarebbe meglio dire un incubo. Può un pretesto storico frutto della fantasia reggere sulla distanza? Il complotto contro l’America è, per certi versi, un grido di dolore nei confronti di un senso di minaccia incombente. Lo scenario che dipana è frutto della condizione americana agli inizi di questo secolo, una cappa di paranoia e paura. “Il nostro paese è in pace. La nostra gente è al lavoro. I nostri figli sono a scuola” eppure c’è qualcosa che è sempre sul punto di esplodere in quella calma apparente. Sono i particolari della vita quotidiana a scoprire le vere trame del complotto contro l’America, a mostrare come incidono certe tensioni nella vita e nei rapporti di tutti i giorni perché “la storia è tutto ciò che accade dappertutto”. Basta una dichiarazione o un appuntamento ufficiale per scatenare Il complotto contro l’America: “Lo svolgersi dell’imprevisto era tutto. Preso alla rovescia, l’implacabile imprevisto era quello che noi a scuola studiavamo col nome di storia, la storia inoffensiva dove tutto ciò che nel suo tempo è inaspettato, sulla pagina risulta inevitabile. Il terrore dell’imprevisto: ecco quello che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea”. Nella patria dei liberi la condizione è imbarazzante, pericolosa e cupa. La paura invece della speranza diventa l’argomento quotidiano ed è vero che “nessuna infanzia è priva di terrori”, ma su Newark il quartiere dove vive cala un sudario di angoscia. Il destino degli ebrei, in Europa, è segnato e convivere con un presidente antisemita e filonazista è una missione che ha i tratti dell’ordalia. In effetti Il complotto contro l’America è per certi versi un grido di dolore nei confronti di una minaccia costante che riaffiora dal passato, quel passato che non passa mai. L’atmosfera plumbea che si forma pagina per pagina è il tono determinante del complotto contro l’America ed è una visione che nasce per osmosi con la realtà perché anche un scrittore minuzioso e fuori dagli schemi come Philip Roth non è impermeabile e Il complotto contro l’America è un modo per spiegare il presente, e forse il futuro, rileggendo il passato. Con uno sguardo speciale perché “è straziante la violenza, quando scoppia in una casa: come vedere i vestiti su un albero dopo un’esplosione. Puoi essere pronto a vedere la morte, ma non i vestiti sull’albero”. Ecco, cosa fa la differenza.

giovedì 26 maggio 2011

Malcolm Lowry

Se c’è più di un contatto con Sotto il vulcano è perché l’elemento autobiografico è sempre stato il motivo di fondo della scrittura di Malcolm Lowry. Lo stesso viaggio messicano che si svela in Buio come la tomba dove giace il mio amico è frutto di un’esperienza di vita vissuta e anche dell’idea stessa, geniale o stravagante a seconda dei punti di vista, di far confluire in un solo libro, “il vero libro. Già, è come se tutto ciò che noi facciamo ne sia partre”. L’alter ego si chiama Sigbjørn Wilderness e condivide con il suo autore la nebbia alcolica in forma di mescal, tequila e whisky con cui rende infernale la sua discesa negli inferi. Sono molti i nodi che legano Sigbjørn Wilderness e l’amico che ormai giace oltre il confine, ma la percezione è vaga, involuta, indefinita: “Strane cose gli erano successe in quegli anni, e con tale frequenza da dar l’impressione che una forza sconosciuta cercasse di inculcargli nella mente qualcosa di importante. Restava però il fatto che qualcosa di impercettebile quasi li aveva cambiati entrambi”. Mentre attraversa Cuernavaca, una città “fatta di notte ma non di sonno” e Villahermosa e Oaxaca seguendo quel “destino assordante, in continuo movimento e rinnovamento, in sfida al tempo” che già annunciava nel memorabile incipit, Sigbjørn Wilderness si porta dietro la sua sconfitta, il suo romanzo incompleto e respinto, La valle nell’ombra della morte, i suoi demoni. Il bagaglio di un desperado. Lo stesso Malcolm Lowry lo presentava così in una lettera al suo editore del 1953: “Wilderness non è uno scrittore, almeno non nel senso in cui comunemente si intende un romanziere oppure un autore di romanzo. Lui, semplicemente, non sa che cosa è. E’ una specie di uomo del sottosuolo”. Sembra di intravedere un riflesso nello specchio: Buio come la tomba dove giace il mio amico dove appartenere, come Sotto il vulcano che ne era il capitolo centrale fondamentale, a quell’unico libro che Malcolm Lowry aveva ideato, Il viaggio che non ha fine, e invece uscì soltanto postumo, nel 1968. “Troppi giorni, troppa luce”, ma forse anche troppe notti e troppo buio avevano condannato Malcolm Lowry e insieme Sigbjørn Wilderness a essere dimenticati nelle loro dannazioni, ma poi proprio nel cuore di Buio come la tomba dove giace il mio amico Sigbjørn Wilderness ricorda tutto “o quasi tutto. La debolezza e il distacco dalla realtà sono le cose peggiori; la vergogna lo investì con grandi ondate fredde e incalzanti. Come poteva essere precipitato tanto in basso, essere diventato il proprio personaggio”, e l’interrogativo non ha nemmeno bisogno del punto di domanda. Il folle sovrapporsi tra i due, Sigbjørn Wilderness e Malcolm Lowry, è il vortice da cui si dipanano le onde caustiche e caotiche di Buio come la tomba dove giace il mio amico almeno fino a quando non scelgono una sorta di resa, si siedono e in attesa di una seconda birra attendono l’arrivo del destino. Una ballata convulsa, maledetta e straordinaria nella sua amarissima inquietudine.

mercoledì 25 maggio 2011

T. M. Rives

Si sono scomodati paragoni altisonanti per il breve esordio di T.M. Rives, giovane scrittore americano trapiantato in Europa. Qualcosa è giusto (anche se invece di Raymond Carver sarebbe più logico parlare di Richard Ford visto che l’atmosfera rimanda senza esitazioni a Incendi), qualcosa si perde per strada. L’esile trama di Il serpente del grano si regge infatti su un racconto costruito sui dettagli e sulle parole “sbucciate come cipolle” e ha tutta una sua eleganza nel gestire i rapporti e i dialoghi tra i (pochi) personaggi, ammettendo “parole strane, affastellate le une sulle altre in ammassi sgraziati. Sistemate in fila, disposte in modo avventato, finché la frase successiva non esplodeva a cancellare la precedente”. In alcuni passaggi è davvero affascinante e non c'è dubbio che T.M. Rives abbia un talento, magari ancora da definire, nel modificare, avvicinandosi e allontanandosi con il suo obiettivo, i punti di vista. E’ proprio nei suoi lati migliori, ovvero la ricercatezza dei dettagli e la simbologia rettile, che però trova i suoi stessi limiti. Purtroppo l’erpetologo di T.M. Rives ha qualche mancanza o Il serpente del grano va preso in senso metaforico (e qui i dettagli vanno a farsi benedire). Un romanzo è pur sempre fiction, rappresentazione della realtà, interpretazione e visione e su questo non c’è dubbio. Però trattandosi di un personaggio non relativo per Il serpente del grano, le nozioni di cui dispone l’erpetologo chiamato in causa sono limitate, se non proprio lacunose. Uno spicciolo supplemento d’indagine aiuta  a capire. La elaphe guttata guttata, questo il nome scientifico del serpente del grano (che a sua volta è una delle tante variazioni dei serpenti dei ratti) una volta catturata o in difficoltà emana, per reazione e per difendersi, un muschio puzzolente. Il dettaglio, nell’economia del racconto, non è relativo: Macey (la figlia) e la madre vivono sole (memorabile lo scambio di battute sulla sorte del padre), in “un luogo immediatamente riconoscibile. L’aria stessa aveva qualcosa di selvaggiamente familiare, il gradevole schiocco di un lenzuolo bianco steso al vento ad asciugare. Intensità e leggerezza” ed è evidente che almeno nella rocambolesca cattura l’abominevole odore doveva saltare fuori e invece è stato dimenticato. Tra l’altro l’erpetologo ci tiene a specificare che quel serpente del grano è tanto innocuo quanto selvaggio, a differenza degli ibridi (una specie piuttosto comune tra gli appassionati) abituati a vivere in cattività, e quindi a maggior ragione, anche quando Macey lo prende dal terrario o nel finale quando viene scacciato, una certa puzza si doveva sentire. Anche altri dettagli di Mitchell Flatch, l’erpetologo destinato a far saltare gli impalpabili equilibri tra madre e figlia non convincono del tutto, ma per chi non è ossessionato dalla precisione (e comunque sono sempre i dettagli che fanno la storia) o dai rettili, Il serpente del grano è una storia da leggere in una sera, bella ma con riserva. 

martedì 24 maggio 2011

Norman Mailer

Pur risalendo al 1959, Pubblicità per me stesso sembra scritto ieri per oggi. E’ una raccolta multiforme che comprende racconti e brani di romanzi, articoli e saggi, recensioni e riflessioni personali nonché “divertimenti e cose ultime” che Norman Mailer, sempre più in crisi e sempre più combattivo sembra utilizzare come un’autobiografia. Gli punti iniziali sono quelli e vanno dalla considerazione del proprio fallimento (“L’insuccesso ha aperto un diaframma nella mia natura, il mio senso del tempo è eccentrico, ed io trovo in me stesso le amare prostrazioni di un vecchio insieme ai ragionamenti impudenti di un ragazzo sveglio”) a una rinnovata intenzione polemica (“Ho bruciato molto della mia energia creativa, e ho assimilato troppo lentamente la dura, cupa e forse virile coscienza che, se voglio continuare a dire ciò che la mia rabbia mi dice è giusto dire, devo imparare a fiaccare l’indifferenza degli snob, dei soloni, dei direttori e dei maniaci conformisti che manipolano gran parte del mondo delle lettere e avvertono inconsciamente che l’ambizione di uno scrittore come me è diventare progressivamente più distruttivo, più pericoloso, più potente”) che non risparmia niente e nessuno. Norman Mailer si spende e difende la Beat Generation (è qui che si trova la differenza tra hip e square), però scortica Jack Kerouac ed è schierato nella lotta per i diritti civili, ma ne ha per James Baldwin e per Ralph Ellison. Più di tutto, Pubblicità per me stesso coltiva il gusto dell’invettiva contro la maggioranza silenziosa che sostiene e alimenta sistemi cupi e decadenti. Il succo acido del discorso tiene insieme il mezzo migliaio di pagine, a partire dalla netta percezione che “un tanfo di paura è scaturito da ogni poro della vita americana, e noi soffriamo di un esaurimento nervoso collettivo”. Pur tra infiniti dubbi personali e stilistici, e annusando nell’aria l’odore della sconfitta, Normal Mailer non rinuncia a dare battaglia e, per quanto aggressivo, molte analisi infilate nel composito puzzle di Pubblicità per me stesso sono ancora lucide e attuali. Forse più di allora, anche se è passato mezzo secolo, ed è sufficiente rileggere i tre brevi paragrafi centrali dedicati alla comunicazione per rendersi conto che aveva intuito e capito tutto. Per inciso, i titoli sono fin troppo didascalici: Menzogne, Potere, Oscenità. Se c’è un errore, in Pubblicità per me stesso, è che Norman Mailer le sue considerazioni finali le mette all’inizio, nell’introduzione, come un inequivocabile gesto di sfida: “Le merde ci stanno uccidendo, e allo stesso tempo si stanno suicidando; ogni giorno qualche nuova bugia rosica il seme con cui nascemmo, piccole bugie istituzionali dalle pagine dei giornali, dalle onde paralizzanti della televisione, e dagli inganni sentimentali del cinema. Piccole bugie, che pure ci adescano verso la follia svuotando il nostro senso del reale”. Norman Mailer gran parte di Pubblicità per me stesso per spiegare come viviamo, ma rileggendolo sembra di precipitare nel futuro. Adesso.

lunedì 23 maggio 2011

Jess Mowry

Nelle strade di Oakland, California la gang è tutto: vita, morte, famiglia, opportunità (spesso l’unica). Quando le dinamiche, regolate dai rigidi codici che s’impongono in lotte senza quartiere, vengono alterate le ansie si moltiplicano perché “è sempre così: la paura di ciò che succede ti fa vivere nel terrore di ciò che potrebbe succedere”. Jess Mowry conosce abbastanza bene le backstreets per lasciarsi ingannare e in Duri a morire concentra la cronaca di uno scontro dagli effetti dirompenti: per difendere il proprio quarto di territorio, la gang degli Amici (si chiama proprio così) deve fronteggiare uno spacciatore convinto di poterseli bere su due piedi. La loro filosofia è spicciola e convincente: “Sì, il mondo ci prova sempre a tenerti sotto, lo sanno anche i sassi, ma questo non vuol dire che tu devi mangiar merda solo perché te la mettono davanti al naso”, ma nella loro guerra di periferia trovano un ostacolo impensabile e ingombrante. Il gorilla dello spacciatore invadente è Ty, un tempo uno di loro, uno della gang. La questione non si può risolvere pensando soltanto a un diverso calibro delle pistole ed è in quel momento che gli Amici si ritrovano prigionieri del proprio mondo, a partire dalle parole e dal loro uso perché “Forse quei rap dovevano far capire al mondo com’erano incazzati i negri, ma dopo aver gridato diecimila volte di seguito a tutti di andare affanculo, comprese le loro madri, i loro cani e i loro criceti, sembravano semplicemente stupidi, come un bambino che ha imparato una parolaccia e che la ripete a chiunque per vedere la reazione della gente”. Il tono è questo: uno slang duro, grezzo, aspro e in debito con Chester Himes, ma del resto non si può rendere con raffinatezza quello che succede nei ghetti e nelle strade, dove ogni gang ha il suo vocabolario. Anche nella sua limitata percezione linguistica, Duri a morire riesce a dare una dimensione dell’acuta insofferenza, del disagio e della desolazione in cui ci si dibatte nei ghetti, immersi in un humus di quotidiana violenza, che si autoalimenta nell’indifferenza delle istituzioni. La condizione degli afroamericani è un limite fino a un certo punto perché come Jess Mowry fa dire a uno dei protagonisti: “Di’ quel che vuoi, ma secondo me nessuno, di qualunque colore abbia la pelle, può essere felice in qualche posto se non è felice ovunque”. Quello che convince in Duri a morire è la sua distanza dai luoghi comuni e il coraggio di svelare quanto i ghetti siano anche causa ed effetto di un’autoindulgenza che ha il suo peso. Come si sente dire ancora in Duri a morire: “Se quei rap volevano dire che i negri sono grandi e grossi e che sanno fottere e fare a cazzotti, allora i negri dovevano imparare dai vietnamiti che, pur essendo piccoli e pacifici, avevano vinto la guerra e, a giudicare dal numero dei figli, erano fortissimi a scopare; non solo, ma sapevano anche amarsi tra loro, oltre a servire un’ottima carne alla griglia”. Magari Jess Mowry la mette giù nuda e crudo, ma di ragioni ne ha in abbondanza. 

domenica 22 maggio 2011

Madison Smartt Bell

Ancora più di Quando le anime si sollevano, Il Signore dei crocevia è basato sulla figura di Toussaint Louverture, a cui Madison Smartt Bell si avvicina con cautela. E’ lui, imprigionato in una fredda cella al confine con la Svizzera. E’ lui che ormai governa e combatte, combatte e governa Haiti dalla giungla alla costa in un intreccio di alleanze, tradimenti e intrighi con francesi, inglesi, spagnoli, tribù e religioni. E’ lui, ritratto persino in una bucolica cornice famigliare. Il personaggio storico, a cui Madison Smartt Bell comunque rimane molto fedele, diventa con Il Signore dei crocevia il protagonista assoluto dentro un pulviscolo di uomini e donne che sono imprigionati in una terra di conquista. Madison Smartt Bell ha un gusto supremo per la storia e per tutti quei dettagli che la formano pagina dopo pagina (e sono quasi mille): è sempre ben precisato cosa mangiano, dove dormono, come si muovono i suoi personaggi, a partire da Toussaint Louverture che è l’ossessione della sua trilogia haitiana, “uno Spartaco nero venuto a vendicare tutte le ingiustizie ai danni della sua razza”. Nonostante lo spiritato carisma e le indubbie capacità militari che lo hanno reso un condottiero feroce e risoluto, Toussaint Louverture esprime in continuazione “un desiderio per le parole di carta” e in Il Signore dei crocevia più che altrove cerca di risolvere le situazioni più tese e pericolose “mandando le parole che camminavano sulla carta come suoi messaggeri e insegnando a parlare con le voci degli altri”. Come scoprirà a sue spese, quello della diplomazia, della politica è un terreno che è sinonimo di imbroglio, come direbbe Bob Marley, le cui epigrafi spiccano in Il Signore dei crocevia. La metamoforsi delle rivolte in guerre coloniali dove di volta in volta le alleanze, i tradimenti, le vendette con le nazioni occidentali (Francia, Spagna, Regno Unito) forniscono i motivi per una nuova apocalisse inchiodano Toussaint Louverture e i popoli di Haiti e Santo Domingo a un cupo destino perché “in  quel luogo il senso del tempo sembrava assente. Esisteva l’istante mentre lo vivevi; tutto il resto era mera illusione”. Lo stesso si potrà dire della gelida cella in cui Toussaint Louverture sarà incarcerato dopo l’ennesimo e repentino cambio di scenario. L’epopea di Toussaint Louverture è anche un tourbillon linguistico in cui si sovrappongono tre lingue occidentali (spagnolo, francese, inglese) e almeno altrettanti dialetti che rendono Il Signore dei crocevia in particolare un complesso intreccio di identità, di forme, di storie che è tenuto insieme solo dalla guerra, dalla violenza, dal caos. Su cui si è espresso in modo esemplare Derek Walcott in Mappa del nuovo mondo: “La violenza della bestia sulla bestia è intesa come legge naturale, ma l’uomo eretto cerca la propria divinità infliggendo dolore. Deliranti come queste bestie turbate, le sue guerre danzano al suono della tesa carcassa di un tamburo, mentre egli chiama coraggio persino quel nativo terrore della bianca pace contratta dai morti”. Maestoso.

venerdì 20 maggio 2011

Stephen King

L’arrivo dell’apocalisse secondo Stephen King viene attraverso un virus letale, un’influenza che non lascia scampo, e riduce l’America come a “un’enorme scatola di latta buttata via, sul cui fondo rotolassero solo alcuni piselli dimenticati”. In un paesaggio piombato in un’era primitiva, desertica e disperata si muove la consueta folla di personaggi manovrata dall’abilità di Stephen King che a ognuno di loro riesce ad attribuire una storia ben precisa. Basta prendere Larry Underwood, songwriter che al momento del disastro stava vivendo ben altri tormenti nella sua vita e nella sua carriera che Stephen King descrive così: “La sua mente ricominciò ad andare alla deriva, rimuginando gli avvenimenti delle nove settimane o giù di lì, ancora cercando di trovare una specie di chiave capace di chiarire tutto quanto e di spiegare come fosse possibile che uno sbattesse contro un muro di pietra per sei lunghi anni, suonando nei locali notturni, incidendo nastri di prova, esibendosi dove capitava, tutto questo insomma, e poi di colpo sfondasse, nel giro di nove settimane. Tentare di vederci chiaro era come cercare di inghiottire una maniglia. Ci doveva essere una risposta, pensò, una spiegazione che gli permettesse di respingere l’idea orribile che tutta la faccenda fosse stata un capriccio, un semplice scherzo del destino, per dirla con Bob Dylan”. Dylan, non a caso con Shelter From The Storm, è citato nelle epigrafi introduttive di L’ombra dello scorpione con Bruce Springsteen (una bellissima citazione del finale di Jungleland) e dei Blue Oyster Cult (la classica Don’t Fear The Reaper) e con le citazioni, tra gli altri, di Paul Simon e Chuck Berry: è un’apocalisse impregnata di rock’n’roll dall’inizio alla fine, perché proprio a partire dalla musica e dalle canzoni Stephen King, bisogna ricordare che siamo nel 1978, spiega che “tante cose erano cambiate, tante cose erano fuori posto”. L’aspetto rivelatorio del romanzo va cercato, oltre che nelle odissee dei singoli protagonisti, anche e soprattutto nella sostanza della sua trama. Quando “il peggio è accaduto. Almeno, nei libri, quando succede è finita, qualcosa almeno cambia”, come scrive Stephen King. In L’ombra dello scorpione non basta l’apocalittico sterminio (con contorno di malefiche e metafisiche figure) a far ritrovare uno spirito comune e condiviso ai sopravvissuti che invece, andando a pescare negli infiniti arsenali dell’esercito americano pensano bene di darsi battaglia. Fin qui, e siamo già alle battute finali, L’ombra dello scorpione è fedele alla natura folle e suicida del genere umano (il vero virus che sta devastando un intero pianeta) poi Stephen King fa intervenire uno dei suoi prediletti outsider, Pattumiera, un ragazzino cresciuto tra i rifiuti, a cui l’apocalisse ha consegnato le chiavi per soddisfare le sue spiccate tendenze piromani. E’ uno sgangherato deus ex machina che risolve L’ombra dello scorpione con un accecante bagliore e qui, almeno, “la verità si limita a un sorriso”, ma la visione di Stephen King è lucida e potente, anzi: biblica.  

martedì 17 maggio 2011

Andre Dubus

Le Voci dalla luna raccontano di una famiglia trasparente come un vetro scheggiato. Si vede tutto e da Richie, il figlio più piccolo, a Joan, la madre più lontana, la sincerità è regalata, quasi ovvia, come se nessuno avesse più nulla da nascondere. Per comprendere il quadro bisogna però seguire le fratture e sbirciare nelle crepe che separano gli uni dagli altri o negli esili frammenti che ancora li tengono uniti. E’ quando Richie scopre che suo padre Greg vuole sposare Brenda, già moglie di suo fratello maggiore, Larry che il traballante ecosistema della famiglia Stowe si mostra in tutta la sua umana, troppo umana fallibilità. Richie, che è un ragazzino fedele e devoto e vorrebbe trovare spazio alla sua vocazione, confessa a padre Oberti il suo disagio ed è lì che affiorano le prime parole importanti di Voci dalla luna, perché il prete gli risponde: “Pensa all’amore. Loro sono due persone che si amano, ed è faticoso per loro come lo è per gli altri. E anche se è sbagliato, è lo stesso amore”. C’è tutto il romanzo di Andre Dubus in questa frase perché come scriveva Peter Orner nella postfazione, Voci dalla luna “è una meditazione appassionata sulla natura della fede e dell’amore”. Da sempre argomenti complicati e infiniti, e sembra proprio Richie l’unico a viverli con la giusta sensibilità e anche con quel necessario filo di poesia. Greg, Larry e tutti gli altri vorrebbero avere ancora la sua età, nonostante la birra e la pancia e come nota Andre Dubus attraverso i pensieri della madre “Dio mio, c’era qualcosa in questo essere ragazzi che la vita domestica e la civiltà stessa non riuscivano a toccare, e spesso potevano diventare pazzi o esasperanti, ma quando perdevano questa componente, i ragazzi come gli uomini, erano spenti”. Scrittore tormentato e raffinatissimo, Andre Dubus usa le frasi come strisce di nastri adesivo per fissare momenti di tempo che distingue soprattutto con rumori e silenzi: una porta che sbatte, la sirena di una fabbrica, il raschiare del vento, l’assenza improvvisa delle parole in una discussione. I suoni, le Voci dalla luna, tracciano confini, tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra amante e amanti. I silenzi sono infiniti, le persone complicate perché lottano contro se stesse. Soltanto Joan, la madre di Richie, l’ex moglie di Greg, riesce a coltivare scampoli di una giusta serenità: infatti rimane sola, con le spalle verso la notte, ad ascoltare “Billie Holiday ed Ella Fitzgerald, Brubeck ed Ellington e Charlie Parker ed Ella Fitzgerald, John Coltrane e Sarah Vaughan”. Ben altri suoni, che assapora mentre modella “la propria tristezza in qualcosa di forte e bello”. Ci sta che, alla fine, è anche la più saggia quando spiega a Larry che “il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo”. L’altro ordine, quello di Andre Dubus, è indirizzato agli scrittori e ai lettori: “Non bisogna vendere, non bisogna battersi per un manoscritto. L’unico debito che abbiamo è verso noi stessi e verso quelle storie che ci parlano da quel luogo in cui si trovavano fino a che noi non le abbiamo scritte”. Da leggere e rileggere, spesso, meglio se in una notte d’estate (le Voci della luna si sentono di più).

domenica 15 maggio 2011

Chris Kraus

“Aldous Huxley ha fatto un trip di otto ore con la mescalina. Simone Weil ha fatto un trip di vent’anni con il concetto e la casualità”: bastano una trentina di parole per piombare nel maelstrom di Aliens & Anorexia. Cercando di far prendere forma a un film, Gravity & Grace, la cui strampalata agenda è alla base del romanzo, Chris Kraus cita Flaubert, Deleuze, Guattari, Burroughs, Sartre, Patti Smith, Keith Richards, Artaud, Paul Theroux, V.S. Naipaul, Michel Foucault, Aldous Huxley, Karl Marx, Georges Bataille, Kenneth Rexroth, George Buchner, David Cronenberg. Scrive a Walter Benjamin (“Caro Walter Benjamin prendere LSD nel sud della California non è come si fumava hashish a Marsiglia nel 1939”), vive l’anoressia (“Mettere in dubbio il cibo è mettere in dubbio tutto”) inseguendo Simone Weil, sviluppa e annoda le riflessioni sulle emozioni, sulla filosofia, sulla letteratura, sulla vita. Il metodo è un cut-up & fold in che aggancia messaggi di posta elettronica, citazioni letterarie e filosofiche, pagine di diario, frammenti di storia pescati nella rete, divagazioni ellittiche, dialoghi e monologhi coltivati nell’acidità della solitudine. In questa cacofonia di voci la domanda fondamentale di Aliens & Anorexia emerge dal rumore di fondo come una frustata: “La gente come immagina la propria vita?” e la risposta per Chris Kraus non è mai una, e non è mai semplice. “Non appena i nostri sogni sono sul punto di svanire noi decidiamo di metterli in scena” scrive come se stesse tastando una via nel buio, provando tutte le direzioni, a volte in modo goffo e traballante, a volte in modo sorprendente e geniale, però sempre con una generosità più bulimica che anoressica perché “raccontare una storia è un atto d’amore. Il narratore va diretto alla mente di colui che ascolta, in profondità, o offre serenità e ordine dove non ci sarebbero. La fiaba non nega il caos dell’universo. Offre piuttosto una chance, la possibilità che, in un modo tutt’altro che perfetto, sia possibile fare qualcosa di buono”. Né moderno, né postmoderno, Aliens & Anorexia viaggia in un presente scandito dai tempi impossibili dello zapping televisivo o delle navigazioni in rete ed è altrettanto frenetico, frammentario, caotico, un continuo fuoco d’artificio, che lascia tracce indelebili per piccole porzioni di secondo, finché Chris Kraus giunge “alla conclusione che non si poteva più fare affidamento sulle fiabe alle quali si era creduto, e non ce n’erano di nuove a sostituirle. Le cose non vengono fuori. Vanno in pezzi”. A differenza della dispersione di molti bricoleur che sono arrivati a David Foster Wallace senza passare dal via, Chris Kraus riesce a guardare oltre le scintille e le luminarie della scrittura e della lingua e tenta di comprendere “l’ombra” e “la grazia”, e chissà vorrebbe esserne anche parte. E’ per questo che Aliens & Anorexia ha un concetto particolare di bellezza e lo regge come può: svelandolo, nascondendolo (del resto non viviamo in una belle époque, se mai ce n’è stata una).

giovedì 5 maggio 2011

Joan Didion

Nell’anno del pensiero magico Joan Didion si trova ad affrontare due prove (il termine è al minimo sindacale della comprensione e molto di più non si può) tali da annientare chiunque. Nella realtà, e non nella fiction, nel giro di pochi giorni vede prima ammalarsi la figlia in modo grave e poi, all’improvviso, le muore il marito. Uno tsunami che travolge tutto, che impone e dispone nuovi schemi vitali, che lascia un margine, se lo lascia, giusto per aggrapparsi all’istinto di sopravvivenza. Fino ad accorgersi dell’ineluttabile: “Siamo essere umani imperfetti, consapevoli di quella mortalità anche quando la respingiamo, traditi proprio dalla nostra complessità, e così schizzati che quando piangiamo chi abbiamo perduto piangiamo anche, nel bene e nel male, noi stessi. Come eravamo. Come non siamo più. Come un giorno non saremo affatto”. La risposta di Joan Didion è una minuziosa, millimetrica, ossessionante ricostruzione in funzione del mandato “leggi, impara, datti da fare, informati. Essere informati significa non perdere il controllo” e nel tentativo di rimanere in equilibrio attraverso il “pensiero magico” della scrittura, dell’immaginazione, della memoria. Più che un romanzo, peraltro estremo e lancinante, L’anno del pensiero magico è una preghiera, un complicato rituale d’addio, una marea che si ritrae svelando i danni e quello che resta in piedi. Non è un esorcismo contro il dolore o per comprendere quello che non si può comprendere, ma è il tentativo (rimasto tale) di assorbire nella scrittura la prepotenza della vita e della morte. Uno sforzo in gran parte istintivo e fin troppo razionale, senza dubbio encomiabile, lirico nella sua essenza, che però scorrendo “questi frammenti con cui ho puntellato le mie rovine” come li chiama Joan Didion citando Delmore Schwartz lascia una sensazione di amarezza, come se qualcosa fosse rimasto incompiuto. C’è qualcosa di imbarazzante quando un’artista apre in modo così plateale le porte della sua casa, della sua vita. E’ come trovarsela davanti nuda, in lacrime o mentre impazzisce compilando la dichiarazione dei redditi. Ci vuole un coragggio superiore per fissare un “pensiero magico” per sempre: lascia attoniti perché per quanto sia raffinata, superba, evoluta e cristallina la scrittura di Joan Didion è difficile, se non impossibile, partecipare. Il pesante elemento autobiografico c’entra (eccome), ma è lo stringersi alla scrittura, quasi fosse l’ultima risorsa che lascia attoniti anche perché il tono è livido come una resa. Davanti a quello che Joan Didion chiama “il vuoto, l’esatto contrario del significato, l’inesorabile successione dei momenti in cui ci troveremo ad affrontare l’esperienza della mancanza stessa di significato”, L’anno del pensiero magico diventa una forma di ricostruzione, più che di creazione, un diario giorno per giorno, parola per parola, nel tentativo di fissare (se non fermare) il tempo che, per dirla ancora con Delmore Schwartz, è la scuola dove impariamo, il fuoco nel quale bruciamo”. Non c’è scampo, nemmeno con un “pensiero magico”. 

mercoledì 4 maggio 2011

Tim Severin

Moby Dick è senza dubbio una delle metafore più avvincenti e monumentali della storia della letteratura, una specie di Odissea rivista e riletta nel tempo. E’ questo il punto di partenza dei viaggi Sulle tracce di Moby Dick perché Tim Severin ci tiene a spiegare (e anche se la citazione è un po’ lunga serve a capire il senso del libro) che Moby Dick è “un mito assolutamente moderno. E da qui doveva partire la mia ricerca: avrei iniziato dall’uomo la cui immaginazione aveva dato vita a Moby Dick, cercando di vedere la balena attraverso i suoi occhi, e poi avrei confrontato le mie scoperte con gli uomini che ancora oggi vanno a caccia di queste grandi creature marine. Se fossi stato fortunato, e se il sentiero scelto era quello giusto, sarei stato in grado di capire se davvero era esistito un grande capodoglio bianco che attaccava le navi in mare aperto. Ma quello che speravo, oltre ogni ragionevole aspettativa, era che una meraviglia delle profondità di tal fatta potesse esistere ancora. Avevo solo una vaga idea di quanto lontano la mia ricerca mi avrebbe portato: non solo attraverso il mari, ma anche nelle vastità delle conoscenze di Melville e nel patrimonio orale sulle balene custodito dai coraggiosi pescatori con i quali ho avuto la fortuna di navigare”. Viaggiatore coraggioso e spericolato (ha viaggiato con i nomadi mongoli e ha solcato il Pacifico su una zattera di bambù) Tim Severin si è reincarnato in capitan Achab e ha ripercorso le mille e mille miglia marine inseguendo il mito di Moby Dick e la realtà dei grandi cetacei, dei pescatori, degli oceani e della navigazione. Sulle tracce di Moby Dick è comunque molto più di un diario di bordo: le indicazioni di Herman Melville (puntualmente citato ad ogni inizio capitolo, a partire dall’esortazione fondamentale: “Cavatevi gli occhi per cercarla, ragazzi: guardate bene se vedete acqua bianca: se vedete anche sono una bolla, segnalate”) non servono soltanto a seguire le linee segrete lasciate dall’ultima grande balena bianca, ma a capire il senso, le dinamiche, la natura stessa di quell’infinito romanzo che è Moby Dick e a dare le giuste coordinate a quello che è anche un viaggio nel tempo. Con le sue fotografie, i suoi disegni, un tono narrativo chiaro e suggestivo Sulle tracce di Moby Dick è anche un gran bel modo per interpretare la letteratura, classica e moderna che sia: indagare sul campo, viaggiare, scoprire paesaggi, uomini e storie è pur sempre meglio che marcire in biblioteca. Sulle tracce di Moby Dick ci si perde nell’oceano Pacifico e dopo un po’ anche la distinzione tra la balena del mito e i cetacei della realtà va sfumandosi tanto è vero che nel cuore del suo reportage, Tim Severin si lascia andare ad una semplice constatazione: “Se oggi la balena scomparisse, l’uomo sarebbe più povero, da tutti i punti di vista”. Basta conoscere soltanto un po' Herman Melville per accorgersi che dietro queste due righe non c'è soltanto un sentimento ecologico e/o zoofilo, ma l’essenza stessa del mito di Moby Dick.

Kurt Vonnegut

Nelle short stories Kurt Vonnegut ha una verve particolare, che si traduce in uno stile ancora più tagliente del solito. E’ naturale che la condizione ristretta non gli permetta di approfondire e allargare le sue visioni e basta pensare a Piano meccanico, un romanzo che trova più di un punto di contatto in Benvenuta nella gabbia delle scimmie. Quello che è sempre ammirevole nella scrittura di Kurt Vonnegut è che, in qualsiasi condizione, romanzo, racconto e persino manuale per aspirante scrittore (la felice coda di Benvenuta nella gabbia delle scimmie) si mantiene in equilibrio tra l’ironia (sempre pungente), una certa leggerezza nella forma e la costante profondità dei temi e dei soggetti. Dovendo muoversi in recinti limitati, gli bastano una frase, poche righe, una battuta per identificare un personaggio, come succede in Miss Tentazione, uno dei racconti miglior di Benvenuta nella gabbia delle scimmie in cui la protagonista viene presentata così: “Il destino gli aveva improvvisamente dato un pubblico, e una circostanza su cui aveva molte cose amare da dire”. La rapida descrizione di Miss Tentazione può essere parafrasata per svelare l’inesauribile fonte di ispirazione di Kurt Vonnegut che ha sempre avuto tantissimo da dire su un paese, per non dire una civiltà, in cui “un’occasione è una convertibile ultimo modello, un abito nuovo, e venti dollari”. Come si raggiunge un tale livello (grandissimo) di conoscenza e proprietà della scrittura lo si scopre arrivati in fondo a Benvenuta nella gabbia delle scimmie dove Kurt Vonnegut inaugura l’appendice Come scrivere con stile con il solito disincanto: “Non ho teorie sulla scrittura che potrebbero essere di aiuto agli altri. Quando scrivo divento semplicemente ciò che sembra che io debba diventare”. E’ solo un piccolo trucco perché invece invece qualche idea ce l’ha e anche in questo caso con una velocità tutta sua riesce a concentrare i consigli sullo stile (“Il vostro stile vincente deve partire dalle idee che avete in testa”), sui temi (“Trovate un argomento che vi sta a cuore e di cui dentro di voi sentite che dovrebbe importare anche agli altri. Il più irresistibile elemento del vostro stile sarà proprio questa sincera passione, e non i vostri giochi linguistici”), sulla forma (“La semplicità della lingua non è solo stimabile, probabilmente è addirittura sacra”) e sulle precedenze da prendere e da dare davanti a un foglio bianco “La vostra eloquenza dovrebbe essere al servizio delle idee che avete in testa”). Fin qui gli avvisi per gli scrittori, peraltro condivisibili. Dove Kurt Vonnegut va oltre è nella riconoscenza e nell’attenzione ai diretti interlocutori, i lettori, senza i quali non esiste nemmeno la scrittura. Con Benvenuta nella gabbia delle scimmie giunge una generosa sponda: “I lettori vogliono che le nostre pagine assomiglino il più possibile alle pagine che hanno già visto. Perché? Perché anche loro hanno un lavoro duro da fare, e hanno bisogno di tutto l’aiuto che possono ricevere da parte nostra”. Perfetto.