mercoledì 30 marzo 2011

William Least Heat-Moon

Si sono fatte molte ironie su questo diario di viaggio. Di sicuro non è un libro che cambierà (o ha cambiato) la storia della letteratura. E’ un garbato reportage dalla provincia americana (anche se a un certo punto potremmo parlare di provincia e basta) che però ha espresso un senso, uno spirito, un’idea a cui siamo molto affezionati e in cui è facile riconoscersi. I presupposti sono noti: William Least Heat-Moon, abbandonato dalla moglie e ormai senza lavoro, sceglie di partire per un lungo viaggio intorno all’America. Questa è già una caratteristica bizzarra perché altri viaggi “americani” sono entrati nella storia seguendo le direzioni indicate dai punti cardinali (da est a ovest, da nord a sud e avanti così), mentre la sua è una circumnavigazione a tutto tondo, un percorso circolare. L’altra caratteristica peculiare, è la scelta delle strade e qui sta la logica, il nocciolo e in sé anche la fortuna di Strade blu. Il suo viaggio è marginale perché sceglie percorsi dove l’asfalto è ormai bucato dai funghi e incontra uomini e donne che si costruiscono case (e barche) con le proprie mani sniffando il profumo del legname. Sulla mappa, le Strade blu bordeggiano i confini degli Stati Uniti, evitano le metropoli e così il centro, prendono spesso deviazioni insolite e, fin dall’inizio, vanno a scoprire o a trovare qualcosa secondo una misteriosa casualità, che si riflette anche sul diario di William Least Heat-Moon. Il tono colloquiale, senza pretese, senza velleità, di Strade blu può apparire superficiale e consolatorio ma, come direbbe Jim Harrison, William Least Heat Moon è uno scrittore che non ha paura di essere “romantico”, a costo di sembrare patetico, ma è anche “popolare” in modo gentile e generoso, tanto da far sembrare intelligenti e acuti (quasi) tutti i suoi occasionali interlocutori. Incontro dopo incontro, sulle Strade blu prende forma una filosofia spicciola che predilige la concretezza della realtà (come racconta un agricoltore a William Least Heat-Moon: “Un uomo diventa ciò che fa. Non bisogna scordarlo. Per questo continuo a zappare la terra, anche se il raccolto non è mai generoso”) che scorre in parallelo all’urgenza di un sogno, non fosse altro che una barca in riva al fiume che riempie tutta una vita, perché, come dicono i diretti interessati, i sogni occupato tutto la spazio che gli si dà. Il segreto di Strade blu è che sul furgone di William Least Heat-Moon, non a caso chiamato Ghost Dancing, non vengono solo segnate le tappe di una geografia in evoluzione, ma si raccolgono anche piccole storie blue collar che nessun altro avrebbe raccontato. Sospesi tra la fatica giornaliera di vivere in luoghi “in the middle of nowhere” e il bisogno impellente di emancipazione tutti i personaggi di Strade blu sembrano condividere l’opinione di un pescatore di granchi della costa atlantica: “E’ un bel mestiere il nostro. Non c’è nessuno che ci comanda, eccetto il cattivo tempo. Non avere padroni è meglio che guadagnare un sacco di soldi”. L’idea, sullo sfondo delle Strade blu, è proprio quella. 

martedì 29 marzo 2011

Chaim Potok

“Mi meraviglia che sopravviviamo ai nostri inizi” dice David Lurie nelle primissime pagine di In principio e già apre un varco sulla sua storia, mentre vive l’infanzia e il complicato percorso per lasciarla in quel crocevia etnico e culturale che era il Bronx a cavallo delle due guerre. E’ un bambino normale, che un piccolo incidente (bisogna ricordarla questa parola perché torna spesso e perché “esiste qualcosa che non sia un incidente?”) ha reso piuttosto cagionevole di salute e solitario. Uno dei suoi primi resoconti è abbastanza esplicito nel raccontare la semplicità della sua vita quotidiana: “Andavo a scuola. Mi ammalavo, ma non troppo spesso. Di tanto in tanto mi capitava un incidente, ma nulla di serio. Il mio mondo si era fatto saldo e stabile e io mi ci trovavo a mio agio. Gli insegnanti mi davano dei libri da leggere a casa e mi lasciavano sognare a occhi aperti durante le lezioni”. C’è una distanza enorme tra i suoi inizi e quelli degli adulti che lo circondano che “sembravano persi in ricordi privati”, tanto che gli pare persino di “essere l’unica persona sveglia al mondo”. L’ortodossia della comunità ebraica a cui appartiene, e le cui prassi sono raccontate in modo eccezionale da Chaim Potok, incide fino a un certo punto. C’è qualcosa che David Lurie non riesce a collocare, forse per istinto o per un’intuizione e non è la gente a cui appartiene, perché quella “entrava e usciva dalla tua vita e non sapevi mai che fine faceva”, ma le storie. Nelle storie che gli raccontava la madre funzionava tutto a meraviglia: “gli uccelli avevano dolci voci umane, i cani erano fedeli ai padroni, conducevano i bambini fuori dalla fitta foresta, non scavavano mai buche nella terra né sporcavano mai i sentieri usati dalla gente, e il vento era fatto dei corpi degli angeli che si muovevano invisibili nel nostro mondo. Mi raccontava solo storie a lieto fine. Non mi raccontava mai storie di incidenti, di malattie o di morte”. Un giorno di pioggia del 1929, David Lurie vede una fotografia che ritrae una quarantina di uomini con pistole e coltelli nella foresta. Un’armata Brancaleone pallida con una bandiera sbiadita. E’ un’epifania che lo porterà a confrontarsi con le proprie radici così come a comprendere che “fuori, il mondo era nero di orrore” e, nonostante i secoli nei secoli, “è sempre lo stesso. Non importa dove accade, è sempre lo stesso orrore, lo stesso strazio, la stessa incapacità di reagire”. Nella sua condizione, la scoperta che gli ebrei venivano uccisi, che gli ebrei dovevano difendersi, diventa un gradino in più da superare, un “incidente” molto più ingombrante e difficile da collocare nel suo sgusciare dall’infanzia. Vorrebbe una “fotografia silenziosa”, senza promesse di odio o di vendette, ma gli altri, gli adulti sembrano non sentirlo nemmeno. Gli rimane il rifugio della lettura perché “il mondo era visibile mentre leggevo. Era importante che fosse visibile, così da vedere come la lettura lo trasformava”. E’ lo stesso processo, vitale e importante, che rende In principio unico e importante.

lunedì 28 marzo 2011

Ralph Ellison

Rimasto incompleto (ma non incompiuto) per la scomparsa di Ralph Ellison, Juneeteenth o Il giorno della libertà è stato accuratamente ricostruito da John F. Callahan seguendo le note lasciate dal grande scrittore afroamericano. Un romanzo a più voci, complesso e bellissimo. Al capezzale del senatore Adam Sunraider, ferito in un attentato, arriva il reverendo Alonzo Daddy Hickman. Uno bianco, l'altro nero cominciano a parlare e con le loro voci ricostruiscono il volto di una nazione, di una storia, di una libertà. Il ritmo è quello di “un jazzista che crea un tema musicale tramite un incontrollato scintillio di metamorfosi” e la musica, in particolare, i suoni afroamericani è una traccia che non bisogna mai perdere seguendo Ralph Ellison perché “noi sappiamo dove siamo dal modo in cui camminiamo. Sappiamo dove siamo dal modo in cui parliamo. Sappiamo dove siamo dal modo in cui cantiamo. Sappiamo dove siamo dal modo in cui danziamo”. Lo scrive in uno dei passaggi più importanti di Il giorno della libertà, un romanzo a cui ha dedicato tutta la sua vita dopo Uomo invisibile (il suo capolavoro): “l'azione si svolge alla vigilia del movimento per i diritti civili, ma preannunzia il caos che sarebbe sopraggiunto più tardi” annota Ralph Ellison e nel complesso dialogo tra i due protagonisti, il senatore (bianco) Adam Sunraider e il reverendo Alonzo Daddy Hickman. La cui identità, guarda un po’, coincide con l’anima di un jazzista perché nella “considerazione” di Ralph Ellison “un grande leader religioso è una maestro di estasi. Evoca emozioni che vanno al di là del razionale e sfociano nel mistico. Un musicista jazz fa qualcosa di simile. Tramite la manipolazione del suono e del ritmo, libera movimenti ed emozioni che gli consentono di trascendere la realtà quotidiana”. Da quel rapporto prende forma una sorta di rilettura di un’intero, confuso concetto di nazione e di appartenenza che è il tema dichiarato di Juneteenth, “un romanzo sull’americano senza radici, prodotto della nostra solitudine. Su coloro che ripudiano il loro vero io a favore di una qualche illusione, che, mentre si proclamano democratici, hanno sete e fame di aristocrazia. Su coloro che diventano attori e truffatori, capipopolo, lestofanti, e maligni distruttori della nazione”. Ralph Ellison non concede tregua e, dopo aver individuato le vere differenze, che non sono quelle tra bianco e nero, è esplicito nello schierarsi: “Essi possono ridere ma non possono negarci. Possono maledirci e ucciderci, ma non possono distruggerci tutti. Questa terra è nostra perché da questa terra noi siamo usciti, in questa terra abbiamo versato il nostro sangue, le nostre lacrime l’hanno bagnata, con i nostri morti l’abbiamo concimata. E così, quanto più vi distruggono tanto più essa di riempie dello spirito della nostra redenzione”. Per questo Il giorno della libertà è un perenne work in progress “perché se c’è una cosa che siamo costretti a imparare è che l’uomo, nei suoi momenti migliori, è vicino al sublime proprio quando si trova immerso in tutto il sudiciume e la confusione della vita, eppure continua a lottare per i suoi ideali”. Lucidissimo e sempre attuale.

venerdì 25 marzo 2011

Victor Gischler

Nel nome della città, Coyote Crossing, c’è già il grumo denso e pensoso che Victor Gischler nasconde nella frenesia degli effetti speciali della sua scrittura. Nel gergo del border il coyote è la guida, si fa per dire, che conduce gli immigrati dal Messico verso il Norte ed è attorno a un traffico di disperati che si sviluppa tutta la Notte di sangue di Coyote Crossing perché Victory Gischler è divertente, caotico e giocoso nel superare i confini tra western e noir, come nota Don Winslow, ma è anche attento a non sfuggire la realtà. Per cui nella Notte di sangue di Coyote Crossing oltre alla desolazione dell’immigrazione illegale, l’atmosfera è delineata da un paesaggio è “white trash”, un sottoproletariato con poche o nulle speranze, se non la fuga dalla smalltown dove tirano a campare, tra lavori di infima categoria (il massimo, sembra di capire, sarebbe spararsi due ore di strada al giorno per andare a fare l’operaio in un’industria di fertilizzanti) ed esistenze ai margini della legalità. Se poi in un ambiente che è sempre sull’orlo della crisi di nervi si immettono la criminalità organizzata e gli sceriffi corrotti la miscela si accende da sola per autocombustione. A farne le spese è Toby, un loser da quattro soldi con un passato da chitarrista in mediocri rock’n’roll band (anche la musica che segue del resto non è il massimo: Weezer, Garbage, Blind Melon sono i nomi che s’incontrano strada facendo) e un presente di aspirante sceriffo, padre di famiglia e concubino di una minorenne, giusto per completare il quadro. Un impiastro che riesce a cavarsela, almeno dal punto di vista ideale, con una punta di inevitabile fatalismo, espresso così: “C’è chi viene reso più forte dalle avversità, così come dalle delusioni e dalle sciagure, e c’è chi diventa più stronzo. Sono i casi della vita e nessuno ne è immune, che sia una vecchia o una messicana infuriata o un aiuto sceriffo part-time. Fai girare la ruota, e prendi quello che arriva”. Victor Gischler scrive con il senso dei fumetti o più in generale delle immagini in testa ed è un susseguirsi di colpi di scena senza un attimo di respiro perché Toby Sawyer dopo aver subito per gran parte della Notte di fuoco a Coyote Crossing decide che è ora di restituire colpo su colpo. In realtà, un vero loser non sceglie mai e infatti la svolta arriva per inerzia se non proprio per stanchezza perché c’è un limite anche a fare da punching ball per una famiglia di bifolchi inferociti. La progressione è un tourbillon di inseguimenti, sparatorie e continui rovesci di fronte con Toby Sawyer protagonista assoluto e sempre nel centro del mirino. Tutto l’armamentario dei cliché delle storie d’azione, dall’assedio del suo trailer prima e della stazione di polizia ai fucili a pompa, è preso da Victor Ginschler che poi lo ricicla, lo rimescola e lo frulla a una velocità anfetaminica. L’effetto è tale che, pur senza particolari ambizioni letterarie, si resta incollati dalla prima all’ultima pagina dove, come richiesto dallo stile, arriva un finale impeccabile.

mercoledì 23 marzo 2011

James Sallis

John Turner è costretto, suo malgrado, a tornare per le strade e nella notte a Memphis alla caccia di un fuggitivo e di un quarto di milione di dollari. L’evento, insieme all’arrivo di Val, una ragazza che s’insinua nelle solitarie abitudini di Turner, mette a soqquadro per l’ennesima volta la sua vita. Da quel momento in poi i killer di mezza America firmano contratti in suo nome perché “và un po’ a saperlo. Il maglio ci pende sul capo, mentre andiamo avanti con le nostre piccole cose, pagare le bollette, pulire l'acquaio, cambiare le corde al banjo, scordarsi di dire a chi ci sta accanto quanto gli (o le) vogliamo bene”. Forse per James Sallis la scrittura e la narrazione sono come gli strumenti musicali per Turner, i suoi amici che suonano le canzoni della Carter Family, ovvero “attrezzi, come le vanghe o le padelle. Un qualcosa che ti aiutava a tirare avanti”. E’ quasi palpabile, in questo romanzo più che in ogni altra occasione (forse con l'eccezione Drive), il lavoro grezzo e nello stesso tempo raffinatissimo di James Sallis. Scene tagliate con l’accetta, andando alla sostanza dell’azione, senza perdere tempo in dettagli insignificanti o accenti marginali e personaggi che si muovono tra le pagine come se fossero creature indipendenti dalla trama dell'autore e dai desideri del lettore, primo fra tutti un Turner più esistenzialista che mai, che fa così il punto della situazione: “Di nuovo nel mondo, così strano e familiare allo stesso tempo. Questa era la mia vita. Nessuna lungimiranza né epifania a trapelare dalle assi del pavimento, colonna sonora dei miei giorni vuoti, escluso il ronzio dei ricordi che non smettono di tornare. E l’unico desiderio, per rimettere tutto a posto, sono i tre accordi di una canzone di Hank Williams”. Le tre note di Alone & Forsaken (per quanto non citata, è la principale candidata da quello straordinario songbook) comprendono “in breve: una vecchia casupola di legno che avevo tutte le intenzioni di sistemare, un lavoro in cui mi ero ficcato quasi per sbaglio, un mucchietto di amicizie altrettanto casuali”. Non è un mistero che la musica popolare americana, in particolare le sue radici, sia una componente essenziale delle atmosfere amate da James Sallis, qui tra l’altro esplicita fin dall’epigrafe iniziale presa in prestito dal banjo di Charlie Poole. Poi visto che il blues di Memphis (comprensivo, oltre a quello di Hank Williams, anche del fantasma di Elvis, che tra l’altro gioca in casa) è decisamente una medicina amara da mandare giù, va detto che è anche uno splendido romanzo a tutto tondo che racconta l’amarezza di perdere piccole gioie e grandi bellezze della vita. A maggior ragione quando il caos incombe e/o precipita senza preavviso e senza pietà nella vita di tutti i giorni: è allora che l’ammonimento infilato da James Sallis nei primi passi sulla strada per Memphis diventa utile: “Trova la tua strada, studia la tua rotta”. Per mantenere la direzione non ci vuole molto, ma la musica e la letteratura sono in cima alla lista.

martedì 22 marzo 2011

Sherman Alexie

Nell’elenco di narratori nativi che per voce di uno dei personaggi di Indian Killer appare nelle prime pagine del romanzo (Simon Ortiz, Roberta Whiteman, Luci Tapahonso, Elizabeth Woody, Ed Edmo, Jeannette Armstrong) potrebbe starci benissimo anche Sherman Alexie, se non fosse che è proprio lui uno tra i più conosciuti. Merito soprattutto di Reservation Blues e di Lone Ranger fa a pugni in paradiso, due libri in cui sogni e visioni della cultura nativa si sovrappongono al paesaggio (urbano, decadente) di un’America incapace di venire a patti con il suo passato. Anche Indian Killer non si discosta molto da quelle ambientazioni: Sherman Alexie sfrutta tutte le possibilità dell’immaginazione e della scrittura per attraversare con naturalezza, e come per magia, i tempi e gli spazi tra illusioni, personaggi onirici, riti tradizionali e la realtà. In più c'è un serial killer (l’ennesimo, verrebbe da dire) che scalpa le vittime, rigorosamente visi pallidi, e firma gli omicidi con due penne di gufo insanguinate. Ma non finisce tutto qui: attorno alla figura dell’Indian Killer si muove una folla di personaggi spesso ambigui (se non proprio ambivalenti) che sembrano tracciargli un percorso, offrirgli motivazioni, forse anche indicargli chi sarà il prossimo bersaglio. Trattandosi di un thriller (anche se con uno sfondo polemico molto in rilievo) è naturale non sbilanciarsi oltre, anche se un appunto su John Smith, il personaggio a cui ruotano intorno un po’ tutte le vicende di Indian Killer è necessario: il suo nome non vuol dire niente (con John Doe è tra i più diffusi negli Stati Uniti), di origini native è stato adottato ancora neonato (la bellissima scena iniziale) ed è un coacervo di contraddizioni, di paure e di passioni che potrebbe benissimo essere l’impersonificazione di una metafora per tutti gli indiani d’America. Agli appassionati di rock’n’roll sarà ancora più facile trovarsi a proprio agio con Reservation Blues (il fantasma di Robert Johnson che si aggira in una riserva non è qualcosa che si legge tutti i giorni), ma è chiaro che anche nel confronto con uno stereotipo della fiction (e purtroppo anche della cronaca) quale è il serial killer, Sherman Alexie ne esce convincente perché non perde il gusto di articolare le sue storie attraverso un linguaggio capace di esprimere emozioni, sensazioni ed idee anche dentro il ritmo (serrato e implacabile) di Indian Killer. Narratore con il gusto dell’incastro tra passato e presente, tra eventi storici e romanzeschi, non perde occasione per rivelare, sotto mentite spoglie, la complessa dimensione sociale e politica dei nativi americani ma senza lasciarsi invischiare in prese di posizione ideologiche o in pericolose distinzioni etniche. Sherman Alexie sembra raccontare le sue storie con tutti i mezzi che l’immaginazione concede alla sua scrittura e l’effetto è davvero notevole perché le visioni e gli stati di alterazione di Indian Killer alla fine non sono altro che un riflesso deformato della realtà. Efficace.

domenica 20 marzo 2011

John Cheever

La vera protagonista di Bullet Park è la bizzarra normalità della provincia americana, o della provincia tout court. Coppie che dibattono e vivono “una forma di amore”, a volte come se fosse “un dilemma cosmico prodotto dai rivolgimenti della storia e della natura”, spesso ridotto a una sorta di meccanismo tutto collaudare perché “non ci si innamora”, il più delle volte “ci si reinserisce nell’amore”. Di conseguenza, famiglie sempre sull’orlo di un collasso emotivo, tra la confusione delle notizie del giorno (“E certe volte i giornali non fanno che confondere ancora di più le idee. Continuano a pubblicare foto di soldati morenti nella giungla o nel fango accanto alla pubblicità di pellicce di zibellino o di anelli con smeraldo da quarantamila dollari. Parrebbe quasi puerile sostenere che in quel modo è come se il soldato fosse morto per la pelliccia o per l'anello, ma ecco sempre là, giorno dopo giorno, soldato morente e anello”) e i giorni in cui arrivano le notizie che cambiano la vita. Tante strade, tante piccole case di periferia, tanti volti e altrettante storie che John Cheever racconta con una scrittura densa e limpida nello stesso tempo, ricca di dettagli e di superbi incastri, cesellati con raffinatezza artigiana, ma anche scorrevole, come una ballata o uno standard jazz. E’ un laboratorio suburbano ricreato in modo magistrale. Attorno alle vite di Eliot Nailles e Paul Hammer si snocciola una periferia delle emozioni e dei sentimenti che è nello stesso tempo causa ed effetto della conformazione topografica. Il linguaggio ne è una diretta conseguenza: “La ragione era dovuta al fatto che, all’epoca in cui sono ambientati i fatti di cui sto scrivendo, la società era diventata talmente motorizzata e mobile che tutti i vari mezzi e segnali di comunicazione tipo fari, luci di posizione, frecce e tergicristalli erano ormai diventati parte essenziale del modo di comunicare”. Non senza piccoli spunti polemici e concretamente reali, che affiorano taglienti tra le righe del bucolico Bullet Park: “Parlano di libertà e indipendenza più di chiunque altro, ma riforniscono di denaro, armamenti e tecnologia chi annienta la libertà e l'indipendenza di chi la rivendica. Io ho in odio la menzogna e la falsità, e se ci si ritrova in un mondo così pieno di bugie, suppongo che si abbiano tutte le ragioni per essere depressi. E' un dato di fatto che io non possiedo tutta quella libertà e indipendenza come vorrei davvero”. Un civilissimo appunto non insolito per John Cheever anche se, più in generale, il tono è impressionista, tiene conto di minuscole necessità e dialoghi irrilevanti, eppure lo fa con una grazia e insieme una sicurezza tale da restituire alle anonime vite di Bullet Park un’appropriata dignità. Almeno sulla carta, ovvero nell’innata natura di un bel romanzo, dove la scrittura può ancora garantire un minimo di comprensione e di umanissima compassione. Un grande libro, Bullet Park, e un autore, John Cheever, che è sempre utile riscoprire (e rileggere).

giovedì 17 marzo 2011

Reif Larsen

Le mappe dei miei sogni si rivela un viaggio troppo lungo perché se l’idea di partenza, quella di un piccolo hobo che parte alla scoperta del mondo dopo averlo disegnato e/o immaginato nei suoi diagrammi, è brillante e arguta, nel suo evolversi diventa sempre più introspettiva e autorefenziale. Nonostante la centralità di un episodio violento, dalle tinte fosche ed enigmatiche, Le mappe dei miei sogni sono costellate di variazioni sul tema ed estrapolazioni criptiche che alla prima battuta sono affascinanti, alla seconda fanno riflettere, alla terza generano qualche inevitabile perplessità e alla quarta, cioè alla fine, suonano noiose. Il livello della scrittura è elevato e come se non bastasse l’inedito contorno iconografico è prezioso, ma in sé svela anche i limiti e l’approssimazione della storia. A dodici anni T.S. Spivet non ha soltanto una fervida immaginazione, ma anche una visione filosofica del mondo visto che, nonostante la giovane età, aveva già imparato che “la rappresentazione non deve essere confusa con la realtà, anche che, in un certo senso, lo scarto è ciò che rende le rappresentazioni così significative: la distanza tra una mappa e il territorio che descrive ci lascia lo spazio per respirare e capire in quale punto ci troviamo”. La distanza è fondamentale e la sua personalissima cartografia cerca di colmarle in ogni direzione: con il padre (un vero e rude cowboy) e con la madre (una scienziata con cui dovrebbe avere qualche affinità in più e che invece sente algida e lontana) nonché con il fratello, ucciso da un incidente con un’arma da fuoco. Per un bambino, per quanto prodigioso, sono troppe le coordinate da far combaciare e Le mappe dei miei sogni sono piene dei suoi fallimenti, tanto che ben presto se ne accorge pure lui: “C’è qualcosa, nella misurazione della distanza tra un qui e un , che ridimensiona il mistero di ciò che si nasconde nel mezzo, e per un bambino con una limitata esperienza empirica il mondo ignoto che poteva celarsi tra il qui e il là poteva essere terrificante. Come molti bambini, io non ero mai stato . Ero stato a malapena qui”. Quando intercetta una telefonata da Washington per cui i suoi disegni si meritano un premio dello Smithsonian fugge a bordo di un treno per raggiungere l’agognato riconoscimento. Fin qui tutto funziona a meraviglia, almeno se si conoscono le eccentriche collezioni di Harry Smith o soltanto qualcuna delle canzoni dai Basement Tapes di Bob Dylan, poi il viaggio, che dovrebbe essere una rivelazione diventa un elenco di annotazioni e voli pindarici che funzionano a scartamento ridotto. Arrivati al giro di boa della metà e in modo significativo nello nello scenario urbano delle periferie di Chicago, sembrano accorgersee anche lo stesso Reif Larsen e, per lui, T.S. Spivet che dice: “ero rimasto solo, perduto nella solitudine sfilacciata di quella città senza fine”. Una sensazione condivisa dal lettore, nonostante i fuochi d’artificio urbani e gli ultimi, ovvi tentativi di sorpresa del finale. 

martedì 15 marzo 2011

Alistair McLeod

Nato in Canada nel 1936, da una famiglia di radicatissime origini scozzesi (verrebbe da dire: un clan) Alistair McLeod è un narratore dal talento straordinario che è stato scoperto con la raccolta di racconti Il dono di sangue del sale perduto. Titolo un po’ complicato che potrebbe far pensare a certe derivazioni new age, ma che invece vive sull'onda di antiche canzoni, dei paesaggi marini di Cape Breton e Terranova, della vita agra e rurale in un territorio duro, aspro, a volte, spietato. Racconti che sono stati celebrati da Joyce Carol Oates (“Nella prosa limpida di Alistair McLeod si ritrova tutta la musicalità delle ballate tradizionali, tutto il mistero della vita e della morte”) così come da Alice Munro (“E' davvero difficile infondere nella scrittura l’incanto e la magia di cui è capace Alistair McLeod”). Se poi si aggiunge il fatto che Alistair McLeod è stato paragonato di volta in volta a Ernest Hemingway, William Faulkner e Mark Twain, si capirà perché Il dono di sangue del sale perduto e Calum il Rosso siano due libri da non perdere. A maggior ragione, Calum il Rosso. E’ la storia di un clan che dalla Scozia si trasferisce in Canada, guidato dal capostipite, Calum il Rosso, appunto. Per generazioni e generazioni la storia dei McDonald si spiega tra le due coste e viene ricostruita nei ricordi, nella memoria, nel tempo che sembra scorrere inesorabilmente sopra le loro esistenze. Dalle battaglie medioevali alle miniere (più o meno) moderne la saga viene ricostruita nel dialogo tra due fratelli, Alex e Calum, che la vita ha portato su strade diverse, forse perché “a volte è difficile scegliere da quali cose lasciarci toccare nei momenti più inadatti”. Nei loro discorsi vengono a galla emozioni e segmenti del passato, ma anche una complessa elaborazione linguistica frutto di qualche secolo di migrazioni, missioni, canzoni, storie, incontri e scontri. Racconta Calum il Rosso: “Nelle baracche della miniera di notte si sentivano gli uomini che sognavano in lingue diverse. A volte gridavano parole in portoghese o in italiano, in polacco o quella che fosse la lingua del paese da cui venivano. Erano grida di incoraggiamento o di allerta o di paura e a volte erano più dolci espressioni d'affetto o d'amore. Nessuno sapeva che cosa dicessero, tranne quelli che condividevano una sorta di passato comune. Anche noi sognavamo, i più vecchi in gaelico, e anche i franco-canadesi avevano i loro sogni. E in Sudafrica i nostri fratelli dicevano che anche gli zulu parlavano nel sonno”. Sono i ritmi del linguaggio, le forme delle frasi (“Le parole in sé erano più importanti del loro significato”), i tempi che Alistair McLeod detta al racconto, ai dialoghi a rispondere alla domanda che c'è nella profondità delle fondamenta di Calum il Rosso: “Ci pensi mai, al modo in cui parli, alla lingua del cuore e alla lingua della testa?”. Con questo splendido romanzo non solo Alistair McLeod articola una risposta chiara, concreta e nello stesso aperta ad orizzonti oceanici, ma si conferma anche tra le (poche) sorprese letterarie degli ultimi anni. 

lunedì 14 marzo 2011

Sam Shepard

La solitudine, l’alienazione, l’emarginazione e ogni altra odissea umana ovvero tutti i temi preferiti da Sam Shepard trovano in Motel Chronicles una sorta di elevazione al massimo esponente dove la scrittura è qualcosa che va oltre le parole, perché “dicono che le parole sono incomprensibili”. Allora è come guardare da una finestra, in una notte eterna che “ci tiene sotto luce”, per vedere qualcuno in bilico sul confine della propria. L’immagine è scavata nelle ombre, nitida e precisa: “Lavò la sua camicia rossa nel lavandino. Stese sul pavimento un asciugamano del motel. Stese la camicia sopra l’asciugamano. Mentre lisciava le maniche e le incrociava sul ventre della camicia pensò alla propria morte”. E’ facile pensare che quella stanza pagata pochi dollari sia nella stessa contea di Paris, Texas: “dentro” e “fuori”, i due estremi significativi della scrittura di Sam Shepard si svolgono per immagini perché “ogni fotografia è un punto di vista” e guardare le parole, piuttosto che leggere, aiuta ad avere molti pensieri che si possono “chiamare alleati”. La scrittura di Sam Shepard è, soprattutto a questo stadio, quello di Motel Chronicles classica e indefinita, indefinita proprio perché classica, classica proprio perché indefinita. La costruzione delle frasi è fatta un passo dopo l’altro, una parola dopo l’altra, frammenti e schizzi che vanno ad associarsi senza uno schema preciso, almeno in apparenza. E’ l’espressione di un’impressione, di un’emozione, dell’immediato ed è qui che diventa esplicita la sua congenita vicinanza al linguaggio del rock’n’roll. Le parole sono tagliate e assemblate a colpi di accetta, come se fossero Polaroid, incisioni profonde e precise che hanno gli stessi effetti di un riff in una canzone: ti prende e non ti molla più. Per fissare un punto nella geografia della vita gli serve una riga, poco meno, poco più: “All’improvviso fui colto da un panico spaventoso. Ero tra questi due mondi. Il mondo che mi ero lasciato alle spalle e questo nuovo mondo. Non avevo idea di dove andare”. I rifugi provvisori e senza difese di una camera di motel o dell’abitacolo di un automobile sono piccole ed effimere illusioni anche perché “la gente qui è diventata la gente che fa finta di essere” e non riguarda soltanto Hollywood e la California. E’ “fuori”, è “dentro”. E’ nella scrittura di Sam Shepard ed è nella lettura di chi legge che si chiede (e si risponde): “Qual è il punto da cui diventa pericoloso spingersi oltre? E mi resi conto che il momento delle domande arriva quando pensi di esserti già spinto troppo in là”. Fuori ormai c’è il deserto, un posto dove la parole non contano più nulla perché comunque per chi aggiorna le Motel Chronicles “non cambia niente. Tanto vale non saperlo se proprio vuoi la verità. Tanto vale prenderla come viene. Senza scaldarsi tanto. Se mi dissolvo mi dissolvo. Punto e basta. Tanto vale dissolversi in pace”. Leggerlo è come sbirciare attraverso una fenditura di luce: “dentro” e “fuori” a uno film stupido “sì, ma mai come la vita”.

domenica 13 marzo 2011

Louise Erdrich

E’ la storia di un amore disperato volto al sacrificio e alla pazzia. Irene è moglie di Gil e madre dei suoi tre figli. Più di tutto è la sua (unica) modella perché Gil è un pittore affermato e instabile. Sono una coppia estrema, ammirata e invidiata, ma il loro matrimonio è diventato una gabbia: si amano senza limiti seguendo “la ferocia che c’era tra loro, la necessità”. Qualsiasi cosa, una discussione, una notte di sesso, una piccola questione famigliare viene espansa ai confini della tolleranza umana. Per sopravvivere l’amore ha bisogno di ben altre condizioni e sanno anche loro che “l’infatuazione, l’attrazione improvvisa, è in parte una febbre di superfici, una mancanza di conoscenza. Innamorarsi viene quando amiamo la maggior parte delle cose che sappiamo dell’altra persona e possiamo tollerare i difetti che non si possono cambiare”. Irene e Gil invece non si vedono proprio limiti e anno dopo anno, tra loro la tensione diventa insopportabile. Gil, accorgendosi che Irene tiene un diario lo va a leggere temendo di essere stato tradito. Quando Irene si accorge della sua intrusione, la sfrutta scrivendo storie di amanti che non ha mai avuto. La provocazione dovrebbe servire per allontanarsi da Gil, spigendo l’accelleratore verso la separazione e invece innesca una spirale emotiva e psicologica devastante. La coppia s’infila in quel cul de sac dove l’amore diventa un rituale cannibalesco. Lei continuava a vedere in lui qualcosa “in mezzo a tutta la merda che volava, una fiamma regolare e costante”, come dirà poi una piccola ed efficace testimone. Lui coltiverà qualcosa che “qualcuno la chiama rifiuto. La gente ci scherza sopra, o arriva al punto di guardare dall’alto in basso coloro che restano testardamente attaccati a un’idea senza speranza, specie quando si tratta di una relazione. Eppure, in certe persone il rifiuto può essere visto come qualcosa di nobile. Può essere visto come una forma di sacra follia”. Con i figli innocenti, ma non ignari testimoni della tormentatissima love story, Irene e Gil rimaranno legati fino alla fine, su cui, vista l’evoluzione di Passo nell’ombra, è lecito non aggiungere di più. Louise Erdrich scrive come se avesse una partitura musicale davanti, battendo su un ritmo poco mosso ma inesorabile e preciso. Scandito da due citazioni musicali che, non a caso, circoscrivono il Passo nell’ombra. Joni Mitchell evocata en passant all’inizio mette in chiaro subito quale sarà il tono generale. Viene da pensare che i dischi in sottofondo siano quelli della maturità, ovvero Wild Thing Run Fast e soprattutto Night Ride Home, quest’ultimo anche perché presentava una Cherokee Louise con i lineamenti della Louise di Passo nell’ombra e, chissà, forse della stessa Louise Erdrich. La citazione di Gordon Lightfoot nel finale è invece molto più calibrata ed esplicita. Va scoperta da soli perché è una specie di sigla in fondo a un romanzo amaro e toccante, costruito in modo geniale e svolto con una grazia, proprio nella scrittura, a dir poco emozionante. Un capolavoro.

mercoledì 9 marzo 2011

Paul Beatty

Originario di Los Angeles, fin dal suo esordio, Paul Betty ha mostrato di conoscere a fondo le realtà dei ghetti, l'evoluzione delle metropoli e soprattutto la storia dei rapporti razziali in America che emerge violentemente in tutte le pagine de Il blues del ragazzo bianco. Titolo ironico e tagliente perché Gunnar Kaufman, il protagonista principale, è nero senza via di scampo (il racconto del suo albero genealogico fino ai bisnonni e bisavoli è esilarante e drammatico nello stesso tempo), vive a Hillside, Los Angeles, un quartiere ad alto rischio, per dirla con un eufemismo: i poliziotti girano con il nome di Babe Ruth (il celebre campione del baseball, a scanso di equivoci) inciso sugli sfollagenti, all’entrata delle scuole medie ci sono metal detector, le gang spadroneggiano e a undici anni non è poi così strano avere una pistola infilata nei calzoni. In questo avamposto del medioevo prossimo venturo Gunnar Kaufman scopre le sue amicizie e le sue vocazioni, il basket e la poesia, nonché il lato oscuro dell'America (il romanzo è ambientato nei primi anni Novanta, all'epoca del pestaggio di Rodney King, del successivo processo e dei cruenti scontri di Los Angeles) che traduce così: “Sono stati cinquecento anni deliziosi, ma è tempo di andare. Stiamo abbandonando la nave America che affonda, alleggerendo il suo carico lanciando le nostre storie fuori bordo, gettando in mare il presente e tirando in secco il futuro. L’America nera ha abbandonato i suoi bisogni in un mondo dove le aspettative sono illusioni, ha rifiutato di sviluppare ideali e tradizioni in una società che applica i principi senza principio”. Nella sua esuberanza giovanile Il blues del ragazzo bianco soffre di una certa prolissità, ma è facile credere sia dovuto ad un eccesso di entusiasmo: Paul Betty scrive e racconta sempre sul filo del rasoio tra sarcasmo e ironia, tra farsa e tragedia, partendo da una realtà per niente poetica per arrivare a competere con i grandi narratori afroamericani. Per presentarlo qualcuno ha scomodato i nomi (sempre bianchi) di Tom Robbins e Kurt Vonnegut mentre Paul Beatty forse sogna L’uomo invisibile di Ralph Ellison e scrive (bruciante, slang, ritmico) come Chester Himes: non si tratta di un’affinità razziale, ma di un modo elastico, poliedrico di intendere il linguaggio, la storria, l'arte stessa dello scrivere e del narrare. Tra le righe Paul Beatty cita Céline, Amiri Baraka (già LeRoi Jones), John Dos Passos e poi scrive: “Mi venne in mente che forse le poesie sono come i raffreddori. Forse avrei sentito arrivare una poesia. Avrei percepito un peso sul petto e mi sarebbero venuti gli occhi umidi e la febbre, e alla fine un fischio nelle orecchie avrebbe annunciato il profilarsi di versi eterni”. Divertente, caustico, caotico Il blues del ragazzo bianco è anche una specie di sottile, laconica presa di posizione: ci sono pochi modi per uscire dal ghetto (quale che esso sia) e le poesie non sono seconde a nessuno, almeno fino a quando personaggi come Gunnar Kaufman andranno a scriverle sui muri.

 

martedì 8 marzo 2011

Ronald Everett Capps

C’è in fondo un filo di speranza che affiora dalla palude di perdenti raccontata da Una canzone per Bobby Long. Una vita può essere travolta dagli eventi, dalle passioni, più di tutto dall’autoindulgenza, ma prima o poi avrà una piccola occasione per riscattarsi o almeno questo è quello che succede nella storia di Bobby Long quello che Ronald Everett Capps ha ritratto come “un essere imperfetto”, tormentato da una legione di demoni interiori accuditi con assiduità da continue e robuste dosi di alcol. Bobby Long è un caso umano e Byron Burns, il suo compagno di avventure, non è di meno. Il sodalizio quotidiano, fortificato dalla frequentazioni di molte e differite fonti di piacere, dalla poesia alle chiacchiere in riva al fiume produce una dichiarazione d’intenti che suona un po’ come un’apologia dei losers quando dicono: “Abbiamo sempre avuto una smania di vivere persino eccessiva e non abbiamo mai capito tutti quelli che non l'avevano. La vita ce la siamo sempre goduta. Non siamo mai stati spettatori della vita”. Su questo non c’è alcun dubbio perché, pur contando la pigrizia e l’indolenza che scandiscono il loro lunario, Bobby Long e Byron Burns sono due outsider che hanno combattuto e difeso la diversità di un mondo che, nel bene e nel male, si sono creati da soli. Ronald Everett Capps, che non deve essere del tutto estraneo a quella particolare fetta di genere umano, ne racconta tutte le gesta, le avventure nonché i picareschi amici con il taglio asprigno dei grandi storyteller sudisti: Flannery O’Connor, Tennesse Williams, William Faulkner sono i precedendi sull’albero genealogico dello scrittore, ma va anche ricordato John Kennedy Toole, visto che la sua “banda di idioti” condivide parecchi argomenti dell’allegra compagnia di Bobby Long e Byron Burns. Vivendo nell’America a cavallo degli ultimi due secoli, non gli mancano però spunti polemici come quando scrive: “L'istruzione è quello che serve per condurre una vita felice. Il sapere è mera informazione e l'istruzione è quello che ci vuole per essere felici. Qualunque forma di sapere che non contribuisca alla tua felicità non fa parte della tua istruzione”. E' proprio lì che Bobby Long e Byron Burns trovano un motivo di redenzione dopo le alluvioni di alcol e le infinite odissee da un buco all'altro dentro e attorno a New Orleans: insieme si dedicano a educare Hanna, una ragazzina sola e disperata che grazie alla gentile assistenza dei due losers troverà una via d’uscita dalla disperazione e dalla solitudine. Il tentativo di non farle ripetere errori che conoscono fin troppo bene ha vari gradi di difficoltà, non ultimo il fatto che nessuno, a partire da Bobby Long vuole rinunciare a nulla, ma alla fine sembra funzionare. Non è la fine perché come è naturale e giusto che sia Bobby & Byron sono troppo anarchici e inaffidabili per godere della loro piccola vittoria, ma se è vero che, come dice uno di loro, “per avere un'istruzione, basta solo un dannato romanzo”, forse Una canzone per Bobby Long è quello giusto.

Charles Portis

“La gente non riesce a credere che una mocciosa di quattordici anni è capace di andarsene di casa in pieno inverno per vendicare la morte del padre, ma a quei tempi non sembrava tanto stravagante, anche se devo ammettere che non capitava tutti i giorni”. C’è già l’intera storia del Grinta nel suo incipit: il resto è da leggere (o da vedere) tutto d’un fiato, senza grandi pretese e con grande piacere. Charles Portis scrive in un modo molto piano, con un senso pratico delle immagini, delle scene d’azione (non deve essere un caso se Il Grinta è diventato un film per ben due volte) e mettendo sul piatto una versione del paesaggio del West che non concede molto alla mitologia ed è piuttosto impregnato della violenza della “frontiera” a cui aggiunge una dose abbondante di ironia. La trama è elementare e a senso unico perché si articola nella terra di nessuno tra vendetta e giustizia, un terreno piuttosto fertile nella frontiera americana, con contorno di furbizie e ricatti e trattative e grilletti facili: il viaggio intrapreso dalla piccola Mattie per vendicare l’assassinio del padre è l’iniziazione alla natura selvaggia del West e insieme alla mutevolezza della forma dei legami, sottoposti a tradimenti, colpi di testa, menzogne ma anche improvvisi slanci di generosità e coraggio. Anche perché le figure dei fuorilegge tendono a confondersi, non sono mai definite, si muovono come ombre su una linea indefinita. Lo stesso Grinta ha un passato turbolento e oscuro (e non sempre dalla parte giusta) come oscura e turbolenta è la storia del West, che Charles Portis mostra di conoscere a fondo e in modo non banale. Molti dettagli, a partire dai filamenti storici della guerra di secessione, il caos primordiale da cui sono nati gli Stati Uniti d’America, fino ai particolari, precisi e minuziosi, del funzionamento delle armi e del loro inevitabile uso, per non dire del melting pot e della wilderness, sono cesellati in modo raffinatissimo nel viaggio del Grinta, di Mattie e del ranger LaBoeuf senza togliere nemmeno un battuta al ritmo serrato del racconto. La cui evoluzione è sì naturale e, in prospettiva, persino ovvia nel contesto dei luoghi comuni del West, ma non è priva di colpi di scena. È vero che sono i segugi a seguire le piste, a reggere i cavalli e a tenere le armi a portata di mano, ma poi è sempre il fato, un miraggio o un errore a introdurre un nuovo salto nel vuoto. Fino al gran finale che è movimentato, spettacolare, con tutti i protagonisti in condizioni epiche tra cariche a cavallo, tiri di precisione, crotali e duelli mortali. Molto di più non si può aggiungere perché il romanzo, nonostante ormai si sappia più o meno tutto, contiene non pochi elementi di sorpresa. Bisogna dire però che, finita la caccia all’uomo, la breve e malinconica coda riporta l’attenzione agli show del Wild West, con sceriffi e fuorilegge ridotti a fenomeni da baraccone, destino che hanno condiviso con altre leggende americane e ricorda la fine impietosa di un mito duro a morire.

giovedì 3 marzo 2011

Colin Harrison

Due inservienti di origine messicane vengono uccise in modo atroce, soffocate nella loro macchina dai liquami di un camion di spurgo, alla fine di una dura giornata di lavoro. L’imprenditrice cinese che le ha assunte, Jin Li, che era con loro, si salva per caso. Quando Jin Li vede le due ragazze, con cui era in macchina a ridere e a fumare appena un attimo prima, morire asfissiate da un feroce getto di merda, capisce che era lei il destinatario del carico mortale perché al centro di una complessa macchinazione tra investimenti e speculazioni di ogni genere e specie. Da lì omincia a correre nella “notte sopra Manhattan” perché la salvezza si può trovare soltanto fuggendo. Forse, perché questione di spazio e di tempo, ma chi ha provato la troverà e non sbaglierà una seconda volta: allora Jin Li si deve nascondere, si deve muovere tra “mondi dentro altri mondi”, se vuole sperare di rivedere viva la luce del giorno. Anche perché lei sa, non ha bisogno di intuire, che qualcuno potrebbe volerla in cima alla lista di un obitorio di NYC. Con il fratello, uno speculatore che la dirige dall’Estremo Oriente, ha organizzato un riciclo di carte e ritagli, che recupera dalla spazzatura, per recuperare informazioni preziose sui mercati azionari di tutto il mondo. “Un affare decisamente interessante: ingannare la legge, e riscrivere il copione del capitalismo occidentale”: il gioco pericoloso rende perché l'azienda di Jin Li ripulisce uffici di amministratori delegati, direttori generali, azionisti e altre pedine essenziali al mondo degli affari e le informazioni che ricostruisce, un pezzo alla volta, partendo dai sacchi della spazzatura permettono al fratello e a tutto un nugolo di speculatori di far piazza pulita sui listini. Lei stessa credeva che il mezzo fosse quello giusto perché “La vita era una questione di fortuna, ma non voleva dire che si dovesse aspettarla passivamente: non quando mille altre persone bramavano esattamente ciò che avevi tu. Era così che il desiderio di molti creava opportunità per i pochi”. Qualcuno però deve avere scoperto qualcosa, ma Jin Li non riesce a immaginare chi o cosa e si deve rintanare negli angoli più bui della città, mentre tutti la cercano: suo fratello (infine giunto a NYC), il suo ex fidanzato (Ray Grant, uno che sa come cavarsela) e poi Victor, il killer psicopatico che l’ha mancata la prima volta. Attorno agli elementi essenziali, per non dire tradizionali, del thriller, Colin Harrison confeziona un romanzo che tiene insieme, grazie alla scrittura densa e ritmata, un quadro per niente rassicurante sui mercati azionari, una miscela di etnie e razze non sempre propense al cosmopolitismo e una serie di personaggi che sembrano interpretare da protagonisti i principali peccati capitali, ladrocinio e omidicio prima di tutto. Detto questo, La notte sopra Manhattan pur senza particolari velleità scorre ed è una lettura piacevole come potrebbe esserlo un buon b-movie (con cui ha più di una parentela), e forse è altrettanto onesto non chiedergli di più.